Una conversazione tra Rodolfo di Giammarco e Pippo Delbono, a partire dalla nuova creazione, Il risveglio, che ha debutto a giugno in Romania e dal 17 al 20 ottobre sarà al Teatro Storchi di Modena. Delbono sarà anche a Lecce il 19 luglio con Di notte.
Pippo, ne Il risveglio, in questo tuo ventottesimo testo odierno, il più recente d’un repertorio iniziato 37 anni fa con Il tempo degli assassini, nel 1987, tu alludi a un pensiero che ritrae il superamento d’una sofferenza. In genere che rapporto specifico c’è, tra titolo e contenuto, nella tua drammaturgia?
Per tutti i miei spettacoli io metto a fuoco come prima cosa un titolo, e poi concepisco i temi interni, la poetica delle parole, i riferimenti musicali. Spesso i miei lavori sono riconoscibili per appellativi spicci: La rabbia, Barboni, Guerra, Esodo, Il silenzio, Urlo, La menzogna, Orchidee, Vangelo, La gioia, Amore. Ora Il risveglio evoca una condizione che è sul punto di liberarsi dal difficile della vita, e che già permette d’intravedere una qualche prospettiva meno buia, malgrado i pesanti problemi governativi, politici e sociali d’adesso. Dobbiamo cercare di non finire male con la vita quotidiana, dobbiamo riprenderci dai turbamenti della coesistenza e dell’amore, dobbiamo non scadere fino a toccare il fondo e a rischiare di farci compatire.
Mi sembra di sentire l’animo umano che hai tirato fuori nel 2005 in Racconti di giugno, nella rassegna Garofano Verde al Teatro Belli di Roma, trascrivendo poi il testo in un magnifico libro Garzanti ricco di un’iconografia toccante della tua esistenza…
Ricordo che lì per la prima volta parlavo di me direttamente, e che in scena partivo dicendo “Buonasera. Ci sono tre parole, di quello che racconterò, che non dovete scrivere, se qualcuno di voi scrive, e non dovete dire fuori da qui, soprattutto – anzi soltanto – per mia mamma. Tre parole che poi vi dirò”. E alla fine, dopo aver toccato a chiare lettere i tre temi, concludevo nominandoli: sieropositivo, omosessuale e buddista.
Torniamo alla sindrome che t’ha indotto adesso a creare Il risveglio…
Uno stato di cose complesso, perché da molto tempo ho avvertito d’essere in conflitto, costretto a lottare, siccome le idee in arte t’arrivano solo quando a fatica può emergere una tua verità. Ho combattuto anche con la convinta e ineluttabile parte spirituale di me, visto che il buddismo è una religione che non privilegia la lucidità, non ti fa percepire i calcoli, non ti dispone ai benefici del successo, della materialità delle faccende. Ne sono diventato praticante da quando per dieci anni, dal 1989, fui consapevole d’essere sieropositivo, col risultato di aprirmi sempre più agli esclusi, agli emarginati, conoscendo in un ospedale psichiatrico Bobò, sordomuto e analfabeta portatore di genialità che nella sua danza immobile mi ricordava Kazuo Ohno. Tutt’oggi, dopo le pandemie, mentre infuriano agguati bellici mostruosi alle porte di casa nostra, e mentre riscoppiano furie ideologiche che credevamo appartenessero al passato, sono convinto che si debba danzare nella guerra. E dopo o durante le cadute, ci si debba risvegliare.
Mi avevi parlato di un film che avevi intenzione di fare su Bobò, scomparso nel 2019, tuo interprete e compagno di lavoro ininterrottamente dal 1997. È sempre un tuo progetto?
Certo, s’intitolerà Bobò l’angelo che mi ha salvato la vita, con registrazioni bellissime dei suoi spettacoli con me, un repertorio che ho integralmente riesaminato. Lui anche durante le prove era perfetto, al mio fianco o da solo. E io mi sentivo un eletto, standogli vicino. Mi ha insegnato tantissime cose: nella rivisitazione di Aspettando Godot ci dovevamo ad esempio togliere le scarpe, ma Bobò non se le tolse, e aveva ragione… era un analfabeta che sapeva. A coprodurre il film su di lui dovrebbero partecipare la Rai, Cinecittà, e teatri francesi e svizzeri. Bobò è sempre presente nel mio cuore, con me ha agito da grande maestro, e devo assolutamente rendergli omaggio, costruendogli un tributo per ripagarlo del fatto che, esclusi gli addetti ai lavori e i suoi più affezionati cultori, non è mai stato riconosciuto abbastanza, malgrado abbia avuto (ricambiata) dimestichezza anche con straordinari artisti al di fuori della mia compagnia.
Il passato prossimo, il passato recente e il passato appena trascorso fuori dai confini italiani bussano tutti insieme alla tua porta. Dieci anni fa, nel 2014, eri sul palcoscenico del Teatro Argentina con La notte, spettacolo da te ricavato da La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, lavoro che hai appena replicato e che riapparirà nel tuo calendario. Un anno fa esatto, nel luglio 2023, hai battezzato nel giardino di abeti, noccioli e querce del B&B Langhe di Liguria a Piana Crixia con la vicenda scenica Di notte, anteprima di una lettura esclusiva di tue poesie che figura ancora nei tuoi giri di tournée. Ed eccoci al presente de Il risveglio, il cui primo affaccio assoluto risale all’esordio appena avvenuto il 21-22 giugno scorso nella Faust Hall del Sibiu International Theater Festival di Sibiu in Romania, con altra prima europea in cartellone dal 2 al 6 ottobre al Théâtre du Rond Point di Parigi, e partenza italiana del lavoro dal 17-20 ottobre al Teatro Storchi di Modena. Va detto che nel frattempo circolano pure i tuoi due ultimi titoli prodotti (come Il risveglio) dall’Ert, ossia La gioia, e Amore. Sei forse l’autore-performer-regista più rappresentato…
Ne farei forse un discorso di progressiva fiducia espressa da teatri e spettatori, ne farei magari un ragionamento di integrazione quasi coreografica sollecitata dalle improvvisazioni non improvvisate dei miei lavori. Io sono molto grato al destino che mi riserva la vita di scena. Ed esprimo questo sentimento ne Il risveglio. Se mi guardo indietro, ho la commovente stima che si traduce in totale carta bianca da parte del fratello di Koltès, sempre pronto a dirmi che posso fare quello che voglio con la scrittura di Bernard-Marie, perché gli assomiglio con le mie scelte libere. Questa domenica 14 luglio sono andato a fare La notte scendendo nella Latomia dei Cappuccini di Siracusa, verso il mare, affrontando una scalinata di pietra fin giù nella cava di calcare, e oltre a Pepe Robledo che mi segue da sempre, c’era François Koltès, perché si trattava di un evento di beneficienza, con gli incassi del pubblico devoluti alla sua società Action Directe Sahel, creata per favorire nuovi pozzi d’acqua in Africa: lui sente in me la voce di Bernard-Marie, e s’emoziona mentre dico a modo mio un testo basato su uno straniero emigrato, sull’amore, sulla solitudine, sul razzismo, sul bisogno dell’altro, un testo che ogni sera è diverso e non è mai routine, e tocca intimamente il pubblico.
Il 25 luglio 2023, un anno fa da oggi, tu hai sperimentato in provincia di Savona, nel silenzio e sotto un cielo stellato gestito da un tuo concittadino di Varazze, un nuovo spettacolo per pochi, per circa una cinquantina di amici, consistente solo di tue poesie, titolo “Di notte”…
Ho detto una serie di mie poesie inedite, scritte nell’arco di tre-quattro mesi. Da cui forse verrà fuori un libro. Sono pezzi a volte brevi come un haiku, o composti di due frasi, di tre, quando non spunta la lunghezza d’un racconto corto. Nei versi c’è dentro amore, solitudine, ironia, o un’autobiografia trasversale. Scatta pure un aspetto surreale, quando parlo di animali, di colori.
Il tuo colore preferito?
Il blu, sono nato davanti al mare.
Ti sei confrontato, in tutto il mondo, anche con 2000 persone a sera. Ora come mai sei disposto anche a incontrare un ristretto pubblico?
Mi propongo gesti più concentrati, più frugali. Ricevo soddisfazione da atti maggiormente piccoli, prossimi alla sfera quotidiana, ricominciando da dove non c’è certezza.
Che rapporto hai col tempo, coi tuoi attuali tonici 65 anni?
Non me ne accorgo, dell’età. Ho avuto anni di enormi sofferenze, anni di virus HIV, anni di Covid, anni di vuoto umano, ma mi sono convinto che tutto scorre, e che si cammina come pellegrini fino a un risveglio, un traguardo che ora per me è diventato un titolo.
Tua madre, che non c’è più, è stata un grosso motivo d’amore. Ora che memoria ne conservi?
I morti te li porti con te. È un tema pieno d’angoscia. Per affetto, io mi contengo, mi proteggo.
Se ti chiedessi, a proposito della tua carriera, quali esperienze artistiche d’attore per gli altri hanno contato, fino a oggi, nel tuo cinema?
Ho all’attivo più o meno una trentina di film. Conservano un peso serio Io sono l’amore di Luca Guadagnino con Tilda Swinton, il cinema di Peter Greenaway, di Amos Gitai, però attribuisco importanza anche a film con registi sconosciuti ma speciali, come La corsa de L’Ora di Antonio Bellia sul giornale L’Ora di Palermo.
A cosa si deve, a tuo giudizio, il rapporto immediato ed emotivo delle platee estere col linguaggio, coi corpi, con la sfera interiore dei tuoi spettacoli che hanno cultori ovunque?
Vediamo. In Francia vado da oltre vent’anni, parlo la loro lingua ma m’esprimo anche in italiano. In Romania uso solo la nostra lingua, con sopratitoli. Alla fine il pubblico dell’Europa occidentale o dell’Est è spesso in piedi, saluta la follia e la lucidità, la cui somma viene forse letta come segno di libertà.
Quantitativamente e qualitativamente formidabile è la cultura scritta, pubblicata qui da noi o all’estero, sull’opera, sulla vita, sul “théâtre brut” (etimologia presa in prestito da Peter Brook), sulle formazioni attoriali atipiche, sul retaggio dell’Odin, sull’incontro con Pina Bausch al Wuppertaler Tanztheater, con almeno cinque libri usciti in Francia (primo dei quali “Mon Théâtre”), una decina in Italia (tra cui un volume di Leonetta Bentivoglio, e uno di Gianni Manzella), e altri in più Paesi del continente. Come hai reagito a questi studi, scritti, album, visioni incrociate e cahiers?
Il teatro riceve un enorme aiuto da ogni strumento culturale. Ricordo che il critico Georges Banu giudicò il mio Mon Théâtre un libro da leggersi come un poema di François Villon. Avendo lavorato col vecchio Ryszard Cieslak, attore di Grotowski, nella mia testimonianza Le Corps de l’acteur scrissi della sensazione da lui avuta che il teatro è principalmente una missione. Io stesso, in Dopo la battaglia (libro di cui raccomando di sfogliare tutte le foto scattate da Pippo Delbono stesso, n.d.r.), mi sono soffermato sull’Aids, su un canto per Pasolini, su Avignone, sul centro di detenzione degli immigrati di Lampedusa, sulla libertà d’amare, su Frank Zappa, sulla morte di Pinter, sulla Strage di Bologna, su Lou Reed, su Pina, su Homeland di Laurie Anderson.
A chiunque non voglia perdere Il risveglio, segnaliamo che da noi, dopo il 17-20 ottobre a Modena, lo spettacolo sarà dal 31 ottobre al 3 novembre al Metastasio di Prato, dal 6 al 10 novembre all’Astra di Torino, dal 12 al 14 novembre al Teatro Chiabrera di Savona, dal 19 al 24 novembre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, dal 12 al 15 dicembre al Teatro Comunale di Bolzano, per poi spostarsi la compagnia nel febbraio 2025 in Francia.
Chi volesse non perdersi la serata di poesie Di notte con Pippo Delbono, si segni che il 19 luglio è al Monastero degli Olivetani di Lecce presso Koreja, per poi fare tappa il 22 ottobre al Teatro del Lavatoio di Santarcangelo (Cantiere Poetico per Santarcangelo), e per infine sostare il 26 novembre al Teatro Puccini di Firenze.
Gli spettatori interessati a recuperi di repertorio prendano nota che La gioia, dopo la tappa del 24 luglio a Prizren nel Kosovo, e dopo la piazza del 28 agosto a Tarragona, tornerà in Italia fermandosi il 22-23 febbraio 2025 al Teatro dell’Unione di Viterbo.
Mentre chi deve recuperare Amore avrà occasione di farlo dal 26 febbraio al 2 marzo 2025 al Teatro Mercadante di Napoli, poi il 6 marzo al Teatro Donizetti di Bergamo, e poi ancora l’8 marzo al Teatro Sociale di Como.
Rodolfo di Giammarco