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HomeArticoliLa comunità estetica. LiveWorks 24 a Centrale Fies

La comunità estetica. LiveWorks 24 a Centrale Fies

Abbiamo visitato l’undicesima edizione di LiveWorks Free School of Performance, che si è svolta a Centrale Fies (Dro) in un weekend di luglio. Uno sguardo alle opere e un ragionamento sui sistemi sociali della performance.

foto di Alessandro Sala

Negli anni, la geografia del nostro sistema creativo ha cambiato molto spesso forma; certe faglie si sono spostate, certi cataclismi (come la pandemia da Covid-19) hanno rimesso in discussione la resistenza di alcuni circuiti e le motivazioni che li avevano generati. E però, allo stesso tempo, anche all’indomani di shock socio-economici così rilevanti si è assistito – complice un sistema di sostegno estremamente sclerotico – a un certo arroccamento delle strutture produttive e delle vetrine che i festival avevano fin qui rappresentato, portato avanti attraverso poche principali direzioni: un più specifico focus su questa o quella tematica; il consolidamento di figure artistiche ricorrenti nello stesso contesto; un’apparente spinta alla multidisciplinarietà, non sempre in grado di generare coerenza.

Come più volte raccontato nel tempo su queste pagine, Centrale Fies (a Dro, tra Trento e Rovereto) ha dimostrato di essere un luogo senza dubbio aperto alla sperimentazione di nuovi indirizzi di curatela, con una forte vocazione internazionale e uno speciale gusto per il rischio culturale. Lavorando costantemente su un territorio di certo in salute dal punto di vista economico, ma pure svantaggiato dal punto di vista logistico, il progetto diretto da Barbara Boninsegna – con Dino Sommadossi presidente e un grintoso team di organizzazione, comunicazione e ideazione – ha saputo costruire una solida rete di sostegno da istituzioni e partner locali, nazionali e internazionali e attirare a sé un pubblico eterogeneo e diverso da quello di altre imprese omologhe. E questo significa creare una relazione e una possibilità di scambio di idee e di pratiche, in un certo senso basata – senza troppa prosopopea – sulla costruzione di “affinità elettive” tra artiste e artisti, curatrici e curatori e tutte quelle persone che, con curiosità, attraversano il piccolo ponte di legno fino a quello strano castello che «non è un teatro».

foto di Alessandro Sala

Dal 2020 in poi, in particolare, la svolta più grande è stata interrompere il “convenzionale” schema del festival estivo per generare invece un cuore di attività che pulsa per tutto l’anno e che esplode poi in alcune aperture intensive nel corso della bella stagione. Dopo una visita a Enduring Love (2023), ci siamo invece concessi di abitare la Centrale nei giorni delle aperture di LiveWorks – Free School of Performance, progetto curato da Barbara Boninsegna insieme a Simone Frangi e con la curatela esecutiva di Maria Chemello, giunto quest’anno all’undicesimo «volume». In seguito a una chiamata pubblica, le varie sale del castello vengono assegnate per un anno ad artiste/i provenienti davvero da tutto il mondo, che offrono un open studio, quest’anno previsto tra il 19 e il 21 luglio.
Nel suo fortunato libro Estetica del performativo, la studiosa tedesca Erika Fischer-Lichte usa la locuzione «comunità temporanea» per identificare una specifica relazione tra performer e spettatore che si crea nella compresenza e che dipende da un continuo – e mai del tutto pianificabile – scambio di azione-reazione tra uno e l’altro soggetto (co-soggetti). Le comunità realizzatesi attraverso queste azioni collettive non devono affatto essere interpretate come comunità immaginarie e “fittizie”, dal momento che si realizzano di fatto come una realtà sociale. Una realtà sociale, tuttavia, che, a differenza di altre comunità sociali, esiste solo per un breve lasso di tempo e si scioglie al concludersi delle azioni compiute collettivamente.
Allora dare conto integrale ed esclusivamente analitico della tre giorni di LiveWorks non renderebbe forse giustizia all’eterogeneità che, programmaticamente, caratterizza il progetto; è piuttosto importante ancora una volta sottolineare quanto, nel caso di Centrale Fies, lo spirito (anzi, quasi la poetica) del luogo e dei suoi spazi sia parte integrante per la creazione di quel tipo di “comunità a tempo determinato”. Nel parco della Centrale si mangia e si beve insieme a performer e danzatrici, si ascoltano lezioni (Suhaiymah Manzoor-Khan, Francesca Albanese, Karem Rohana e Mackda Ghebremariam Tesfau, Brigitte Vasallo), si discutono sì le performance, ma ancor di più la necessità di star lì a farne esperienza, cercando di individuare traiettorie di senso.

Alessandra Ferrini, foto di Serge Domingie

Se è evidente, girando per festival di arti performative, il ritorno a un forte interesse per la memoria personale e le possibilità di archiviarla, anche qui si incrociano prospettive diverse, come quella di Time and Again di Valerie Tameu (vincitrice della Agitu Ideo Gudeta Fellowship) che, a partire da un album fotografico, tenta di ricostruire – scivolando in un eccessivo ermetismo – la propria afrodiscendenza, componendo una sorta di coreografia del ricordo; Alessandra Ferrini (Unsettling genealogies) allestisce e abita una stanza di cimeli ripercorrendo le radici fasciste della Biennale di Venezia, cercando una neutralità che potrebbe essere invece impreziosita da una più accurata ricerca sul metodo di composizione della performance.

Mohamed Ali Ltaief. foto di Alicja Khatchikian

Affascinante è il dialogo tra Melis Tezkan e l’artista Leone d’Oro Nil Yalter, la cui voce – raccolta in interviste affatto lineari e per questo forti nella loro natura rizomatica – è riordinata in una playlist che parla di amore, arte, femminismo, sorellanza. Un dialogo è anche quello tra Mohamed-Ali Ltaief, Lamin Fofana e Tarxun (The concretely WE: Voices From Within the Camp): l’incrocio tra due live programming ispira il performer nella ricerca sugli archivi sonori nordafricani custoditi al Berliner Phonogramm-Archiv; lo spazio è abbigliato di fonografi e consolle, illuminato da luci colorate, la plancia della Sala Comando ospita video diafani, fornendo all’azione, piena di glitch e però organica nel ritmo, un senso di “galleggiamento” di per sé suggestivo, anche laddove lo strato semantico si perde in un parlato indistinguibile.
Difficile ricomporre un filo drammaturgico alla performance di Eloy Cruz Del Prado in Good job, Good boy II (sketch I), in cui le radici della Spagna rurale nutrono le premesse, poi svolte dentro a un racconto autofinzionale sulla scoperta della sessualità e della queerness, mentre delle nacchere montate sul collo delle scarpe producono qualche segmento di coreografia ritmica interessante da sviluppare.

Liina Magnea, foto di Alessandro Sala

Resta invece impressa la prova di Liina Magnea in ssassin’s Creed (Lady says Stop), che in una forsennata performance fatta di danza e pantomima – brillante nel disegno drammaturgico delle cesure e coraggiosa nell’abitare l’immenso spazio delle due Turbine – riesce a comprimere un ragionamento sottile sulla capacità che le strutture di potere e di violenza hanno sullo sgretolamento dei ruoli sociali. Lo fa attraverso una complessa costruzione di gesti simbolici e un sapiente gioco di contatto visivo con gli spettatori, trascinati all’inseguimento di un’indubbia verve performativa, che finalmente non manca d’ironia.
Intrisa di dolcezza, tenacia e sorprendente talento è invece l’apparizione come guest artist di Kae Tempest, in grado di regalare una tirata di cinquanta minuti senza interruzione in cui si mescolano poesie e canzoni totalmente “a cappella”, tra sorprendenti cambi di registro lirico e un ritmo che ricorda ora T.S. Eliot, ora il rap cresciuto nelle strade.

Foto Alessandro Sala

La tre giorni si chiuderà con un vero e proprio rituale, nella Serra di legno, dove il marocchino Mohammed El Hajoui ha creato, attorno a un ulivo ancora da piantare, un tappeto di cenere setacciato in modo da riprodurre visivamente le trame di una Keffiyah (Ardna, in arabo “la nostra terra”). Un gruppo di fortunati visitatori si raccoglie attorno al quadrato e solleva insieme il telo di plastica steso in terra, per donare all’albero un augurio all’imminente innesto, in un’azione collettiva.

Comunità temporanee, dunque. Ecco, questa è forse la giusta definizione per il risultato complessivo che le aperture di LiveWorks possono generare. Le “condizioni di felicità” di queste comunità non consistono in una stabile condivisione di regole e convinzioni da parte di tutti i membri, ma prevedono semplicemente che componenti di gruppi, altrimenti distinti in base alla loro funzione, portino a termine collettivamente azioni capaci di costruire la performance nel suo peculiare carattere, all’interno del lasso di tempo di volta in volta determinato dalla performance stessa o, come in questo caso, dalla permanenza estesa nello stesso luogo che questo agglomerato di individui si concede, creando quella che Gianni Vattimo, ne La società trasparente (1989), definiva «comunità estetica».

Sergio Lo Gatto

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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