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La vocazione, tra le anime e la scena. Mimmo Borrelli e i giovani

Opera in transizione. Anime pezzentelle dalla faccia sporca è lo spettacolo di Mimmo Borrelli andato in scena – dieci anni dopo Opera Pezzentella, rispetto al quale si offre come un adattamento non esclusivamente testuale – lo scorso giugno, con gli allievi del secondo anno della Factory del Teatro Bellini, a Napoli, nel complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Abbiamo seguito il lavoro nella costruzione e nella messinscena. Un approfondimento e la recensione

Foto Flavia Tartaglia

Si torna. Al mistero della vocazione si torna sempre, si torna dagli scoraggiamenti e dalle battaglie, dal lambimento delle tentazioni, dalle profanazioni e dalle abiure, alla vocazione si torna dalla morte. Per essa e ad essa si rimane agganciati, immanentemente, perché è la feritoia di luce che resta in cielo nonostante l’imperversare del buio di un vicolo stretto o l’intermittenza di un faro durante le tempeste e nonostante le fatiche dei flutti, quantunque violenti, perché è l’unica predestinazione a cui ci si concede con coscienza e che si lavora come lo scultore il fianco di una Venere marmorea, perché è l’identità che resiste ai dardi della miseria umana, come il vagito di un bambino squarcia il velo desolato di una devastazione silenziosa dopo un bombardamento.

Foto Flavia Tartaglia

Il processo, il metodo, la creazione

Attraversare Napoli nella seconda metà di maggio, tra i quartieri e le vie del centro, significa fare la cernita di inflessioni e volti per assegnare a Partenope la maternità di quelli che non sono dei turisti, cercare le botteghe o le attività di servizio fra i bar, i cocktail bar, le pasticcerie e le friggitorie sequenziate a ricostruire la geografia urbana di movimento del flusso dei visitatori. Entrata alla Sanità e superato un arco che sfocia su una strada dove la luce filtra solo lateralmente, bisogna girare a sinistra, proseguire dritto su una leggerissima salita, per un centinaio di metri, e fermarsi davanti a una porta che si apre attraverso un codice numerico. Me lo hanno spiegato più volte nei giorni precedenti, per timore che mi confondessi. Quando varco la soglia del complesso dei Missionari Vincenziani al Vicolo Castrucci mi creo dei riferimenti spaziali per orientarmi nel dedalo di ingressi e scale il giorno successivo. Al primo piano trovo i ragazzi della Factory del Bellini in preparazione, prima che comincino a lavorare. I tavoli, bianchi come le pareti, sono disposti in lunghezza dopo gli armadietti che raccolgono i vestiti tolti prima di indossare i panni comodi da usare in prova, a sinistra le scarpe messe in fila nemmeno troppo ordinatamente, poi la finestra in fondo, il cui davanzale fa da sedile occasionale, giusto dietro alla macchina per il caffè espresso da prendere in pausa. In mezzo agli oggetti, lungo i tratti facciali delle espressioni ancora nuove, nella prudenza curiosa dei primi saluti, fermo dettagli piccoli attraverso i quali scorgere o immaginare i tentativi e le prime soddisfazioni, le sconfitte giovanili e le consapevolezze che si costruiscono, la vita ordinaria che si mescola alla “straordinaria avventura del teatro”, le fascinazioni e i riferimenti ancora da venire, le alchimie e i fastidi, i timori e le impazienze, le insicurezze e la tenacia, le convinzioni e le incertezze. Accanto la sala con le pareti nere e il pavimento ligneo, il sole del giorno che entra da due fianchi, le finestre grandi, arcuate e i vetri a riquadri da cui, a intervalli più o meno regolari, irrompe il suono delle campane o quello degli aerei in volo, quasi fossero il contrappunto del mondo fuori, o meglio ancora di quello dentro e oltre la dimensione di ciò che sta per accadere. 

Foto Flavia Tartaglia

Mimmo Borrelli è lì, lo rivedo dopo tempo e riconosco nei suoi occhi, nelle verticalizzazioni e negli affondi dei suoi toni vocali lo stesso tentativo di veicolare, direzionare la qualità naturale di un’energia zampillante tanto nelle vertigini riflessive o malinconiche quanto negli entusiasmi, quella sensazione che a tratti lunghi o brevi, se non pressoché costantemente, sia abitato da sé stesso. O meglio dall’autore, che profila una declinazione tutta personale di ciò che alcune teoriche definirebbero la “seconda natura”. Nel suo caso forse bisognerebbe parlare di “terza” o “quarta natura”, in un prismatico gioco di riflessi, di scatole cinesi ove il termine autore racchiude quelli di drammaturgo, regista, attore, capocomico, pedagogo e chissà che altro. «Mi capita nella vita, quando divento più emotivo, che la voce si abbassi. Tutta la dimensione del mangiafuoco che vedete scompare completamente»: un sistema di rimandi in continua costruzione e ri-costruzione dell’umano, attraverso un processo cinestetico tra le finzioni della vita e la verità del teatro, un fluire tra l’id-entità scenica e quella personale, ammesso che una distinzione esista per davvero.

Foto Flavia Tartaglia

Per quattro giorni prendo posto, quasi sempre, sotto la medesima finestra. “Chi è di scena”, “Grazie”: così comincia il modellamento dei quadri di Opera in transizione. Anime pezzentelle dalla faccia sporca, spettacolo che arriva a distanza di dieci anni da Opera Pezzentella, da cui prende le mosse e di cui riprende la sostanza tematica e formale con gli opportuni adattamenti determinati da un fisiologico divenire autoriale, oltre che dalle specificità non solo linguistiche (napoletano, bacolese, genovese, marchigiano, bresciano, arabo-egiziano) degli interpreti, appunto gli allievi del secondo anno della Factory del Teatro Bellini. «L’attore non deve essere intellettuale. Non deve avere spirito creativo» sento dire in principio a Borrelli, provocatorio, «Deve farsi attraversare. Finto-vero, finto-vero» e più avanti «La gestione interpretativa, quella è la creatività dell’attore»; nell’interrelazione con gli allievi lo ascolto costruire una terminologia precisa: il “colore della battuta”, il “cambio di intenzione” più volte il “vettore” ovvero “a chi rivolgete la parola”. Lo guardo ammonire una ragazza dicendo «Non essere il teatro di ricerca che odio, che accenna le cose. L’autore accenna le cose? Se lui non le accenna, tu non lo puoi fare»; ancora «Io e te, come attori, siamo meno bravi dell’autore. E anche il regista. La regia è già prevista dal testo, dai versi». Appunto i termini “ripetizione” e “suono di riferimento”, una sorta di matrice non solo fonetica che appartiene a ciascun personaggio e di conseguenza a ciascun attore, o sento dire della “tensione dei personaggi”, de “l’altro da sé”, de “l’anima dal corpo”, della necessità di “fissare l’empiricità”, e di come il teatro sia “una compromissione scenica controllata”. Si fa menzione di Viviani e di Shakespeare, di Eco, di Dante, di Foucault e di Pavese, di Basile e di Ariosto. Poi, certo, si fa cenno ai personaggi bacolesi e di Torregaveta, alle figure o alle vicende di cronaca che hanno fatto da spunti narrativi. I nomi e i concetti si alternano tra il linguaggio delle lettere, del teatro e le espressioni famigliari, quotidiane, all’occorrenza gergali, perché si sa che il vero non è univoco, tanto quanto l’interpretazione del reale dipende dalla prospettiva di osservazione. Attraverso una strada di ferimenti e ri-ferimenti dialettici e processuali ciclici arrivo a concludere come la paternità in ogni sua accezione – delicata eppure terribile, dichiarata e al contempo segreta, determinante pure nell’assenza – si consegni quale nucleo pulsante di un tutto, cui afferiscono i termini trasmissione, tradizione, prosecuzione, derivazione, tradimento… Nonché la nemesi abbattutasi sulle speculazioni concettuali e le difficoltà logistiche e produttive, perché prima e dopo, dentro e oltre ci sono i giovani attori e registi della Factory, che osservo montare le scene un quadro dietro l’altro e mettere a punto lo spettacolo una filata dopo l’altra, per trovare e abbandonare ogni volta qualcosa. 

Foto Flavia Tartaglia

Con alcuni di loro chiacchiero un po’ di più in una pausa pranzo: scopro  gli studi di giurisprudenza di Antonio prima di decidere di dedicarsi interamente alla scrittura e alla regia e mi sembra ancora più netta la solerzia del suo assistere; mi affeziono senza termini e riserve agli occhi di velluto di Gaia nell’ovale del viso antico, mentre scandisce perfettamente ogni parola come fa in scena e mi racconta del padre musicista e della recita da bambina, di Isa Danieli in Ferdinando quale immagine senza tempo della memoria e della consapevolezza della vocazione; scorgo la pervicacia garbata di Miriam nella porcellana dei lineamenti quando mi spiega i tentativi di entrare in varie accademie dopo una preparazione specifica, e porto con me sino alla sera la meraviglia gentile dell’autentica dedizione di Martina, che aspetta il tempo intimo e protetto in cui mi accompagna giù per le scale per dirmi che anche lei trova difficile scindere l’Eduardo di Natale in casa Cupiello – registrato sulle cassette passate poi in DVD – dal complesso dei ricordi famigliari intesi come una sorta di patrimonio unico e indistinguibile. Vedo loro insieme agli altri entrare per la prima volta nel Complesso Museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Guardo i loro volti realizzare la densità e la misura del lavoro attraversando lo spazio, concretizzare l’entità e il senso dell’opera cui lavorano da settimane, gli occhi accendersi dell’entusiasmo e del timore del primo spettacolo; li anticipo nell’esplorazione della chiesa superiore e della Sacrestia e poi della chiesa inferiore e della Terra Santa anche e soprattutto per vedere germinare in loro domande, risposte, emozioni e commozioni. 

Foto Flavia Tartaglia

Li ritrovo nello stesso luogo, a distanza di una ventina di giorni, in scena, a conquistare, a restituire a sé stessi, agli spettatori e alla città uno spazio culturale ad un’azione culturale, ai Tribunali, in uno dei croce-via più trafficati e sfiancati dalla riconversione commerciale e turistica cui accennavo in precedenza.

La visione, l’Opera

Lo spettacolo, pensato e calato nel contesto come poche volte accade ancora, prende le mosse da quella commistione tra vita e morte e quindi da quel filo che a Sud, e a Napoli forse più che altrove, sembra non volersi e non potersi recidere del tutto tra l’anima e il corpo, tra quelli che se ne vanno senza mai andarsene veramente e quelli che rimangono senza mai smettere di volgere gli occhi al cielo o sotto la superficie della terra, da quella pratica per cui l’adozione di una “capuzzella” (tecnicamente teschio e resti dei trapassati senza identità, raccolti in nicchie spesso a giorno e conservati in luoghi appositi di culto spurio tra paganesimo e religione riconosciuta), attraverso la cura e le preghiere di chi se ne incarica, può determinare un’intercessione, l’accordo di grazie, ascolto e protezione. Tra queste anime derelitte la leggenda e le storia popolare hanno eletto Lucia D’Amore, la principessa, la sposa, come simbolo messianico particolare, a racchiudere tutta la purezza eterea di un al di là mai completamente scollegabile dal terribile “faucione” che si abbatte sugli abitanti degli inferi, i quali periodicamente tornano a ergerla tramite di conduzione e accompagnamento del proprio passaggio, una volta avvenuta l’espiazione dei peccati. Il testo, scritto in versi, come prassi per quelli di Borrelli, segue una struttura precisa che ne determina l’altrettanto precisa articolazione performativa. Dopo l’“Antipurga” che ci accoglierà in Sacrestia, verrà la “Presposa” che ci porterà fino alla seduta sui banchi posti lateralmente, lungo i fianchi coronanti le nicchie delle cappelle laterali. Poi la “Casacauda” a fare da presupposto a sette scene sfocianti nella chiosa di “Lucia D’Amore” come un epilogo. La centralità della parola, non solo intesa come sistema di lemmi chiusi in una struttura esatta, bensì come complesso semantico fondativo, plasma la propria potenza nella fusione cadenzata di suono e fonetica, di musica, cantato e detto in una cosciente e fisiologica compitazione del ritmo, dei registri e delle suggestioni acustiche.

Foto Flavia Tartaglia

Così pure l’immagine desume la propria forza dell’incisività pittorica dei corpi a modellare i singoli movimenti quali parti di un tutto in grado di scavare la prospettiva visiva della e nella dimensione del complesso museale del Purgatorio ad Arco. Sintesi scultoree di un insieme medianico, diafane decomposizioni di retaggi esistiti, cianotiche nell’incarnato, logori i toni delle vesti smunte da un tempo che è stato chissà dove e chissà quando. Lo spazio è definito dall’azione come una passerella di attraversamento, con i punti apicali estremi a realizzare la tensione verticale verso l’alto o quella definitiva verso il basso, nella conclusione. A differenza di quanto avveniva anni addietro l’ascensione, e con essa il finale, non si compie con la calata concreta del pubblico insieme agli interpreti nella spettralità spoglia della chiesa al piano inferiore, bensì è celata, piuttosto suggerita dalla sfilata delle anime lungo la scala laterale che ad essa conduce: ci lascia esclusi dall’assistere a un passaggio che non ci compete e di cui pure siamo ancora i testimoni. Nella presenza che resiste, a tratti combatte il e per il trasalimento. E il trasalimento è una convulsione, un urto sincopato tra le tenebre e il bagliore, l’uscita da un antro, un ingresso che si apre collassando come un ossimoro su stesso. La viscerale, organica epopea di esistenze esaurite e non ancora cominciate, successe e immaginate già morte nella diacronia della nascita, tanto piccole da risultare monumentali, così inumane da poter versificare le recondite meschinità di ognuno. La meraviglia di un quadro composto da una suggestione olfattiva, tra pennellate decise: il bianco etereo del profumo di un giglio e il verde-nero dell’olezzo della cancrena vegetale. Un’ascensione iperuranica che dalla medietà purgatoriale si avvera tramite il magnetismo agli inferi. Il ritorno di elementi, oggetti, figure, interpreti ad acclarare la progressiva edificazione di un epos per ciò che concerne l’interezza (o quasi) della drammaturgia di Borrelli, ma anche e soprattutto il divenire di una poetica riconoscibile e rispetto alla quale è possibile operare la distinzione da uno stile coerente.

Foto Flavia Tartaglia

Succede di incontrare artisti, processi e lavori il cui percorso segna lo sguardo con un’incisione non reversibile perché in grado di generare una specularità della visione con quanto forse non saremmo nemmeno in grado di dire di noi stessi, in cui il riconoscimento è un’elezione quasi involontaria e che poi si sceglie, ineludibile, per necessità.

Marianna Masselli

Napoli, giugno 2024

OPERA IN TRANSIZIONE. ANIME PEZZENTELLE DALLA FACCIA SPORCA 

Un percorso di ricerca antropologica, testi, drammaturgia e creazione di Mimmo Borrelli

con Mimmo Borrelli

e con gli attori e le attrici della Bellini Teatro Factory: Greta Bertani, Sofia Celentani Ungaro, Filippo D’Amato, Rossella De Martino, Daniela De Riso, Miriam Giacchetta, Cristoforo Iorio, Tarek Ismail, Valeria Martire, Gaia Napoletano, Matteo Ronconi, Giuseppina Ruggiero, Luigi Savinelli, Umberto Serra, Lucia Straccamore

assistenti alla regia della Bellini Teatro Factory : Martina Abate, Antonio Basile

musica a cura di Antonio Della Ragione

luci di Salvatore Palladino

elementi scenografici, oggetti di scena e spazio scenico Luigi Ferrigno

costumi di Enzo Pirozzi

maschere Gennaro Staiano

collaborazione al progetto Gianluca Catuogno

sound design Alessio Foglia

Bellini Teatro Factory: Presidenza Gabriele Russo/ direzione triennio 22/25 Mimmo Borrelli / programmazione didattica Costanza Boccardi/  coordinamento organizzativo e tutoraggio Marina Dammacco

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

si ringrazia Opera Pia Purgatorio ad Arco Onlus,Progetto “Purgatorio ad Arco: un Arco sul territorio”

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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