In avvio della nuova edizione di Bolzanodanza, due importanti appuntamenti: la Gautier Dance Company di Stoccarda e il nuovo ‘concerto di danza’ di Luna Cenere e Antonio Raia.
A Bolzanodanza si festeggiano i 40 anni del festival, in vista della futura direzione artistica, già affidata a Olivier Dubois, affiancato dalla manager culturale Anouk Aspisi. Per l’occasione trovo, in un incontro pubblico, tutti schierati i precedenti direttori e le direttrici della manifestazione (e dei corsi di danza, che per anni si organizzavano paralleli). Una sorta di consesso plenario per festeggiare e fare il punto. Così Loredana Furno (prima direttrice artistica) ricorda, nei suoi anni, la improvvisa defezione del Ballet du Nord (bloccato a Carcassone!) e il precipitato ingaggio dell’allora Balletto di Venezia diretto da Pippo Carbone in sostituzione, che prontamente rispose e si alternò sul palco agli interventi solistici di Eric Vu An (che arrivava invece da Parigi): la serata così fu salva. In chiusura, impossibile non ricordare il toccante progetto Eden ideato da Emanuele Masi (direttore uscente) come risposta all’(infernale) isolamento imposto dalla passata pandemia: cancellato totalmente il programma del Festival 2020, in conformità con le necessarie misure sanitarie, nell’enorme sala del Teatro Comunale, un solo spettatore alla volta ha potuto assistere a un (breve) assolo appositamente creato (di volta in volta, nientemeno che da Carolyn Carlson, Rachid Ourandame e Michele Di Stefano): la danza come disseminazione di resistenza.
In apertura del programma 2024 è tornata, una volta di più, la Gautier Dance//Dance Company Theaterhaus Stuttgart, con un interessante programma dal titolo Elements: 4 diverse commissioni sul tema degli elementi (fuoco, acqua, terra e aria). L’idea può sembrare facile (in parte lo è, ma in parte no: perché la scelta di così diversi creatori di danza mette a vera prova le abilità della compagnia, la qualità del suo training e pure l’identità del suo repertorio), ma il tema ha almeno un precedente illustre: il 23 giugno 1937, Mikail Fokin debutta, al londinese Coliseum, con Les Élèments, coreografia realizzata sulla seconda suite orchestrale di J. S. Bach, per il Ballet de Monte Carlo di René Blum, secondo un’idea di barocco musicale organica alla natura, e alle sue forze elementari.
Per la Gautier, il primo elemento affidato a Sharon Eyal è il fuoco, e la creazione ha per titolo Alone. Non è granché (ma è l’unico): la solita proposta di Eyal, senza sforzo alcuno per una più inedita risposta a tanta consegna. La povertà di materiale è quella consueta: una totale assenza di vocabolario di movimento unita a scarsissima capacità inventiva. La musica ammiccante è tutta un beat che va a nastro; il gruppo sempre in unisono, quasi sempre al centro del palco, qualche collo colorato di rosso (fiammelle dal corpo?) in una insopportabile continuativa dittatura dei piedi in mezzapunta, i corpi superestesi chiusi in tutine inespressive, ma secondo un’estetica regressiva della quale si fa davvero fatica a comprendere il successo. Più che fuoco, carbonella.
(E qui si impone una lunga parentesi: saremmo anche stufi di vedere questa mercanzia, tutta manichea e francamente irreale, non necessaria dati i tempi: il mondo è a fuoco, e tanta banalità compositiva fa qui sembrare che la realtà sia tutta o bianca o nera, col conseguente leitmotiv: «o ti piace o la odi». Non ci sono sfumature, non ci sono scelte di complessità, perché è una danza che sembra sempre ingiungere: «o sei con me o contro di me». Ma quest* coreograf* di oggi, molto prêt-à-porter, che vedi ovunque perché tutti mettono in repertorio o in stagione, anche se fanno quasi sempre la stessa cosa, dovrebbero essere più attenti a questa facile eppure violenta corrispondenza con il pericoloso racconto di una realtà che non ha affondi, né prospettiva, e dunque, se del caso, incapace di risolvere questioni, porre problemi, se non proprio riconoscere crisi e conflitti e guerre).
Il secondo elemento, l’acqua, è stato affidato ad Andonis Foniadakis, che con Almira e solo 8 interpreti realizza un vasto mare (il suo mediterraneo), tutto giocato sulla velocità, senza davvero quasi mai requie. Solo nei momenti più distesi, si vedono i limiti di questo coreografo, capacissimo di una continuità mai sazia di movimento ma incapace di situazione, di teatralità (e che infatti qui è demandata soprattutto alle luci, importanti, di Sakis Birbilis). Questi corpi che sembrano mille, anche alludono al potere devastante dell’acqua che sommerge chi vi transita: un flusso di vita e di morte che intercetta le rotte migratorie senza scampo per la coscienza di ognuno. Il terzo, aria, è la più vera sorpresa del programma. Affidato a Louise Lecavalier che per la prima volta coreografa per una compagnia esterna. È un assolo strepitoso per Anneleen Dedroog dal titolo Ether, e riprende un assolo storico della canadese: So Blue. Dedroog è davvero potente, sicura e padrona di tanta energia in campo, e bellissima, con anche un lavoro degli arti a terra molto misterioso e molto curioso… con le continue accelerazioni e gli sguardi al pubblico, già in avvio con il sipario già aperto, mentre luci rettangolari illuminano a zone il palcoscenico che ospita a sinistra anche un ventilatore. La musica (di Arkin Allen a.k.a Mercan Dede) è strepitosa, tutta in crescendo ma poi anche con momenti di quiete: l’aria qui è una tensione che sembra nutrirsi proprio della forza sua contraria, la gravità.
Infine, il quarto elemento, la terra, è consegnato a Mauro Bigonzetti che con Spiga realizza un pezzo per l’intera compagnia insolitamente malinconico, evocando terre di migrazione e terre di ritorni, quelle di chi resta. È il lavoro suo forse più brechtiano: l’intesa con gli interpreti è altissima e la terra cui si richiama il coreografo è mostrata (proprio nel senso del verbo tedesco Zaigen) ovunque: nei vestiti, nei canti, nelle musiche e pure nelle luci (magistrali, di Carlo Cerri). Così la coreografia unisce maestria e sapere di un’idea della terra alla quale tutto ritorna. Imperdibile la chiusura per gli applausi su un irresistibile mambo (e alla fine della serata, sono più di 2 ore di danza, difficile desiderare di più: grazie Masi).
Mercurio è invece il nuovo, intenso e inatteso, lavoro di Luna Cenere in coppia/nell’incontro con il sassofonista e compositore Antonio Raia. A partire proprio da una dissomiglianza e dissimetria dei due corpi (dati uno di fronte all’altro fin dall’avvio, in tutta la loro evidenza), eppure così prossimi, così rispettivamente simili, forse uguali di certo equivalenti. Cenere a corpo nudo, cerca di muovere lui, di tutto punto vestito. Raia lascia suonare lei, tra microfoni aperti o nell’atonale waterphone raccolto da terra. Il contrasto tra femminile e maschile non potrebbe essere segnato più forte. Eppure questa strana armonia androgina funziona: in avvio, vi è un’anatomia ricercata ed esibita nel nudo a proscenio, mentre dietro e di spalle avviene il live music con un sax pieno d’aria e di vuoto, tra due microfoni panoramici posizionati quasi a specchio, e di grande effetto spaziale del suono. In un secondo momento, i due microfoni intercetteranno anche le voci di lei, durante uno strepitoso assolo al centro (in una sorta di lotta al finito, al finibile, alla fine). È un lavoro cupo ma disteso e meditativo, senz’altro mercuriale perché da questo incontro di corpi musicali debordano nuovi reticoli visivi e sonori che sono tutti del positivo.
Stefano Tomassini