Recensione. Da Ravenna l’ultimo lavoro cittadino del Teatro delle Albe, a partire da Don Chisciotte.
C’è un antico palazzo diroccato, al centro di Ravenna, che viene chiamato Palazzo di Teodorico. Sembra in realtà che il re ostrogoto non l’abbia nemmeno mai visto, ma così continua a essere conosciuto. A ben guardare poi i palazzi sono due: di fronte c’è Palazzo Malagola, un tempo residenza di una ricca famiglia borghese, oggi centro di ricerca sulla voce. Il doppio, il rispecchiamento, il crocevia sono le strade per entrare in Don Chisciotte ad ardere, spettacolo-progetto triennale di Teatro delle Albe. Un lavoro «cucito» su Ravenna, casa della storica compagnia, e sulla sua geografia, le sue vie, i suoi cittadini che hanno accolto la chiamata pubblica, come già avevano fatto gli scorsi anni per la Divina Commedia.
Don Chisciotte ad ardere è un’opera in fieri: nell’estate del 2023 Marco Martinelli e Ermanna Montanari avevano presentato la prima parte, ad inizio luglio 2024 si è aggiunta la seconda, e il prossimo anno si vedrà lo spettacolo completo nelle sue tre parti. Marco e Ermanna sono le guide in questo viaggio; anche loro non sfuggono alla logica della maschera, e i loro ruoli «tipici» di drammaturgo-regista e attrice si vanno sempre più confondendo. Ecco allora la maga Hermanita e il mago Marcus accoglierci a Palazzo Malagola, attraversarne le stanze è un rito di iniziazione: in ogni anfratto un’immagine scava da qualche parte, riflette una paura, un enigma, una fatica.
Conosciamo il palazzo da cima a fondo, su in alto fino al sottotetto, e giù in basso fino al cortile. Questa discesa ci pone in uno stato meditativo, rivolto all’interno, che spazza via le aspettative rispetto alla fruizione di uno spettacolo bell’e pronto. Quello che vedremo ci chiama in causa, ci riguarda; due anni fa per il Paradiso venivamo accolti singolarmente, uno per uno, da un piccolo rituale o formula magica. Sono stregonerie, anche se fuori moda, ma i nostri maghi riescono ancora a evocare i fantasmi in una sera d’estate. E siamo incantati quando Hermanita dirige un coro di glossolalie, un delirio dall’eco arcaico che risveglia interrogativi affilati. Vo’ o non vo’? Ma cos’è che vo’? Voglio restare o voglio andare? Non possiamo davvero rispondere, ma sappiamo di non essere soli in questo scomodo equilibrismo.
Eccoci allora in una locanda che non è una locanda, dove suona un complesso musicale, i Leda – Serena Abrami (voce, synth), Enrico Vitali (chitarre), Fabrizio Baioni (batteria) e Giorgio Baioni (basso) – dapprima ascoltiamo una melodia circolare e sinuosa, che poi si fa graffiante quando gli oltre cento cittadini saltano e fanno festa. E ancora una volta ci colpisce come i cittadini, che cambiano ogni sera ad ogni replica e a cui si aggiungono gruppi provenienti da ogni parte d’Italia e oltre, entrino immediatamente a far parte di un mosaico in cui ognuno trova il suo spazio, la sua voce, la sua presenza tra le altre. Magie della messa in scena.
Qui incontriamo Don Chisciotte, Sancio Panza e Dulcinea, che in realtà non sono loro, ma degli attori spagnoli che li stanno interpretando, oltre ad essere, da quello che sappiamo, Roberto Magnani, Alessandro Argnani e Laura Redaelli. Il carattere idealista ed eversivo di Chisciotte non può che richiamare le guerre che bussano alla porta. È questo il nucleo dello spettacolo, il suo senso più profondo, carpire dal grande libro di Cervantes ciò che serve per mettere in piazza questi temi, renderli di nuovo accessibili al discorso, alla riflessione: chi è che vuole la guerra? Perché l’umano continua ad uccidere? Funzione sociale altissima del teatro, che si fa crepa, domanda in un mondo sempre più votato al cinismo di chi la sa lunga. Le Albe, e noi con loro, preferiscono l’asinità.
E tramite lo specchio farsesco questo Chisciotte vuol far emergere tutta l’aberrazione delle grandi certezze. Non è la polvere da sparo il problema, sono i libri che instillano dubbi a portarci alla malora. La sentenza non può che essere una: al rogo! Così per Simone Weil, Tolstoj, Primo Levi, Cristina Campo, Don Milani e molti altri. È il primo significato di quell’«ad ardere» nel titolo dello spettacolo. Il secondo lo incontriamo dopo, quando da Malagola ci spostiamo nel Palazzo di Teodorico per la seconda parte del lavoro. Nel tragitto un’altra epifania: Stefano Ricci disegna su una lavagna degli animali. Una civetta, un serpente… ma appena conquistiamo quelle forme con lo sguardo, il gesso viene cancellato. Fa uno strano effetto: vederle nascere ci fa istintivamente affezionare a quelle creature, la loro scomparsa ci causa un dispiacere. Fuggevolezza del teatro.
Un braciere ci accoglie quindi in un palazzo antico, all’aperto. In questa seconda parte piuttosto autoriflessiva, che ci consegna alla conclusione in vista dell’anno prossimo, si mettono dei paletti, si enunciano dei principi, quelli che servono a tenere viva la fiaccola. Nel Teatro delle Albe tutti vengono pagati allo stesso modo, ad esempio. Ma il rimbalzo tra i diversi piani ci prende allo stomaco con la giovanissima Giulia Albonetti che racconta una storia di inaudita, quotidiana violenza. Immaginazione o realtà poco importa, il punto è aprire i nostri sensi, tornare a essere insieme, anche se per condividere il dolore del mondo. E opera-mondo è Don Chisciotte ad ardere, che aspira al dialogo universale, alla sintesi tra le arti, e dove il teatro dei sogni infranti del passato può ancora, forse, proiettarci nel con-vivere di domani: di fronte a una realtà sempre più violenta, il sogno è la soglia dell’intimità dove poterci rincontrare.
Lucrezia Ercolani
Luglio 2024, Ravenna, Ravenna Teatro
Cantiere Malagolaì
Don Chisciotte ad ardere
opera in fieri 2024
ideazione, drammaturgia e regia Ermanna Montanari e Marco Martinelli
in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli e le cittadine e i cittadini della Chiamata Pubblica
musiche Leda
commissione di Ravenna Festival
electronics e sound design Marco Olivieri
scenografia Ludovica Diomedi, Elisa Gelmi, Matilde Grossi
disegno dal vivo Stefano Ricci
costumi Federica Famà, Flavia Ruggeri
disegno luci Luca Pagliano
direzione tecnica Luca Pagliano, Alessandro Pippo Bonoli e Fagio
coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival e Teatro Alighieri
in collaborazione con Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna e Opera di Religione della Diocesi di Ravenna
Durata:
Totale 3h senza intervallo