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Una città affamata di teatro: Vivaio a Terlizzi

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Dal 25 al 28 luglio a Terlizzi si è tenuta la seconda edizione di Vivaio – Coltivare il Teatro in Città, rassegna di spettacoli, performance e incontri organizzata da VicoQuartoMazzini e la Cooperativa Sociale Zorba. Un racconto e un attraversamento del festival nato dall’esperienza di Apriti Millico, progetto di audience development curato da Michele Altamura.

Foto Francesco Confalone

Per raggiungere il centro storico di Terlizzi, 30 km a nord di Bari, superate un paio di rotonde, ci si immette nella lunga via Mazzini che si snoda accompagnando il grigio dell’asfalto verso il biancore sempre più acceso delle case e delle chianche – la tipica pietra pugliese che pavimenta le strade. Contando il numero di vicoli che si affacciano sul suo tracciato, alzando lo sguardo nel calore assolato del pomeriggio, si intercetta quel Vico Quarto Mazzini che Michele Altamura e Gabriele Paolocà portano dal 2010 in giro per l’Italia. Dopo l’Accademia Nico Pepe di Udine, è in un monolocale di Terlizzi che è nata e si è consolidata l’esperienza nazionale della compagnia teatrale. Eppure a Terlizzi un teatro attivo non c’era all’epoca e non c’è tuttora. Lo storico Teatro Millico, aperto nel 1878 e seriamente danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato restaurato nel 1964, adattato a cine-teatro e snaturato nella sua elegante fisionomia all’italiana, per poi conoscere la deriva di tanti cinema di provincia: un ultimo sprazzo di programmazione a luci rosse, poi il fallimento e la chiusura. Ormai è chiuso da oltre trent’anni. Eppure il Comunale è stato fortemente voluto dalla cittadinanza fin dalle origini. La sua costruzione durò oltre quarant’anni «per mancanza di fondi e anche per l’agguerrita opposizione del vescovo di Molfetta preoccupato che un teatro costituisse un pericolo per la salute morale dei cittadini». Una foto degli anni ’10 ne racconta tutta la vivacità, i balconi della facciata neoclassica affollati di cittadini, un edificio che all’epoca ospitava anche la Casa Comunale, concetto che oggi evoca romantiche utopie. La cittadinanza terlizzese reclama ancora fortemente uno spazio di condivisione, di dibattito culturale, di fruizione teatrale. Lo dimostrano gli oltre 120 partecipanti del progetto Apriti Millico: nato per iniziativa popolare e curato da Michele Altamura, è giunto alla sua terza edizione ricevendo nel 2023 anche il riconoscimento del Ministero della Cultura come progetto speciale. Mentre amministrazioni comunali e comitati tecnici continuano a rinviare l’avvio dei lavori di restauro e messa in agibilità del teatro, che sembrava imminente con l’arrivo dei fondi del PNRR, la cittadinanza si prepara ad accoglierlo, popolarlo, viverlo, andando a intercettare il teatro contemporaneo in giro per la regione e per l’Italia. A bordo di un pullman, cittadini di età variegata raggiungono teatri di città limitrofe o in alcuni casi anche festival fuori regione, come Kilowatt e Primavera dei Teatri, non soltanto per assistere a spettacoli che non avrebbero altrimenti occasione di vedere, ma soprattutto per dialogare con artisti e critici, sviluppare riflessioni e fare domande, portare la propria esperienza e identità nell’incontro, generare un dibattito fertile in entrambe le direzioni. L’idea a lungo termine è che siano i cittadini stessi a dirigere collettivamente e dal basso il teatro della propria città. Quella a breve termine è fare pressione, una pressione sentita, pacifica ma determinata, perché si coltivi il teatro in città.

Il pubblico di Vivaio. Foto di Francesco Confalone

Vivaio è dunque il nome perfetto per un festival espressione di questa energia, che da due anni abita luoghi variegati del comune pugliese famoso per i suoi fiori. Michele Altamura, che ne cura la direzione artistica, spiega come questo appuntamento sia stato in qualche modo una naturale conseguenza di Apriti Millico, nato cioè dal vivo desiderio di quegli spettatori non professionisti di avere, dopo tanto peregrinare, il teatro anche a casa propria. Vivaio infatti non assomiglia, per fisionomia né per velleità, ai moltissimi altri appuntamenti festivalieri estivi, dove si affollano eventi spesso attrattivi soprattutto per gli operatori. Lo spirito è quello dell’incontro attorno all’evento teatrale, di un dialogo con il territorio che non sia mera formula promozionale da brochure, ma spontanea necessità di una comunità. Michele Altamura indossa le vesti di direttore artistico nella maniera il più informale possibile, mettendo cioè al servizio di una causa comune competenze ed energie tanto più vive quanto chiamate in causa dal basso. In un coerente innesto tra occasione e necessità, Altamura sceglie di orientare l’offerta culturale di Vivaio sulla creazione emergente, compagnie che difficilmente altrimenti arriverebbero a queste latitudini, quelle più vicine metaforicamente al germoglio da coltivare, curare, attenzionare. Come sono da coltivare e curare gli spettatori, qui scarsamente esposti all’esperienza teatrale tout court e in special modo al contatto con lavori di recente creazione, fragili e delicati benché già avviati verso un’identità riconoscibile.

Foto Francesco Confalone

L’effetto è di stimolare ascolto e accoglienza reciproche: «Lo spirito di Vivaio è quello di uscire dal meccanismo di consumo della cultura, ma accogliere in questi luoghi le compagnie, stare con loro, fargli sentire il nostro affetto e il nostro sostegno nel loro lavoro», spiega Altamura. Gli artisti coinvolti – tutti under 35 – sono invitati a presenziare al festival nella sua interezza e nella sua voluta lentezza, perché la performance non sia l’unico scopo dell’attraversamento del territorio, ma sia motivo di contatto, scambio, condivisione. Ci si ritrova così attorno ad un tavolo, in un corridoio tra le case, con i capelli ancora freschi di salsedine – il mare da qui è poco distante – artisti, spettatori, curiosi operatori. Nello stesso spirito gli appuntamenti sono preceduti e seguiti da incontri con le giovani risorse del territorio –  “germogli” non necessariamente legati al mondo del teatro, intercettati e presentati dalla locale Cooperativa Sociale Zorba – e con gli artisti stessi, invitati a raccontarsi seduti sulle scale di ingresso di una scuola o tra i fiori di un vivaio.

Il primo appuntamento dell’edizione 2024 riunisce la comunità di spettatori negli spazi di una scuola media, l’istituto Gesmundo, chiuso alla didattica per la pausa estiva e significativamente aperto al non-spettacolo di Usine Baug, dal titolo Un viaggio che non abbiamo fatto. Il collettivo fresco di premio Forever Young 2024 qui presenta un’installazione interattiva che evoca un viaggio impossibile, quello in Palestina. «Questo non è uno spettacolo perché questa volta lo spettacolo è impossibile»: all’ingresso una lavagna introduce al percorso tra simboli, oggetti di uso comune, illustrazioni, musica, testimonianze raccolte dalle locali comunità palestinesi quanto da gruppi teatrali attivi in Palestina fino al 7 ottobre. Le finestre aperte di un’aula scompigliano parole sospese, racconti di giovani vite che attendono di essere lette ad alta voce da chiunque passi a chiunque passi, storie piccole e grandi di un popolo che «ostinatamente rimane». Un’inedita esperienza culinaria raccoglie curiosi e spettatori attorno ad una tavola imbandita di piatti tipici palestinesi: il cibo affratella ad ogni latitudine, mentre la storia orrendamente si ripete nella legittimazione generale.

Cattiva Sensibilità di Martina Badiluzzi a Vivaio. Foto Francesco Confalone

Al calar della sera il cortile della scuola diventa una piazza, dove è possibile mangiare un pizzarello e bere una birra. «Ora entriamo, spegniamo i cellulari, non facciamo le foto perché è inutile, vengono male». «Miche’, va bene, ma io mi voglio sedere!», ribatte Renata. E allora andiamo a sederci nell’auditorium della scuola, percorrendo un corridoio pieno di cartelloni e disegni di allievi, un luogo vivo. Il riverbero di senso che si innesca tra Cattiva Sensibilità di Martina Badiluzzi e il luogo fisico in cui va in scena è ancora più forte del previsto. Il lavoro di Badiluzzi, che all’origine avrebbe voluto attraversare gli scritti e la figura di Charlotte Brontë, diventa durante le prove di maturità 2023 una urgente riflessione sulla scuola e sulle responsabilità degli insegnanti. In un monologo accompagnato dalla sonorizzazione dal vivo di Samuele Cestola, Barbara Chichiarelli sfoggia tutte le sfumature di una donna ritrovatasi adulta, dall’altra parte della cattedra, eppure ancora figlia ribelle, tesa alla fuga. La grammatica è diventata lo strumento di trasgressione, l’appiglio contro l’incertezza. Ma come trasmettere quest’idea se quello che viene richiesto dall’alto è un latente indottrinamento mascherato da cultura? Al di là delle amare considerazioni sull’odierna e anacronistica concezione italiana di istruzione, col ministero che insiste sul concetto di merito così come impone quello di patria, la luce al neon illumina e nasconde il turbamento di una generazione di mezzo, adulta e mai cresciuta, madre e figlia di questa epoca.

Foto Francesco Confalone

Lo dimostra e in qualche modo lo conferma il dibattito che si accende poco dopo lo spettacolo, quando un gruppo di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni corregge i temi redatti da una decina di over 35 su una traccia da loro proposta qualche giorno prima e proprio in vista di questo appuntamento teatrale. La richiesta che hanno fatto agli adulti, a mo’ di prima prova della maturità, è di ragionare sulla generazione Z: quella degli smartphone e della lotta per il clima, dei Neet e delle autostrade bloccate, variegata e in ogni caso criticata, travisata, mai davvero ascoltata, dicono. I liceali, nel ruolo di insegnanti/giudici non sono contenti: tutti gli adulti-allievi sono andati fuori traccia, nella migliore (o peggiore) delle ipotesi dando loro solo grandi pacche sulle spalle. Niente che inneschi un dibattito. Niente che apra ad un confronto. «Allora perché avete votato questo governo?». Qualcuno dal pubblico tenta di difendersi: il mondo adulto, il fronte “nemico” della Gen Z è in realtà un mondo iper frammentato in cui ognuno paga e sconta gli errori della generazione precedente. Siamo tutti gli adulti di qualcun altro, siamo stati tutti la gen Z di qualcun altro. Usciti dalla scuola e nel cortile il dibattito continua a capannelli, l’esito dello scrutinio rimane lo stesso: tutti bocciati.

Still Alive di Caterina Marino a Vivaio. Foto di Francesco Confalone

Nel sole del mattino Terlizzi risplende di bianco, sul marmo delle chiese svetta il verde della vegetazione, la città si prepara a onorare il santo patrono. A gruppi ci si ritrova tra un caffè al ghiaccio e un prosecco, nella calma lentezza di fine luglio. Al tramonto gli spettatori sono invitati a raggiungere un vivaio, eccellenza della zona, e tra quei fiori si continua senza sforzo di coerenza un discorso mai chiuso.
Caterina Marino avvolta nel suo piumone bianco va in scena con Still Alive. Una confessione anche questa, non più in cattedra ma al lato opposto della vita. Quella condizione di immobilità di chi si affaccia sulle infinite possibilità di futuro che pesano come doveri e resta sospeso. A contemplare i fiori che tutto intorno colorano la notte che arriva. Marino, occhi grandi e pieni nella sua figura minuta, ritrosa, compressa a occupare meno spazio possibile, dà del tu alla platea che con lei soffre, respira, ride. Chiede qualcosa da mangiare per condividere un disagio senza nome, disperato e buffo, mentre silenziosamente Lorenzo Bruno si aggira tra la scena e la platea per accudirla e sostenerla. In uno spazio aperto questo lavoro diventa più fragile, privato di quell’intimità naturalmente concessa dall’edificio teatrale. Il pubblico di Terlizzi compensa numeroso, attento. Qualcuno si alza e si sposta al lato della platea, in piedi per meglio vedere o per più direttamente partecipare. Forse chi scrive sta intralciando la visione. Essere in questo luogo in veste di operatrice mette un sottile disagio, la sensazione di alterare con sguardo curioso e indagatore un momento comunitario di spontanea aggregazione, libero da pretese speculative e perciò più fertile di senso. Coltivare è un lavoro paziente, lento, che accanto alla filosofia mette il sudore, le mani sporche di terra, il timore e la speranza della pioggia. Troppa acqua può soffocare la pianta e troppo sole bruciarla. Soprattutto se si coltiva nutrimento per vivere e non merce da vendere.

Sabrina Fasanella

Vivaio – Coltivare il Teatro in Città
25-28 luglio 2024, Terlizzi (Ba)
Un progetto di VicoQuartoMazzini e Cooperativa Sociale Zorba
con il sostegno di Ministero della Cultura, Comune di Terlizzi, Camera di Commercio di Bari e la Media Partnership di Rai Radio 3.

Direzione Artistica Michele Altamura
Direzione tecnica Michelangelo Volpe
Illustrazione e grafica Roberta Cagnetta
Ufficio Stampa Francesco Mazzotta

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