| Cordelia | luglio-agosto 2024 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di luglio-agosto 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#VICENZA - BE POPULAR

BE POPULAR 2024

Quale sia il ruolo del teatro nelle città, come questo debba relazionarsi con la cittadinanza e fare da termometro della contraddizioni riuscendo però ad intrattenere il pubblico: i festival spesse volte tentano di rispondere a queste domande e forse ci riescono soprattutto quando trovano casa nei piccoli centri, nelle tante periferie artistiche ormai diventate tradizione della spettacolarità diffusa italiana. Più difficile quando l’idea ruota attorno a un centro cittadino. Vicenza con i suoi centomila abitanti e più è la quarta città del Veneto per numero di abitanti, ma mantiene le dimensioni di un centro storico raccolto: qui Stivalaccio Teatro - di cui avevamo già parlato a proposito dello splendido Arlecchino muto per spavento - organizza da otto anni Be Popular, manifestazione nella quale cerca di tradurre le qualità popolari del proprio teatro anche all’interno di una programmazione cittadina che quest’anno si compone di ben due settimane. Ed è stata una piacevole scoperta trovare, nonostante il caldo che non lasciava scampo, le platee piene di un pubblico cittadino appassionato, tra parate di buffoni liberi di esprimere anche i pensieri più malvagi della nostra società (o i desiderata politici i qualcuno), presentazioni di libri, spettacoli e concerti. Niente teatri nella geografia di Be Popular, Stivalaccio ha scelto due luoghi all’aperto ma circoscritti, Palazzo Thiene e Palazzo da Schio, il cortile del secondo è più contenuto ma stupisce con i balconcini traboccanti di verdi glicini. Proprietà della famiglia da cui prende il nome e al quale è abbinata un’ottima cantina di vini biologici, lo spazio accoglie per la quarta volta gli artisti di Be Popular in una dimensione intima e che potrebbe fare pensare a quei cortili delle locande così importanti per il teatro elisabettiano o del Siglo de Oro. Qui gli spettacoli si svolgono su piccoli palcoscenici di legno, alla bisogna scenografati con vecchie assi colorate. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare due allestimenti sorprendenti, due generi agli antipodi ma che ben raccolgono l’attitudine popular del festival e di Stivalaccio. (Andrea Pocosgnich)

ATTACCHI DI SWING (di e A. Mori e C. Caruana)

Siamo ancora nel cortile di Palazzo da Schio, sulle assi di legno, al centro, c’è anche una abat-jour, di quelle eleganti, da vecchio locale in cui ascoltare buona musica, su due piccole sedie stanno i protagonisti di quello che doveva essere uno spettacolo concerto e che invece diventerà in poco tempo una geniale e incontenibile clownerie musicale di altissimo livello. A sinistra Alessandro Mori, con un baffo che non lascia supporre nulla di buono, a lui i fiati. Tutti, dal clarinetto al sassofono passando per la tromba e per il flauto dolce, sì proprio quello di plastica che ha rappresentato l’incubo di tante e tanti di noi alle scuole medie. A destra, quasi impassibile, se non fosse per certi sorrisi complici, Corrado Caruana, accompagna alla chitarra lasciando di stucco il suo compagno e il pubblico con assoli cristallini e virtuosistici. Mori inanella un numero dopo l’altro trasformando una serata di swing in un travolgente e inatteso spettacolo di teatro-circo in cui la serietà dei pezzi musicali viene interrotta continuamente da strumenti che stonano e devono essere sostituiti o riparati - accade con il flauto dolce, del quale ne escono almeno quattro o cinque esemplari o con una tromba che viene saldata in scena con una stella filante. C’è un’ironia poi, surreale, sulla seriosità della creazione artistica: i brani annunciati sono sempre stati scritti a quattro mani, durante vacanze in montagna o altre situazioni assurde. Intanto il pubblico, in preda alle risate e allo stupore, si chiede se la bottiglia appoggiata sul tavolino - gentilmente fornita dall’azienda agricola da Schio, come viene spiegato più volte nell'ennesima gag comica - sia piena di vero vino o meno. I due bevono senza pietà, ma la musica non si ferma mai, anzi esplode nel finale quando al pubblico vengono consegnati piccoli strumenti con i quali continuare a suonare e a tenere il tempo. In platea ci si guarda stupiti e pieni di gioia. Il teatro è una festa. (Andrea Pocosgnich)

Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Di e con Alessandro Mori e Corrado Caruana Coproduzione Teatro Necessario

LA MANDRAGOLA (regia Michele Mori)

È pressoché impossibile trovare il testo teatrale più famoso di Machiavelli in un cartellone: La Mandragola ha bisogno di inventiva comica e di un linguaggio in grado di adattare l’italiano antico. Scritta tra il ‘14 e il ‘15 del Cinquecento, andò in scena per la prima volta pochi anni dopo e fu pubblicata nel ‘24, secondo Voltaire valeva più di tutta l’opera di Aristofane, e Goldoni ammise di averla letta decine di volte da giovane; iperboli a parte l’intreccio scritto dall’autore del Principe può vantare un’ambientazione unica per gli esempi dell’epoca: siamo infatti nella Firenze contemporanea e non in una Magna Grecia lontana nel tempo, qui il giovane Callimaco si innamora di una donna sposata che non riesce ad avere figli col suo vecchio e probabilmente infertile marito, Nicia. Michele Mori, regista e autore dell'adattamento, inventa un prologo a Parigi e un fantastico viaggio a Firenze che avviene grazie a un improbabile aeroplano inventato da Leonardo Da Vinci e poi omaggia Dante che appare con i versi della sua opera più famosa quando Callimaco (nella ricca interpretazione di Francesco Lunardi) dovrà vestire i panni di un dottore e avrà bisogno dunque di una lingua colta. Con Stivalaccio il testo fa un salto di qualche decennio divenendo un canovaccio da commedia dell’arte, con tanto di maschere ad opera di Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare - fenomenali il Nicia/Pantalone veneziano di Elia Zanella e il Ligurio campano di Pierdomenico Simone e una scenografia semplice (ad opera di Alvise Romanzini) ma capace di stupire in alcuni momenti. Nei costumi, un po’ storici e un po’ da guitti circensi, di Licia Lucchese ci sono i corpi di quattro attori giovani, con i quali la compagnia vicentina ha voluto cominciare un progetto di rinnovamento e di passaggio del testimone comico, guidati dalla presenza talentuosa ed esperta di Simone. Il risultato è la riconsegna alle nostre scene di un pezzo di storia della drammaturgia teatrale che riprende vita con una notevole capacità comica e la solita meticolosa e artigianale ricerca di Stivalaccio.(Andrea Pocosgnich)

Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Con Pierdomenico Simone /Ligurio e con gli attori e le attrici della compagnia giovani Francesco Lunardi / Callimaco Elisabetta Raimondi Lucchetti in alternanza con Francesca Boldrin / Lucrezia Daniela Piccolo /Fiammetta Elia Zanella / Nicia regia e canovaccio Michele Mori scenografia e attrezzeria Alvise Romanzini maschere Stefano Perocco di Meduna, Tullia Dalle Carbonare costumi Licia Lucchese disegno luci Matteo Pozzobon coreografie acrobatiche Giulia Staccioli arrangiamenti musicali Pierdomenico Simone assistente alla regia Benedetta Carrara

#CILENTART FEST

LE NOZZE DI ANTIGONE (Ascanio Celestini)

La vocazione di Cilentart Fest è, fin dalla prima edizione ormai tre anni fa, insieme alla promozione di talenti meno noti del panorama nazionale, quella di fare repertorio, ossia portare spettacoli di artisti già affermati in un contesto e di fronte a un pubblico che difficilmente avrebbero incontrato. E forse quest’anno tale processo arriva a un punto ancora più elevato, ospitando Ascanio Celestini nel paese cilentano di Moio della Civitella non con uno degli spettacoli che lo hanno reso noto a un pubblico trasversale, grazie anche talvolta alla presenza televisiva, ma con un testo scritto ormai 25 anni fa perché lo recitasse Veronica Cruciani, Le nozze di Antigone che torna tra le sue mani e nelle corde della sua voce, in forma di reading e con la fisarmonica di Gianluca Casadei. All’inizio è stato quasi un gioco, racconta Celestini, tornare dentro una storia vecchia pensata per altri, ma poi – ci si accorge anche all’ascolto – certi temi, certe parole, sembrano più attuali di allora. O forse il tempo non cambia mai davvero. O non così rapidamente. Antigone, presa in prestito dalla tragedia sofoclea e simbolo ormai condiviso di coraggio e di lotta al potere, è una giovane popolana dell’epoca fascista che si rivolge al padre Edipo, ormai infermo, malato di guerra, cioè di quella malattia che sembra ricorrere in questi ultimi anni con sintomi nuovi e conseguenze invece eterne, immutabili. Edipo gran camminatore, pieno di scarpe vecchie ma spaiate, tanto a che servono ormai, stancamente vive solo nella relazione che Antigone cerca, ancora, per capire la guerra, la Resistenza, i motivi della lotta. Il mito classico si intreccia dunque a un racconto popolare, rievocando certe atmosfere dei primi testi celestiniani legati più al mondo rurale, alla civiltà contadina, con cui l’archetipo sembra legarsi in maniera indissolubile, come se il racconto fosse un filo teso attraverso il tempo su cui cammina, oscillando, l’equilibrista delle parole. (Simone Nebbia)

Visto a Cilentart Fest 2024. Crediti: di e con Ascanio Celestini; musica dal vivo Gianluca Casadei, fisarmonica

IVAN E I CANI (regia di Federica Rosellini)

È uno dei luoghi simbolo di Cilentart Fest, Perito, il paese in cima a una lunga salita che da una minaccia di abbandono sta tornando a vivere anche grazie alla presenza dell’arte. Proprio qui, nel punto più alto affacciato sulla vallata, Federica Rosellini ha offerto le parole di Ivan e i cani, monologo tratto dalla fiaba nera della drammaturga inglese Hattie Naylor, tradotta da Monica Capuani. Ivan racconta a ritroso la propria storia di degrado, solitudine, violenza, ma anche di un grande e inatteso amore, una solidarietà che lo unisce ai cani con cui ha condiviso la vita di strada: Belka, Vano, Strelka, Ruslan e Kugya. Rosellini è immobile, ha le gambe larghe incastrate tra due tavoli in legno grezzo, poco più che cavalletti improvvisati; affronta il testo in forma di reading, ma attraverso una regia da tavolo aziona una partitura sonora compatta e rugosa, che tesse con le parole una trama fitta; immagini insostenibili si susseguono nel racconto e anche la voce dell’attrice, come la sua postura, non si inarca mai a sottolineare, ma resta tesa ad affondare lentamente nell’ascolto con sapiente equilibrio, lasciando che emergano le emozioni altrui senza tradire le proprie. È una storia struggente e affascinante di vita al margine in cui si avvertono il freddo, il buio, la puzza, la sopraffazione, Ivan cerca di sopravvivere in una condizione di disperata indigenza che solo la foto di Svetlana, una donna che sogna sia sua madre, può attenuare, mantenendo il suo legame con la vita. L’incontro con il primo dei cani, nella depressione urbana dei sotterranei di Mosca, fa nascere una inattesa e silente consonanza: scoprire la medesima condizione permette a Ivan di sentire la fratellanza e il sostegno che non ha mai avuto in casa propria, oppresso dal patrigno come sua madre, che non sa e non può difenderlo. Ivan, rifiutato dal mondo di sopra, trova nel mondo di sotto gli strumenti per una sopravvivenza in difetto, diventa parte del branco e così scopre di saper opporre, alla forza di un potere vessatorio, una speranza insopprimibile. (Simone Nebbia)

Visto a Cilentart Fest 2024. Crediti: un testo di Hattie Naylor; traduzione di Monica Capuani; sound design Federica Rosellini; voce registrata in russo Laura Pasut; performer e regia Federica Rosellini

#SEGESTA

GLI SPARTANI (di B. Gizzi, regia D. Salvo)

Gli Spartani di Barbara Gizzi, come tradizione comanda, prende il nome dal coro della tragedia: il gruppo di cittadini che qui si anima intorno alle vicende di Clitemnestra. L'abbiamo seguita a Segesta, in occasione del Segesta Teatro Festival. La drammaturgia ricostruisce, non senza un certo compiaciuto eruditismo, la storia della protagonista (Valeria Cimaglia) precedente al matrimonio con Agamennone: il lutto successivo alla morte di Tantalo, i loschi uffici messi in atto dai familiari per darla in moglie ad Agamennone, già uccisore del primo marito e del figlio. L'intento di riscattarne la figura viene in parte offuscato da una scrittura in tipico "traduttese", che sciorina non poco melenso pietismo. Se l'intento era quello di «creare un testo moderno ma scritto alla maniera dei tragici greci», forse a vincere è proprio la maniera. Ridotto ad esercizio stilistico, il dramma descrive una vicenda tutto sommato superficiale e legata quasi esclusivamente allo svolgimento del solo racconto mitologico, privo di ancoraggi effettivi al presente. Proemio, parodo ed episodi rimangono fossili poco consoni al nostro tempo, se la storia tra essi svolta rimane una storia di cliché superati. La tradizione tragica non è e non può essere un serbatoio di vicende sciagurate da riproporre in forme pedisseque, pena il cedimento a facili retoriche. Piuttosto, essa è misura del rapporto tra l'uomo e le cose, le credenze, l'universo. E se siamo nani sulle spalle dei giganti, è anche vero il contrario: che spesso, per guardare bene al passato, bisogna usare la lente del contemporaneo. La regia di Daniele Salvo non brilla qui di particolari soluzioni; il sonoro è piuttosto cinematografico (ci si ritrova pure qualcosa delle musiche del Gladiatore, tanto per intenderci). Buone le interpretazioni di attori e attrici, tra i quali una solida scuderia di interpreti "tragici": Massimo Cimaglia (Tindaro), Giuseppe Sartori (Agamennone), Elena Polic Greco (Leda). (Tiziana Bonsignore)

Visto a Segesta Teatro Festival. Regia Daniele Salvo, drammaturgia Barbara Gizzi, con Valeria Cimaglia, Massimo Cimaglia, Giuseppe Sartori, Elena Polic Greco, Giulia Sanna, Ugo Pagliai (voce di Ebalo), coro Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Lorenzo Iacuzio, Gianvincenzo Piro, Tommaso Sartori, Damiano Venuto, costumi Daniele Gelsi, disegno Luci Giuseppe Filipponio, elementi scenici Andrea Grisanti, assistente alla regia Matteo Fiori. Progetto speciale MIC 2023

#ALBENGA

DIVINE (di D. Manfredini)

Radunarsi attorno ad una storia: questo lo spirito tra le panche di legno di Terreni Creativi, dove da quindici anni si raccoglie una comunità variegata e numerosa di spettatori locali e pochi addetti ai lavori. Radunarsi in ascolto di una voce la cui fonte è schiva, come rannicchiata in un angolo, spettatrice anch’essa di immagini che, nel tratto fugace del carboncino e dell’acquerello, favoriscono visioni. Divine, nato da un adattamento di Danio Manfredini del romanzo Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet, avrebbe voluto approdare al cinema ed è oggi invece un rito di affabulazione tutto teatrale. Eppure la scena è vuota, piena solo del destino disperato e poetico di Louis Culafroy – Divine e di Manfredini, solo voce e tratto pittorico proiettato sul fondale, un vero e proprio storyboard. Scritto in carcere, praticamente autobiografico, il romanzo aprì uno squarcio su un mondo sommerso, dove fede, vizio, violenza si compenetrano, la bellezza è desolazione, o viceversa. La voce di Manfredini è orchestra polifonica, percorre i vicoli bui di quella Parigi di miseria, erotismo e solitudine e lo fa con grazia priva di sforzo, o meglio con la grazia di chi lo sforzo sa nasconderlo per lasciare più spazio possibile all’evocazione. Perfettamente eterea e irrimediabilmente corrotta, ora docile ora graffiata, la voce-corpo di Manfredini ci immette in un immaginario popolato di figure che pur risuonando con l’oggi non trovano la forza di infrangersi sul presente per farlo vibrare di nuova verità, per illuminarlo da una prospettiva feconda. Tanto vibrante è l’esperienza dell’arte attoriale al suo livello più alto e compiuto, quanto il racconto resta sospeso, distante, non riuscendo a superare la dimensione museale, archeologica di un viaggio nel tempo, non agevolato dalle scelte musicali che accompagnano la visione insistendo sul contrasto, da Bob Dylan a Eminem fino ai Pink Floyd, suoni che strappano via lo spettatore dal finale. (Sabrina Fasanella)

Visto a Terreni Creativi 2024 – Albenga Di e con Danio Manfredini. Liberamente ispirato al romanzo Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet.

Victory Boogie Woogie (di Charles Pas)

Passa una luce dorata tra le cassette di plastica grigia del consorzio agricolo che ospita la XV edizione di Terreni Creativi, il festival di Kronoteatro ad Albenga. Davanti a questo sfondo suggestivo il corpo di Charles Pas si fa abitare dal gesto. Ripete azioni didascaliche, quotidiane: percorre il palcoscenico disegnando con le gambe e le braccia le mura di un appartamento, gli scaffali di un supermercato, l’abitacolo di un’automobile. I confini del suo mondo sono gli spettatori disposti sul perimetro del palcoscenico, chiamati in causa dalla riconoscibilità delle situazioni sollecitate dal suono, il soundscape di Rint Mennes che anima con precisione millimetrica l’universo di Victory Boogie Woogie. La ricerca del danzatore e performer belga Charles Pas, classe 1998, focalizza il movimento come mezzo per rivolgersi all’intimità dello spettatore, tra «performance, teatro dell’assurdo e realismo magico». Il titolo della pièce evoca l’ultima tela incompiuta di Piet Mondrian: emigrato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, il pittore olandese auspica e celebra la vittoria della guerra dal punto di vista americano. Ma l’evocazione di questa danza vittoriosa è qui sardonica. Chi, cosa ha vinto? Charles Pas è schiavo di se stesso, il corpo rinchiuso nella gabbia di riti vuoti e ossessivi. Il mosaico di colori esplode in un campionario di gesti, una routine vorace che macina, spersonalizza, si esprime all’imperativo: lavora. Consuma. Soffri. Ripeti. In un crescendo doloroso, l’ambiguità risiede nell’origine della forza: a muoverlo è la coercizione o la strenua resistenza ad essa? Lo studio sulla costruzione e destrutturazione del gesto quotidiano di Pas non avrebbe che pura efficacia tecnica se non fosse accompagnato dal suo sguardo docile, intenso, umano, che tende la mano allo sguardo dello spettatore, sembra chiedere aiuto e invece chiede solo di essere visto. E in lui, vediamo noi: stanchi, persi, soli. Eppure, capaci di empatia: salvarsi forse è ancora possibile. (Sabrina Fasanella)

Visto a Terreni Creativi 2024 – Albenga idea e interpretazione Charles Pas. Idea e composizione dal vivo Willem Lenaerts, Rint Mennes. Mentori Stephen Liebman, Liet Lenshoek, Suzy Blok. Drammaturgia Wessel Padberg. Costumi Bonne Suits. Produzione Likeminds in collaborazione con A Fully Coherent Plan, ICK Artist Space. 

#SANTARCANGELO

MURILLO, LEZIONI DI ELEMOSINA (di Claudia Castellucci / Societas)

Si può condensare in venti minuti il senso di un gesto? Occorre convocare in una sala un corpo, pensare un ambiente completamente alieno a quello da cui lo spettatore proviene, suggerendo, come di fronte a una statua, di aggirarsi attorno alla figura che nel frattempo si muove, rivolgendosi al cerchio degli astanti, proponendo loro delle pose raggiunte tramite uno studio dettagliato di ogni giuntura e muscolo, calibrando durata, intensità e spostamento del punto di vista. Claudia Castellucci porta a Santarcangelo Festival 2024 un tableau vivant sul gesto e l’atto dell’elemosina, ispirato alla produzione pittorica di Bartolomé Esteban Murillo, poeta visivo del secondo Seicento spagnolo che – andando oltre i dipinti a tema sacro – aveva ornato le case del ceto medio-basso con scene di vita di strada, tra mendicanti e picari affondati nella polvere degli angoli urbani. L’interno che si apre sulla strada preda di un’afa invincibile è avvolto in una tiepida foschia e nella semioscurità. Ci accoglie di spalle l’interprete – Silvia Ciancimino – avvolta in un mantello scuro, calzando un sudicio cappello a tesa larga, i piedi anneriti dal camminare scalza. Immobile come un’inquietante guardiana di ronda notturna, attende che il pubblico le disegni attorno un cerchio per avviare un movimento che, di fatto, s’interromperà solo a posa assunta, per pochi secondi che la preparano a quella successiva, realizzando una misteriosa teofania. Il suo volto, solcato da sottili rametti di pianta fissati su fronte e gote, si colora a volte di un inquietante sorriso; chiede muta ciò che non ha e, al contempo, offre il niente che ha, porgendo le mani o disegnando spirali a terra, mostrando – ed è un atto di laica oscenità – gambe forti sotto le pesanti squame della veste. In questi tempi intrisi di frenesia per la significazione, di rado si assiste a una tale rigorosa celebrazione del segno; nello spettacolo della sottrazione lo sguardo resta disarmato di fronte alla potenza dell’immagine e del corpo. (Sergio Lo Gatto)

Visto a Porta Cervese, Santarcangelo Festival. Tableau vivant di Claudia Castellucci parte del ciclo “Veduta di”, interprete Silvia Ciancimino, musica e suono Stefano Bartolini, organizzazione Valeria Farima, tecnica Francesca Di Serio, produzione Benedetta Briglia, amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno.

RECTUM CROCODILE (di Martin M’tuomo)

Marvin M’tuomo, cresciuto a Guadalupa e poi trapiantato nell’Europa francofona delle grandi opportunità produttive, firma un’opera seconda tesa al raduno di coscienze occidentali e bianche attorno a una sorta di crudele circo, dove ogni bieco peccato coloniale viene chiamato in causa, per liberare un urlo nemmeno più disperato, piuttosto sardonico e beffardo. Disposti sui quattro lati, guardiamo un tappeto verde, da cui spuntano sparuti ciuffi di verzura; sarà l’arena per una sfilata di personaggi, evocata da una voce infantile al suono del proverbiale “c’era una volta”. Piante, alberi, animali di ogni genere prendono vita dal corpo dei performer, che si riversano in scena avvolti in una sorprendente collezione di costumi, esplosiva per varietà di forme, tessuti, colori, sotto un piazzato volutamente kitsch, se non quando il testo si apre a feroci tirate di monologo – la recitazione è tesa e solida, composta in una trama di tensioni muscolari ferme in pose rigorose – che ci ricordano ogni sopruso da “noi” inflitto alle popolazioni native. Le protesi su fianchi e seni, i tacchi smisurati, il trucco pesante, le soluzioni di vestiario che citano i dettagli di altre specie animali o vegetali confermano un indubbio ingegno nel traslare in accessori e outfit il maquillage occidentale imposto all’anima primigenia dell’umano. In questa lunga e insistita fiaba horror, il progetto di j’accuse è però fin troppo chiaro dall’inizio: nonostante alcuni quadri incisivi e una certa accuratezza nella gestione del ritmo, il programma politico ha di fatto il sopravvento sul gesto artistico e – complice una temperatura insostenibile – una corretta gestione di tempi e durate soccombe al gusto autoritario di chi desidera rendere esplicito ogni passaggio di senso. Nell’atto di liberarci da certi stereotipi, il discorso finisce per innescare una macchina di consenso che, diventata rassicurante, paradossalmente penalizza la possibilità di relazione critica con la materia e lascia da solo l’apprezzamento di fattura e d’esecuzione tecnica. (Sergio Lo Gatto

Visto a ITSE Molari, Santarcangelo Festival 2024. Regia, scrittura, scenografia, costumi Marvin M’toumo, scrittura scenica e performance Davide-Christelle Sanvee, Élie Autin, Grace Seri, Amy Mbengue, Djamila Imani Mavuela, Marvin M’toumo, musica Vica Pacheco, Baptiste Le Chapelain, luci Alessandra Domingues, make up art Chaïm Vischel, junior costume designer Marie Schaller, scenografia Angelo Bergomi, consulente e mediatrice in materia di diversità, equità e inclusione Prisca Ratovonasy, traduzione testo in inglese Sarah Jane Moloney, amministrazione e produzione Anna Ladeira, Mirta Ursula Gariboldi - Le Voisin, coproduzione Emergentia - temps fort pour la création chorégraphique émergente réalisé par L’Abri, le TU et le Pavillon ADC Genève, Arsenic - Centre d’art scénique contemporain Lausanne, PREMIO - Prix d’encouragement pour les arts de la scène, residenza Pavillon ADC Genève, Tanzhaus Zürich, Gessnerallee Zürich

NULL & VOID (di e con Agata Siniarska)

In un Lavatoio affollato – e finalmente al riparo dall’afa – va in scena un solo della performer polacca, con base a Berlino,  Agata Siniarska. La sua si presenta come «una pratica tra il modo in cui pensiamo al mondo e il modo in cui ci viviamo al suo interno», che forse potrebbe essere una buona localizzazione per la maggior parte della ricerca artistica. In questo caso l’indagine esplora un tema già a lungo frequentato dalle arti e ispirato dalla recente corrente filosofico-informatica del post-umanesimo. Nel suggestivo quadro di apertura, il corpo avvolto in una sorta di gigantesco mantello frastagliato investito da luci stroboscopiche, un frastornante paesaggio sonoro riproduce gli orrori acustici della guerra: il movimento è coordinato con sapienza, mentre la performer guadagna il fondo del palco. L’esito di questa apocalisse sarà la nascita di un nuovo essere, con schiena e arti dotati di protesi che ricordano il body horror di David Cronenberg: nella desolazione muove passi incerti, attraversando un mondo e una specie che non esistono più; la coreografia non riesce però ad andare oltre l’imitazione di movenze e atteggiamenti animali e si compie in una catarsi eccessiva, mentre il corpo è scosso da un’insistita vibrazione e le labbra rigurgitano un liquido nero. Fatta salva l’importanza di figurare col mezzo artistico questo tipo di deriva, la performance risente di un minimalismo che finisce per lasciare spazio a vera e propria afasia di idee. La feroce critica al capitalismo e al sessismo, la resilienza dell’ecosistema che tentiamo di rovinare, una nuova possibile relazione con il regno animale e vegetale, fino alle ipotesi di fusione cibernetica, tra manifesti e programmi di biopolitica, affollano le dense pagine di autrici e autori come Rosi Braidotti, Donna Haraway, Robert Pepperell, Judith Butler, ma anche, in nuce, Michel Foucault le quali, se convocate, dovrebbero portare a più incisive modalità con cui discutere in forma performativa le sorti della nostra specie. (Sergio Lo Gatto

Visto al Teatro Il Lavatoio, Santarcangelo festival 2024. Concept e coreografia Agata Siniarska, collaborazione artistica Julia Plawgo, Julia Rodriguez, Lubomir Grzelak, Partners in Craft, rat milk, Zuzanna Berendt, body sculpture e make-up Una Ryu, costumi Maldoror, luci Annegret Schalke, training vocale Ignacio Jarquin, musica e suono Lubomir Grzelak, composizione da “Uncle Boonmee who can recall his past events” di Silver Screen Sound Machine, produzione Agata Siniarska, coproduzione Tanz Im August / HAU Hebbel am Ufer, Cross Attic Prague, Partners in Craft

#GIBELLINA

Giovanna D’Arco (Silvia Ajelli)

L’attrice e regista Silvia Ajelli si cimenta nella messa in scena del romanzo popolare in versi Giovanna D’Arco di Maria Luisa Spaziani, un testo poetico che riscrive la storia della pulzella d’Orleans affiancandole un doppio - o una strega come nell’interpretazione contemporanea della regia - la sorella Caterina la cui vicenda si mescola a quella di Giovanna tanto che le due vite paiono coincidere in un una. Il pretesto dell’autrice è la scomparsa della sua protagonista, l’ipotesi ovvero che Giovanna D’Arco non si mai morta sul rogo e che al posto suo, in uno scambio plautino, sia stata sacrificata proprio la sorella. Portare in scena questo scritto tenendo conto del momento storico in cui è stato concepito, gli anni ’90 del Novecento, è impresa ardua. Quello che ci si potrebbe aspettare è una lettura in chiave contemporanea della storia di Giovanna, un’eroina intrisa di misticismo che comunica con l’angelo, che convive con le sue visioni e che incarna una profezia: lei salverà il suo paese liberandolo dall’oppressione dello straniero. La poesia di Maria Luisa Spaziani racconta una dicotomia tra follia e speranza, rievoca la gloria e il dolore di Giovanna se la si ascolta a occhi chiusi per le voci della stessa Ajelli e di Gaia Insenga. Riesce a suscitare ancora compassione in un momento in cui la guerra tra Stati e la guerra personale di una donna possono assumere molteplici sfumature e, soprattutto, lasciare traccia del loro passaggio sui nostri corpi, spettatori seduti in tacito ascolto. Eppure la regia resta molto fedele al genere cavalleresco: la scena, un enorme carrubo e un cavallo di Mimmo Palladino - patrimonio della Fondazione Orestiadi - è arricchita da pochi altri elementi con cui le attrici per lo più non interagiscono. Un’importante presenza della musica dal vivo di Ermanno Dodaro e Raffaele Pullara rende concreta l’atmosfera della ballata popolare. Anche i costumi, seppur minimali, non superano quest’impressione, con una stilizzazione non troppo sottile: sono abiti d’epoca semplificati con la chiusura lampo sul davanti. Distrae il gusto quasi didascalico fatto di ceppi e candele, luci calde e un gesto forse troppo affettato che racconta poco l’autodeterminazione di questi due personaggi poetici.

Visto a Orestiadi Festival. Di Maria Luisa Spaziani con SILVIA AJELLI e GAIA Insegna musiche composte ed eseguite dal vivo da Ermanno Dodaro e Raffaele Pullara regia di Silvia Ajelli PRIMA NAZIONALE in collaborazione con Parco Archeologico di Siracusa

#MONTICCHIELLO

IL VELO DELLA SPOSA (Autodramma del Teatro Povero di Monticchiello)

Dopo cicli di sincero ascolto delle storie comunitarie degli attori-abitanti del Teatro Povero di Monticchiello, quest’anno al posto di drammatiche parabole economiche e sociali della campagna toscana mi sono (anche) trovato a tu per tu con la materia intima e conflittuale di un rapporto divaricato, dagli anni ‘40 a oggi, tra un fratello e una sorella. Come se la coscienza neorealistica dei Fratelli Taviani o di Ermanno Olmi avesse contagiato l’officina di scrittura della gente del posto, per il 58° autodramma Il velo della sposa, frutto di assemblee coi registi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli, da cui è nato uno spettacolo d’una quarantina di interpreti dell’area di Monticchiello, in replica fino al 14 agosto. Il lavoro ha la portata d’una trilogia che parte dai tempi della guerra (1938-1943), s’evolve con uno scenario più a distanza (1960), e culmina in un fanta-futuro dei nostri giorni (2024). Dopo un avvio da morantiano mondo salvato dai ragazzini, il fronte bellico lascia orfani e separa i due figli Tonio, adottato dallo zio, e Palmira, a servizio da una signora di Colle Val d’Elsa. Un quindicennio più tardi ritroviamo Palmira in paese, interpretata da Giulia Casiroli, giunta lì a dare frugali e preziose ripetizioni ai suoi rozzi concittadini davanti a una lavagna, e nell’aula rimediata ecco irrompere il fratello solo ansioso di risolvere con la sorella una pendenza ereditaria e garantirsi un matrimonio d’interesse. Lei ha un ragionare delicato, e quindi cede subito, ma lo scollamento è irrimediabile: tornerà a rifugiarsi da chi l’ha accolta e educata. La più pragmatica delle conclusioni attuali ci conduce a un Tonio maturo, reso da Arturo Vignai, il decano del cast, che ormai governa una squallida azienda di cerimonie de luxe, finché riceve un messaggio da remoto della sorella che gli svela come tutta la vita di lui sia solo un brand sostenuto da lei. Una altruista e un verme allo specchio. Io direi che ha fatto bei passi in avanti, il Teatro Povero. (Rodolfo di Giammarco)

Visto in piazza della Commenda di Monticchiello, Repliche fino al fino al 14 agosto 2024. Foto Emiliano Migliorucci

#BASSANO

MONUMENTUM THE SECOND SLEEP / SECONDA PARTE, IL QUARTETTO (di Cristina Kristal Rizzo)

Da qualche tempo, Cristina Kristal Rizzo riflette sul dispositivo per eccellenza della affermazione di ogni potere: il monumento. Ne ha già fatti 3, e rispettivamente prendono di mira, e buttano giù dal piedistallo: 1° (con Megumi Eda) l’individualismo iperproduttivo neoliberale, cui contrappone un corpo ipnotico e alterato; 2° (con un quartetto) la storia come linearità temporale di discorsi escludenti, cui contrappone lo spettacolo che resta in ombra; 3° (con Diana Anselmo) la logica della sintassi fonocentrica e il predominio dell’ascolto, cui contrappone nuove modalità di comprensione. A Operaestate ho (ri)visto il secondo episodio, che ha in scena, Marta Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Violetta Cottini. Il tempo ha dimensione immateriale e per molti versi soggettiva, ed è difficile da concettualizzare, ma ancora più difficile da visualizzare: ma Rizzo ci riesce. E non è un caso che, il tema del tempo, del suo scorrere ineluttabile, della sua memoria, sono oggi temi strategici nella performance contemporanea. Quella di cui si parla qui è la prospettiva invisibile della temporalità: come il danzare fuori luce; una gestualità in perdita di significato, come nello spalmare d’olio i corpi puramente esibiti; oppure nell’eseguire le routine più iconiche su brani pop ed electropop, e poi ritrovare infine, nella seconda parte, una coralità più quotidiana e distesa non priva di difficili contrasti. In sintesi, Rizzo propone una nuova concezione di storicità. Qui contano le ombre che esitano alla luce come anacronismi in cerca di memoria, i ritorni musicali come retrotopie che progettano il futuro, eccedendo il «mondo della vita» dal quale sono stati generati. Qui anche molto conta l’elaborazione sonora live ricca di rumori e scoppi (spari? bombe?) disposta in diretta da Rizzo stessa (che comunque riserva per sé un ingresso solistico su palco, danzato a cerniera fra le due parti della performance, pieno di glamour nel costume e di linee ben distese nei movimenti). E il disegno luci, ma vorrei scrivere, senza sarcasmo, disegno del buio di Gianni Staropoli. Dopo il finale, un omaggio, inatteso, a Steve Paxton, al suo Bach di Glenn Gould, e al suo sapere improvvisativo: il tempo di due variazioni Goldberg, prima dell’improvviso black out. (Stefano Tomassini)

Teatro Remondini Bassano, Operaestate Festival. Concept, coreografia, costumi Cristina Kristal Rizzo, Danza Marta Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Violetta Cottini, Elaborazione sonora live Cristina Kristal Rizzo, Disegno luci Gianni Staropoli, Collaborazione teorica Lucia Amara e Laura Pante, Creative Producer Silvia Albanese, Produzione Tir Danza

#SANSEPOLCRO

A SOLO IN THE SPOTLIGHTS (di e con Vittorio Pagani)

Vittorio Pagani, danzatore e coreografo classe 2000 impone un marchio di pungente ironia sardonica al suo A Solo in the Spotlights, creazione selezionata per l’ultima Vetrina della giovane danza d'autore eXtra e visto, tra le varie occasioni, a Kilowatt Festival. Si tratta di un elegante ma giocosa messa a nudo di una logica che appartiene al mondo della danza, (ma diremmo in generale al mondo dell’entertainment) che però viene sempre taciuta, e lo fa mettendone in scena i meccanismi perversi attraverso una logica socratica e mai artefatta, dove ciò che è manifesto svela il suo contraltare opposto senza mai forzare troppo la mano. Pagani, con possanza e grazia, crea una danza che è figlia di una posizione intellettuale precisa, porta in scena un movimento sessualizzato e lo critica; chi dice che a essere oggetto di desiderio smodato siano soltanto i corpi femminili? Vedi per esempio la questione sollevata sul nuotatore olimpionico Thomas Ceccon, ammirato più per il fisico che per la medaglia. In scena lui stesso, in veste di anonimo performer dal volto coperto da un passamontagna – ma rosa shocking, attraente e modarolo, come gli shorts, a contrasto con gli onnipresenti calzini di spugna, must del danzatore contemporaneo – è a un provino per uno spettacolo. Danza, inventa, si presta: fa di tutto perché possa essere preso. Il problema è quanto pesa questo “tutto”, fin dove spingersi pur di ottenere ciò che si desidera. E poi? Se bisogna essere sempre più performanti, catchy, aggressivi ma disposti a sottomettersi pur di stare dentro il sistema, a perdere le proprie idee cedendole al nome più forte, è quasi scontato tacitare il proprio senso etico e civile. Ma non solo, a esser presa di mira è anche una certa tecnica e gli strumenti utilizzati per ottenerla, come per esempio il momento di virtuosismo in cui una frase coreografica viene inventata dal personaggio, per poi essere eseguita molte altre volte con caratteristiche sempre diverse, secondo indicazioni di un voice over che fa le veci del coreografo, fino a stremare il malcapitato che, tra speranza e ingenuità, accetta tutto senza batter ciglio, anche un verdetto negativo. (Viviana Raciti)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Coreografia, drammaturgia, interpretazione Vittorio Pagani produzione The Place London spettacolo selezionato per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL produzione esecutiva Equilibrio Dinamico collaborazione alla drammaturgia Hannes Langolf, Martin Hargreaves luci Mark Webber

JUST WALKING (di Michele Losi)

Oriente. Tra i cardinali è il punto dell’equilibrio, la direzione da osservare per comprendere l’origine e il futuro. Provenire da e andare verso. E dunque camminare non può non essere una continua ricerca dell’oriente, sia come appunto direzione sia come raccolta del pensiero che nasce attraverso il movimento. Just walking, creazione di Michele Losi di Campsirago Residenza, che percorre le strade e i giardini nel centro di Sansepolcro (con Sebastiano Sicurezza e Marialice Tagliavini), è una performance urbana itinerante, ma si potrebbe precisare: è un cammino ma non un tracciato, perché l’intenzione proposta dall’ideazione, una possibile mappa, non sarà mai il tratto che ognuno sceglie di occupare con il proprio corpo nello spazio. Ogni tracciato è, dunque, un atto politico preciso, la scelta di esserci, di abitare con il proprio passaggio un certo luogo, ma soprattutto così riconoscere e accettare lo spazio, la scelta, dell’altro. Cosa c’è di più politico che essere insieme formulando le regole, le misure, della coabitazione? Ognuno indossa una cuffia auricolare, ognuno dunque è con sé stesso e in mezzo agli altri, vive nel silenzio il suono d’intorno, incontra lo sguardo di passanti ignari dei racconti, delle parole, del respiro che attraversa i pensieri che tracciano prati, strade e tratti di ferrovia. Ma è soprattutto la percezione di tempo e spazio che cambia del tutto tra il dentro e il fuori: le geometrie del sole e dell’ombra sembrano giocare con i passi dei camminatori, di chi espone il proprio ritmo condiviso allo sguardo e al paesaggio, si tiene per le braccia e marcia in mezzo ai tavoli dei bar, gira in cerchio sventolando volti di grandi pensatori del cammino, urla in silenzio i nomi dei desaparecidos argentini, si china dentro un giardino come fa una ragazza poco lontano, coglie un fiore di lavanda, lo porta alle narici e ne raccoglie il profumo. Ecco, se camminare, come scrive Losi, è una pratica di comunità, chi scrive qui è convinto di aver sentito quel profumo in punta al proprio naso. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: drammaturgia, regia, interpretazione Michele Losi; e con Sebastiano Sicurezza e Marialice Tagliavini; elementi di scena e costumi Stefania Coretti; musiche Luca Maria Baldini e Nori Tanaka

LA CANTAUTRICE FANTASMA (di Ivan Talarico)

Può capitare che una notizia rilevante sia tenuta nascosta all’opinione pubblica, ma può capitare in contrario che una rivelazione sconvolga ciò che ormai storicizzato esiste nel nostro comune immaginario. Eppure, tra la news segreta e la news rivelatrice, si annida il pericolo della notizia falsa che confonde, nello stesso tempo, da un lato i dubbi e dall’altro le certezze. È in questa prospettiva che si muove La cantautrice fantasma di Ivan Talarico, un teatro-canzone in apparenza situato nella tradizione gaberiana, per citare uno tra i maggiori esponenti, ma che rivela una profondità peculiare proprio nella direzione su indicata, una sorta di processo di antiarcheologia per riflettere sul tema dell’autorialità nell’arte. Cosa c’è di più popolare, in Italia, che non le canzonette? Conosciamo a memoria parole e motivi di canzoni storiche, da Modugno a De André, da Paoli a Battisti o Conte, ma se le cose non fossero come le conosciamo? Saremmo pronti ad accettarlo? Nessuno sapeva che molti di questi brani sono stati scritti dalla sconosciuta cantautrice Agata Facci! La narrazione di Talarico compone un viaggio musicale tra aneddoti più o meno noti della canzone popolare d’arte, in cui la donna appare come una sorta di ritornello nelle storie altrui; la scoperta che ne deriva passa così agli spettatori con crescente e suadente fastidio, perché via via raccogliendo i dubbi non si può non provare fastidio, dapprima per la propria incredibile ignoranza, poi perché ci si sente privati di un tratto di memoria che ormai abbiamo fatto nostro. Ecco il tema: gli autori delle canzoni, ne hanno davvero la proprietà intellettuale? E quella emotiva? Sul palco una chitarra – che diventa una piccola orchestra di corde grazie all’uso sapiente della loop station – e un pianoforte che permettono di rivivere le canzoni della sfortunata Agata Facci, amica di grandi artisti che hanno plagiato la sua arte, come se fossero riscritture al contrario, arrangiate in sottrazione, frammenti di uno stadio precedente al capolavoro originale. Ma poi, appunto, cos’è davvero originale? Forse, soltanto, questo spettacolo. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: di e con Ivan Talarico; grazie a Roberto Castello, Aldes, Giulia Zeetti

MISERELLA (Teatro dell’Argine)

Nel teatro italiano c’è chi continua a lavorare sullo stesso territorio da anni, creando spettatori e, come in questo caso, spettacoli di valore. Si distingue in questa breve genealogia il Teatro dell’Argine, dal 1994 alla guida dell’ITC di San Lazzaro di Savena, nella prima provincia bolognese, dove ha preso vita il nuovo Miserella, al debutto nazionale a Sansepolcro. Un salotto minimale arredato con un gusto di raffinato design, con tre lampadari disposti geometricamente e tre schermi verticali in fondo, apre la scena; pur naturalistico lo spazio nelle intenzioni, l’uniformità lanosa del bianco moquette vi accoglie elementi pastello di vari colori, così da arricchire l’immagine con elementi semplici ma significanti. La regia di Micaela Casalboni coordina sapientemente quattro attrici – lei stessa, con Caterina Bartoletti, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi – cui si devono anche le parole del testo, composto assieme a Nicola Bonazzi, tratto dalle interviste fatte ad altre donne, che si ascoltano in voce off, in merito all’invecchiamento, alla trasformazione del proprio corpo e al modo migliore per accogliere il tempo che compie il suo corso. Quando inizia la famosa “mezza età”? Questa domanda sibila tra le storie di ogni donna che si racconta, sotterranea emerge dalla crescente necessità di continuo allenamento o di una nuova alimentazione contro l’aumento di peso, dalla scelta di abiti adeguati alla diversa età, dai nodi alle mani o quella ruga o quel capello grigio, da tutto ciò che si trasforma senza dare il tempo di abituarsi. Casalboni dispone le attrici in una frontalità attraverso cui cercare fin da subito contatto con il pubblico, lasciando all’ironia e alla leggerezza di veicolare la sofferenza e lo smarrimento per ciò che fa diventare diversi da una mutazione ideale. Miserella è il nome di una pianta – molte ce ne sono in scena a veicolare queste parole in un divenire naturale – il “fiore di stecco” che porta in cima al gambo secco molti sorprendenti fiori. E le piante non sanno se non vita o morte, non hanno mezze età. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: parole di Caterina Bartoletti, Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; con Caterina Bartoletti, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; regia Micaela Casalboni; collaborazione alla regia Andrea Paolucci; scenografia Nicola Bruschi; costumi Sabrina Beretta; musiche originali Davide Sebartoli; luci William Sheldon; cura del gesto coreografico Daniele Ninarello

#PERUGIA

SLEEP INTHE CAR (di Virgilio Sieni)

Sul selciato del piazzale della Fondazione Sant’Anna, la Citroën Dyane 6 color amaranto fa il suo ingresso con lentezza, aprendosi un lieve varco sonoro nel frinire ininterrotto delle cicale. Sediamo a terra, sorridenti, nel caldo immobile del tardo pomeriggio, mentre si sollevano – quasi con casualità, con una sorta di benevola autonomia rispetto all’evento scenico – le note di Domenico Scarlatti. La coppia di danzatori abita lo spazio – quello intimo e angusto dell’abitacolo prima, l’orbita attorno all’auto poi – ponendo ogni accento sulla vicendevolezza, sulla relazione mutua e naturale alla quale i loro corpi sono devoti. I movimenti si dispiegano, soppesando la carnalità fino alla leggerezza, a comporre una ricognizione sentimentale delle possibilità del corpo, il proprio e quello dell’altro: luogo e strumento del più improbabile gioco, del dolore, della perdita di controllo, così come dell’impaccio e dell’evento ordinario. Vi è un sentore profondo di materialità, il presentimento perenne di una sorta di “effettività” che connota il pensiero coreografico, che offre all’astrazione della ricerca sul movimento (alle sue sublimazioni) il tracciato semplice delle consistenze terresti. Come scrive Deleuze desiderare significa «costruire un concatenamento, costruire una regione» ed è, infine, a una grazia analogica e, si direbbe, che l’immaginazione rinviene. La geografia è allusa nell’oggetto scenico (una vecchia cartina che viene dispiegata e consultata) e nella varietà di suoni che l’azione nello spazio aperto genera. È contenuta nelle premesse della performance (che vuole esplorare l’idea del sonno in auto, a varie latitudini e longitudini), ma anche nella nozione stessa di viaggio: un viaggio lento e lungo, che richiederà di dormire accampati, arrangiati, di fare della macchina una piccola casa provvisoria, di inscrivere se stessi in vari luoghi e paesaggi, lasciando che agiscano sulla propria percezione individuale, ma anche sulla propria intesa. Come a dire che non esiste un sentire che non sia situato, e non esiste un movimento che non pretenda la disponibilità all’immanenza. (Ilaria Rossini)

Visto a Fondazione Sant’Anna, Perugia – Umbria Dance Festival 2024. Crediti: coreografia di Virgilio Sieni/Compagnia Virgilio Sieni; performance site specific; in collaborarazione con Franco La Cecla; con Jari Boldrini, Sara Sguotti, Maurizio Giunti.

#SPOLETO

LA MORTE A VENEZIA (di Liv Ferracchiati)

«L’occhio è la forza. Fare dell’inconscio un discorso è come omettere l’energetica» scrive Jean François Lyotard in Discours, figure (1971). È in una prospettiva simile – una resa al cospetto dei limiti della parola – che Liv Ferracchiati, in scena nei panni di Gustav von Aschenbach, filtra il racconto di Thomas Mann, impiegando un elemento nuovo nel suo teatro, la videocamera manovrata a mano, per duplicare e sovraesporre il movimento e l’incanto di Alice Raffaelli, Tadzio contemporaneo. Il tema viene dall’antichità classica: la psicologia omerica è fondata sull’idea che la possessione – intesa come esperienza di trasformazione erotica e misterica («plenus deo») – si realizzi in una dimensione contemplativa della grazia plastica dei corpi, trascendendo, almeno nel momento estatico, la dualità che contrappone apollineo e dionisiaco. Ferracchiati si muove su questo confine, in uno studio attorno alla possibilità di esondazione di una forza entro l’altra: il parlato registrato della prima parte, la sua grazia quasi di maniera, sconfina nella voce viva e trafitta della seconda. Il momento di passaggio è affidato a Mi sei scoppiato dentro il cuore di Mina, sintetizzata però sulle frequenze dello spavento, un po’ à la Cronenberg. Se dell’inconscio non si può fare – vedi sopra – un discorso, il potere della parola sembra permanere (oltre che come tentativo) soprattutto nella sua purezza di fatto fonico e ritmico, dotato dunque di un’espressività più “spaziale” che logica. Eppure i limiti del linguaggio, come Wittgenstein vuole, sono i limiti del mondo e, in questa logica, la deposizione, da parte di Ferracchiati, dell’ironia – da sempre impiegata, nella sua ricerca, come strumento di controllo e di sollievo, e come “appiglio esistenziale” – appare anche una rinuncia ai propri domìni. Simile all’atto di coraggio che serve per spingersi oltre i confini del noto, e al disarmo con il quale ci si predispone alla contemplazione di un vuoto, all’ascolto di un silenzio, alla morte. (Ilaria Rossini)

Visto a Chiesa di San SimoneSpoleto Festival dei Due Mondi, prima assoluta. Crediti: ispirato a  La morte a Venezia di Thomas Mann; drammaturgia e regia Liv Ferracchiati; con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli; movimento Alice Raffaelli; dramaturg Michele De Vita Conti; aiuto regia Anna Zanetti e Piera Mungiguerra; assistente alla drammaturgia Eliana Rotella; scene Giuseppe Stellato; costumi Lucia Menegazzo; luci Emiliano Austeri; suono  spallarossa; voce di Tadzio Weronika Młódzik

#BASSANO

UN AMICO – OMAGGIO AL MONDO DELLA MUSICA DI EZIO BOSSO (di Mario Brunello e Virgilio Sieni)

Appena entrato, non ci pensa nemmeno un attimo, come Mario Brunello attacca col suo archetto così fa Virgilio Sieni, discosto al pianoforte (sul quale vigila solerte Maria Semeraro), e sembra voler stare in ombra, dimesso, invece è già in ascolto: prima le mani poi braccia spalle gambe piedi e poi busto in torsione a prendere per spirali lo spazio tutto, e subito a mille, senza esitazione preparazione progressione, no. C’è qualcosa che non può attendere. L’avvio di questo concerto di danze letteralmente scoppia. Due anzianotte alle mie spalle saltano sulla sedia, sorprese e travolte: «Non sapevamo che c’era anche la danza!, siamo qui per Brunello [che è di Castelfranco Veneto...], ma che magnifica sorpresa...» (e infatti, al termine, già con il primo buio, via con applausi infiniti e sentiti e mille sgolati bravo bravo). Questa serata, Un amico - Omaggio al mondo della musica di Ezio Bosso, vista a Operaestate (programma che sta registrando un vero successo di pubblico), è nata come un omaggio all’amicizia tra i tre, anche raccontata al microfono (con sobrietà e distacco) in avvio di performance da Brunello, e comprende gli ascolti comuni, non negoziabili, sempre discussi perché sempre troppo amati. Arvo Pärt, Messiaen e Bach, soprattutto, ma anche Cage. Per chiudere con il brano in due parti di Bosso, The Roots, sonata n° 1 per violoncello e pianoforte. Lunga e faticosa: una scrittura musicale iperespressiva, già intensamente determinata nella scrittura per i due strumenti. Qui Sieni tiene opportunamente il gruppo a contrasto. Sono Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, e Linda Vinattieri, impeccabili, fin dall’inizio della serata, con entrate alterne sempre in forte consonanza con le partiture. Ora invece i gesti non seguono mai la musica, ma sono guidati da una loro ricezione “molecolare” (come piace ripetere spesso al coreografo). Ossia il gesto non segue la struttura e la partizione della partitura ma la sua più immediata possibilità di rendere materiali i suoni. L’ultima figura è toccante: due amici di spalle se ne escono in una stretta piena di leggerezza, con loro le utopie di un’intera epoca. (Stefano Tomassini)

Teatro al Castello “Tito Gobbi”, Operaestate Festival, Coreografia e spazio Virgilio Sieni, Violoncello Mario Brunello, Pianoforte Maria Semeraro, Compagnia Virgilio Sieni Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, Linda Vinattieri, Musiche Pärt, Cage, Bach, Messiaen, Bosso, Luci Andrea Narese, Costumi Marysol Maria Gabriel, Produzione: Centro Nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni, Ravenna Festival, Opera Estate Festival Veneto, Settimane musicali di Stresa, Festival Internazionale. Con la collaborazione di Antiruggine srl

U. (di Alessandro Sciarroni)

Sconcertante. Infatti è un concerto di voci. Tutto è fermo. Eppure tutto si muove. Tutto è sospeso, ma tutto scorre. Tutto canta, tutto suona. Senza variazioni, fino alla fine, ininterrotto: 11 brani (canti corali tratti dal repertorio contemporaneo), 7 cantanti, disposti frontali, come un coro, e sono bravissimi: Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli. Un repertorio attualissimo e senza virtuosismi. Le parole qui contano moltissimo. Sulla parte alta del fondo si proiettano i titoli dei brani, gli autori, l’anno di edizione, preceduti da qualche riga poetica introduttiva (tutto mai disutile). E con anche la numerazione parziale dei brani (forse un po’ burocratica, certo per controllare l’ansia di ognuno). Il nuovo lavoro di Alessandro Sciarroni, U. (è forse la prima lettera di Un canto: massimo della sobrietà e ostentata umiltà che coincide, come per i santi, col massimo della superbia) è un ennesimo riuscito tentativo di tenere a bada il nero, l’abisso, la notte, di uscire dal peso della vita, forse personalissimo (Sciarroni non è proprio la persona più solare del mondo), eppure peso di tutti. In questa esibizione non c’è spazio (quasi non si muovono); tutto avviene nel tempo: del canto, delle voci, queste sì, spazializzate, ed è una continua disseminazione di idee, e di immagini, e di pensieri pensosi ed esigenti. La forma (corale) è lieve ma il contenuto ha invece il suo peso. A partire dalla difficile aurora d’avvio (cantata in penombra con un faro di controluce): «La notte più nera, il cuore non batte». All’ingiuntivo (e bellissimo): Ma dove andate?, per me vera pointe della serata («cosa cercate | se non avete mani per sognare?»). Quando già solo gli occhi aprono mondi: «Guarda lo sguardo | con quello | come so, | io ti parlo» (Guarda gli occhi che ho). Alla fine, resta il sottile sottilissimo (ai molti anche insopportabile) confine tra la quiete riacquistata, la luce ritrovata (Resterà la luce), e il precipizio che incombe nascosto, sempre di lì a un passo dal niente. Imperdibile. (Stefano Tomassini)

Centro storico Bassano, Operaestate Festival. di Alessandro Sciarroni con Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà & Pere Jou casting, consulenza drammaturgica, training fisico Elena Giannotti styling Ettore Lombardi disegno luci e cura tecnica Valeria Foti cura, consiglio e sviluppo Lisa Gilardino

TRITTICO ANTICORPI (Michele Scappa, Martina Gambardella, Pierandrea Rosato)

Serata Anticorpi a Bassano per Operaestate, con un trittico di nuove forze, in futuro tutte da monitorare: Michele Scappa, Martina Gambardella e Pierandrea Rosato. Tre assoli tutti danzati, tre diversi concept e tre diversi corpi in altrettanti differenti spazî. È la meraviglia dei festival estivi questa delocazione della performance, quasi sempre generativa di nuove impressioni. Scappa compone per Emanuel Santos un pezzo coreografico quasi tutto circolare, ispirato alle fotografie di viaggio di Ettore Sottsass, There is a planet, sul prato del chiostro del Museo Civico, con il pubblico seduto su tre lati (e non senza qualche volto alieno, che improvviso compare curioso, dietro una finestra). Santos è bravissimo nel catalizzare gli sguardi, nel costruire sotto i nostri occhi lo spazio, in un movimento anche vocale che evoca distanze sùbito presenti. Colpisce la mitezza con la quale indaga ed esplora, senza sottomissione. La location di Gambardella non poteva essere più intelligente e opportuna: ai piedi della tela di Leandro Bassano, Rinvenimento del corpo di San Giovanni Damasceno, in una sala del Museo. Qui Mute (che è un acuto studio sull’attesa del gesto ante il suo compimento) diventa un impressionante corpo a corpo con le figure composte della pittura circostante. Anche il cadavere del santo sembra cadere dalla tela per ritrovare in lei nuova voce. Una muta eloquenza che nel movimento straordinario e pieno di talento di Gambardella si traduce in una fitta dinamica di piani e volumi, che dànno forma più intima alle connessioni tattili del desiderio. Quella di Rosato è invece una sapiente scrittura scenica dello spazio, per il suo Infieri rilocato nella chiesa di San Bonaventura. La rinuncia a una immediata frontalità, dà corpo a entrate e uscite di ombre, in un sapiente gioco di sparizione e di luci, lungo l’articolazione dello spazio: ombre in cerca di nuova presenza. La mirabile qualità di movimento di Rosato completa una situazione cinetica che apre e chiude densità del vuoto, in una coreografia affermativa in termini espressivi, prima di scivolare via, senza voltarsi. (Stefano Tomassini)

Centro storico Bassano, Operaestate Festival. There is a Planet Idea Michele Scappa Performer Emanuel Santos Musica originale Francesco Giubasso Produzione Company Blu. Mute Coreografia e danza Martina Gambardella Musiche originali e sassofoni Giuseppe Giroffi Oggetti e batteria Stefano Costanzo Produzione Coded Uomo Sostenuto tramite residenza creativa da Associazione Sosta Palmizi. Infieri Di e con Pierandrea Rosato Luci Pierandrea Rosato Costumi Pierandrea Rosato Musica Nina Simone Produzione Sosta Palmizi Creazione per la serata Junge choreogrph*innen, Folkwang Universität der Künste

#ROMA

SMARRITA E SOAVE – ADRIANO POETA TRA I POETI (di Roberto Latini)

Per conquistare il cortile Alessandro VI, incastonato nella pietra stratificata di Castel Sant’Angelo, occorre percorrere una traiettoria circolare, una spirale che ripetutamente nasconde e rivela. Labirinto di storia, il percorso attraversa i secoli, tra lo sfarzo delle sale papali e l’asperità dei torrioni, fino al cuore di uno dei monumenti simbolo di Roma; qui va in scena la quarta edizione di Sotto L’Angelo di Castello, rassegna pensata per far dialogare le arti teatrali, coreutiche e musicali con l’arte museale. Un luogo di apparizioni, come quella dell’arcangelo che, salvando la città dalla peste, si impose sulla nomenclatura originaria del mausoleo, la dedica all’imperatore Adriano che lo volle e qui riposa. Roberto Latini guadagna il palcoscenico senza sforzo, anima rediviva, apparizione insieme terrena ed eterea. È Adriano, parla in prima persona, saluta il pubblico da padrone di casa e si racconta, con fare quotidiano, tra biografia e letteratura. Poi, un passo di lato, lo sguardo spinto più dentro e più in là, la poesia prende la scena, in un altro lungo labirinto di versi incuranti di ogni coerenza temporale, tessuti insieme dalla voce di Latini, quell’impasto misterioso e mutevole, aspro e dolce insieme, assecondato o incalzato dalle corde di violino e violoncello. Fuori dalla storia, la parola è mantra di un sentire senza cronologia, scava e solleva, dona e chiede, puro esercizio di umanità, di umano sentire, e di bellezza carpita, trattenuta nei secoli e infine liberata. L’artificio fonico, firma distintiva di Latini e Misiti, asseconda un percorso libero da vincoli e riferimenti, fluttuante, disturbante e lenitivo insieme. Un momento sospeso, effimero, in un contesto che si vorrebbe meno esclusivo, ristretto, eccezionale. (Sabrina Fasanella)

Visto a Castel Sant’Angelo - Sotto L’Angelo di Castello. Di e con Roberto Latini. Musiche di Gianluca Misiti eseguite dal vivo da Luisiana Lorusso (violino) e Claudia Della Gatta (violoncello). Luci e direzione tecnica Max Mugnai. Produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi

LE BAL DE PARIS (di Blanca Li)

Anche nell’edizione 2024 la programmazione di VIDEOCITTÀ ha concesso l’imbarazzo della scelta ad un pubblico sempre più numeroso ed entusiasta, attirato tanto dalla presenza di protagonist* delle sperimentazioni più audaci nel campo audiovisivo e delle new media arts, che da un sapiente programma di talk affidate a youtuber e podcaster di successo, o infine dalla trendissima line up dell’arena concertistica. Nessun altro festival della Capitale ha saputo infiltrarsi e risignificare il proprio luogo come VIDEOCITTÀ con l’area del Gazometro. Prova ne sia la costante adunata di passanti che, durante tutta la tre giorni, ne ha ammirato suoni e bagliori traguardando l’ex aria industriale dal Ponte della Scienza – soffermandosi come da anni ad ammirare il rituale sabba illuminotecnico che transustanzia la mole di vuoto e geometria del gasometro. Nel pantagruelico programma, ci siamo soffermati su Le Bal de Paris, di Blanca Li. Grazie a un supporto hardware ben più ricco della media delle VR experience (con un sistema di motion tracking sul corpo di ciascun* partecipante, utile a tracciarne i movimenti e a proiettarli nell’ambiente virtuale), 10 spettatori vengono catapultati in uno opulento mondo virtuale. Gli avatar attraversano un primo scenario in cui scegliere quale abito indossare tra una selezione haute couture della maison Chanel, partner dell’esperienza. Segue ingresso trionfale in una maestosa sala da ballo parigina, dove il banchiere Richard de la Rivière ha imbastito una festa in onore della figlia Adèle, appena tornata in città. Qui Adèle incontrerà Pierre, sua vecchia fiamma, e l’intreccio di coreografie e ricordi dei due avatar (impersonat* da due performer compresenti in sala) costituirà l’ossatura drammaturgica e la traccia che il pubblico seguirà attivamente, muovendosi tra scenari virtuali a perdita d’occhio inscritti in poco più di 100 mq di spazio fisico. Cosa resta del viaggio nell’immaginario patinato di una Parigi un po’ belle epoque, un po’ distopia post-umana del lusso? A parte un cerchio alla testa per l’eccessiva pesantezza dell’apparecchiatura, poco idonea a 40’ in movimento, a chi scrive restano l’ammirazione per l’alta manifattura softwaristica del lavoro, insieme al dubbio che il gesto virtualmente potente di scegliere l’habitus del proprio avatar non venga rinnegato dalla necessità di circoscrivere i corpi in una gloriosissima pantomima modaiola. Una fuga ad anello che non ci porta tanto lontani da dove siamo. (Andrea Zangari)

Visto a VIDEOCITTÀ Regia e sceneggiatura Blanca Li, produzine Film Addict (Etienne Li), Backlight, Fabrique d’Images, Actrio Studio, costumi Chanel, musica Tao Gutierrez, VFX Motion capture MocapLab-Paris, Elamedia studios-Madrid, VR supervisor Aymeric Favre, 3d supervisor Florian Lebordais, animation supervisor Sebastien Parent

#BORGO VALSUGANA

IN CIMA ALLE FAVOLE (Teatro dei Venti)

Il teatro e le arti performative da anni ormai fanno un importante uso dello strumento dell’ascolto in cuffia e i festival che propongono esperienze di racconto delle città, di ascolti collettivi resi singolari dai dispositivi, di narrazioni sulla memoria delle comunità, si sono moltiplicati. Di certo le opere di drammaturgia sonora permettono di mettere in comunicazione, con immediatezza, chi racconta con l’ascoltatore o l'ascoltatrice e lo spazio circostante.  In questo senso il lavoro del Teatro dei Venti - gruppo modenese creatore di grandiosi e suggestivi spettacoli di piazza e di un festival sull'appennino che è un piccolo gioiello di relazioni -  è un tentativo interessante di mettere in relazione una precisa comunità con un territorio, un luogo deputato all’arte contemporanea e un festival (quello di Pergine). Siamo ad Arte Sella, nella sede di Villa Strobele con il piccolo parco attorno e le sculture e installazioni; ci vengono consegnate le cuffie, possiamo muoverci nello spazio, tra un’opera e l’altra mentre ascoltiamo le voci di un gruppo di anziani e anziane delle Case di Riposo di Pergine Valsugana, Trento e Borgo Valsugana. Le voci, piene e fragili, antiche e sorridenti, raccontano favole e leggende di montagna, piccoli racconti che danno anche una spiegazione fantasiosa ad eventi e conformazioni paesaggistiche. Nell’opera ideata da Oxana Casolari e Cesare Trebeschi (tramite un laboratorio sul campo), con la collaborazione di Azzurra D’Agostino le favole si alternano a ricordi e riflessioni sulla montagna, “sono andata a piedi fino alla Cima 12, dalla quale si vedeva tutta la vallata” afferma una delle donne. Muoversi nello spazio di Arte Sella con la montagna nelle orecchie, tra memoria (di com'era la montagna decenni fa) e fantasia, è un cortocircuito non solo intellettuale, è la scoperta infatti a guidare i nostri passi sull’erba che ospita opere piccole o mastodontiche ma sempre in comunicazione (almeno questo è il tentativo) con la natura. (Andrea Pocosgnich)

Visto ad Arte Sella, Villa Strobele.   Ideazione e laboratorio creativo Oxana Casolari e Cesare Trebeschi Con la collaborazione di Azzurra D’Agostino Con Casa di riposo di Pergine, Trento e Borgo Montaggio audio Francesco Cervellino Supervisione artistica Stefano Tè Una produzione Teatro dei Venti in coproduzione con Pergine Spettacolo Aperto, Centro Servizi Culturali S. Chiara, Arte Sella Con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna Foto Giulia Lenzi

#CIVITANOVA

VENERE VS ADONE (di Enzo Cosimi)

La costruzione del setting è perfetta: un fondale che sembra una tenda ferrata, attorno fari a vista per delimitare uno spazio continuamente attraversato, in alto quasi una volta di lucernari, funzionale e insieme decorativa: come un’attualizzata scena elisabettiana, tutto è a vista, ma nulla è lì per creare illusione, perché tutto è fantasticheria. È la chimera restituita dalle forze materiali della performance. Il nuovo lavoro di Enzo Cosimi, Venere vs Adone, ispirato ai testi di Shakespeare, Marlene Dumas e Andy Wharol (mescolati dal sapere di Maria Paola Zedda), ha debuttato in prima assoluta al Teatro Annibal Caro per Civitanova Danza 2024, festival organizzato da Amat Marche. È lavoro molto ben scandito in quattro capitoli che impaginano la visione: il percorso è lineare (dolore, seduzione, eccesso e congedo), ma la potenza dell’immaginario all’opera allaga le orecchie e le menti. L’avvio è un lungo sgolato lamento di Venere (Alice Raffaelli); a terra e di spalle, disteso su un fianco, pensoso forse dormiente, l’Adone di Leonardo Rosadini. Da sùbito inconciliabili: da un lato, l’impossibile amore della dea che alterna desiderio e assenza (già condizioni della perdita); dall’altro, il bellimbusto mortale che insegue il miraggio di un corpo potente e sprezzante («il culto muscolare, la caccia e la violenza umana»). La più vera risposta a tanta lacerazione è la conduzione all’eccesso di una tale incompatibilità. Fino all’esperienza della morte come spazio non del rifiuto e del cordoglio, ma del selvaggio ritrovato che finalmente incendia la casa (del Padre/Patriarca/Padrone) e libera forze indomabili. Una nuova «lingua abissale» prende corpo, «per sussurrare all’ignoto, per desiderarlo e violarlo ancora». In mezzo a tanta nuova invenzione, si accompagna benissimo lo straordinario recupero di tutta una attrezzeria scenica del passato (i costumi iconici di Daniela Dal Cin, la ruota di luci di tanti lavori di Cosimi): tutto sembra ancora di oggi. Il finale inatteso di una sposa insanguinata è sui Led Zeppelin, ed è imperdibile. (Stefano Tomassini)

Teatro Anibal Caro, Civitanova Danza. Fonti William Shakespeare, Marlene Dumas, Andy Warhol Regia, coreografia, scena, video Enzo Cosimi Drammaturgia Maria Paola Zedda, Enzo CosimiI nterpreti Alice Raffaelli, Leonardo Rosadini Disegno luci Giulia Belardi, Enzo Cosimi Costumi Alessandro Lai Realizzazione costumi Giuseppina Angotzi/Sartoria Il Costume Sculture Daniela Dal Cin Sound designer Enzo Cosimi Operatore video Roberto Gentile Organizzazione Pamela Parafioriti Produzione Compagnia Enzo Cosimi, MiC, in collaborazione con AMAT Residenze Centro di Produzione Orbita/Spellbound, ATCL, KOMM TANZ 2024 Compagnia Abbondanza/Bertoni in collaborazione con il Comune di Rovereto. RAM Residenze artistiche marchigiane finanziate dalla Regione Marche e dal MiC

#POMPEI

ODISSEA CANCELLATA ( di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati)

Per l’École du Regard il ruolo portante d’un romanzo era assegnato alle cose passate in rassegna dallo sguardo. Per l’urto visuale della cancellazione della scrittura cui fin dagli anni ‘60 ricorre la creatività sottrattiva di un poeta-autore come Emilio Isgrò si può rileggere l’Odissea eliminandone l’epos, il mito e l’anacronistico suono, ricorrendo a un’odierna narrazione, magari a una parodia. Ecco perché un’opera del 2003 di Isgrò, Odissea cancellata, ha debuttato ora con regia di Giorgio Sangati, aprendo il 13 giugno il Pompei Theatrum Mundi, progetto del Teatro di Napoli diretto da Roberto Andò e del Parco Archeologico di Pompei, col pubblico assiepato soprattutto sul palco di fronte alle gradinate su cui s’imprimeva un’installazione luminosa di antichi versi del X libro di Omero che man mano venivano spenti e depennati, mentre Isgrò in posizione di direttore d’orchestra seguiva dal basso la performance del suo testo. In tema con l’otre dei venti offertogli da Eolo, l’Ulisse di Luciano Roman è qui un senzatetto poco incline al memoir del suo nomadismo, mentre riceve le visite di sei coreutici nani inquisitori, non potendo sfuggire alle apparizioni spettrali di alcune figure mediterranee sue interlocutrici ormai prive di pudore. Gli spostamenti epocali della drammaturgia in versi di Isgrò non salvano nessuno. L’Odisseo nega qualsiasi inclinazione alla guerra, ma sostiene che gli Ellenici rappresentano purtroppo la Vecchia Europa, e chiama pure in causa la Cnn, e ammette un suo cuore pedofilo per la maga bambina Circe. Penelope lo irride per la sua adolescenziale scarsa virilità. Nausica si diverte invece a testimoniare d’averlo sverginato - nel gesto della Monica Lewinsky. Polifemo si degrada ammettendo d’essergli apparso come un bambino scemo. Certe revisioni post-omeriche di Isgrò fanno talora pensare all’astio contemporaneo di Sarah Kane: Ulisse dice che Agamennone e Menelao erano in preda a un’ansia petrolifera. Rilevante il disegno luci di Luigi Biondi. (Rodolfo di Giammarco)

Visto a Pompei Theatrum Mundi. Di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati, con Luciano Roman (Ulisse) e Clara Bocchino (Coro/Corista), Francesca Cercola (Coro/Nausica), Eleonora Fardella (Coro/Circe), Francesca Fedeli (Coro/Penelope), Giua Luigi Montagnaro (Coro/Polifemo), Antonio Turco (Coro/Proemio),  con la partecipazione dell’artista-autore Emilio Isgrò nel ruolo di Omero, installazione scenica di Emilio Isgrò, costumi di Eleonora Rossi, disegno luci di Luigi Biondi, musiche di Giovanni Frison

#ROMA

TEMPO SOSPESO (Adriana Borriello e Thierry De Mey)

Il dispositivo scenico, visivo, sonoro e coreografico è davvero imponente. Una macchina/ambiente capace di far accadere un intero mondo: fatto di oggetti, di suoni, di corpi. È una installazione lunga 20 metri e più, dal titolo Dream Catcher, ideata da Thierry De Mey (realizzata a suo tempo in collaborazione con ShSh Architecture + Scenography e Charleroi Danse), ma che la pandemia aveva troppo velocemente affondato. Adriana Borriello la riporta ora in vita potenziandone le funzioni, con una forte intuizione e anche senso della magia, puntando dritta a tutta la sua latente performatività. Nella sala B del Teatro India, il Festival Fuori Programma ha accolto il debutto di questo evento: una foresta di 1080 bambù di diversa misura, intonati e sapientemente appesi a una struttura dal tracciato proteiforme (durante il precipitare della performance se ne sono sganciati solo un paio), in una lunghezza che allarga lo sguardo, e attraversati in più momenti da 6 performer (la stessa Borriello, con Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, e Ilenia Romano). Il tutto, avvolto da un sound elettroacustico che raccoglie e trasforma da mille microfoni (sugli interpreti, sulla struttura, a terra, che è un pavimento di carta) le partiture preesistenti di Edoardo Maria Bellucci, «in un sistema di feedback che crea sinestesie continue tra visione e ascolto». Anche le luci, di Théo Longuemare, per niente invasive, sono utilmente al servizio della dimensione acustica e cinetica del dispositivo. L’eccessiva lunghezza (un’ora e mezza...), però, e forse l’inutilmente apicale presenza di Borriello in scena, fanno intuire (volendo) scelte e margini di limatura. L’avvio è lento, sempre rimandato, forse sospeso, ma poi con l’arrivo perentorio di Romano e Incarbone, che letteralmente si gettano nel fitto del bosco sonoro; e poi l’intelligente, concitata irrequietezza, piena di impeto e di intensità, di Bravini, allargano dentro e sotto e fuori il dispositivo la percezione della spazialità: il tempo sospeso del titolo è dunque proprio questa strategia di sparizione della temporalità della fine nell’apertura continua di improvvise e impreviste tonalità affettive del movimento. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Concept e coreografia: Adriana Borriello Installazione e musica: Thierry De Mey Sistema di amplificazione del movimento: Edoardo Maria Bellucci danzato da e creato con: Adriana Borriello, Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, Ilenia Romano Luci: Théo Longuemare Scenografia: Shizuka Hariu

SEMÂ (Cie Linga)

L’ultima volta di compagnie linga a Roma era il nel ‘21, sempre all’interno di Fuori Programma, manifestazione che è diventata un ponte imprescindibile tra la danza internazionale e la Capitale. Tre anni fa all’arena del Teatro India gli svizzeri portarono Flow, un lavoro che fondava la propria idea coreografica su elementi selvaggi della natura, stormi di uccelli, branchi di pesci… animali in grado di cambiare il proprio stato collettivo improvvisamente. In continuità con un più ampio progetto, che indaga “il movimento di gruppo e la consapevolezza collettiva dei gesti”, anche in questo nuovo Semâ è l’idea del collettivo a dominare, la forza sprigionata dai singoli all’interno di sistema complesso. Nei 70 minuti che fluidamente portano il pubblico verso il tramonto è il movimento circolare delle danze dei dervisci a influenzare il disegno coreutico: Semâ è il nome della danza dei dervisci rotanti, una pratica che ha come obiettivo anche quello della meditazione (l’etimologia della parola araba e persiana tiene insieme due verbi: ascoltare e fare), ma qui non ci sono bianche gonne che ipnoticamente ruotano all’infinito, qui ci sono corse circolari, stasi, soli, corpi che ricorrono la musica sempre presente, come se la ritmica percussiva dal vivo di Philippe Foch (che ha composto la musica insieme a Mathias Delplanque) rappresenti la struttura guida di questa suggestiva ragnatela di corpi. Eppure le danzatrici e i danzatori diretti dalla polacca Katarzyna Gdaniec e dall’italiano Marco Cantalupo non puntano alla perfezione stilistica, né tantomeno alla levigata unità, talvolta sono ruvidi o addirittura poco precisi in certe improvvisazioni (mirabilmente catturate dentro la rete di una struttura molto accurata) ma hanno una splendida comunicatività, con il pubblico e nelle relazioni interne, detonante, come i floorwork iniziali che esplodono in sorprendenti salti; o come nei cerchi in cui un performer sfida gli altri, ma non per una banale battaglia, per contagiare con il movimento, in una scossa che riverbera anche nel pubblico sistemato sui tre lati della pedana. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro IndiaFuori ProgrammaIdea e coreografia: Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo Musiche originali: Mathias Delplanque, Philippe Foch Con: Aude-Marie Bouchard, Csaba Varga, Cindy Villemin, Martin Angiuli, Lia Ujčič, András Engelmann, Bonni Bogya, Enzo Blond Luci: German Schwab Costumi: Geneviève Mathier

NEIGHBOURS PART l (Brigel Gjoka & Rauf “Rubberlegz” Yasit)

È la danza che vorremmo sempre meritare: sperimentale, silente, continua, inventiva, ibrida, continuamente scindibile e sapientissima. Nella rassegna estiva di danza che ha il titolo più bello, più politico, più urgente, oggi necessario e radicale: Please, Touch!, a Roma, per il Festival Fuori Programma, all’Arena del Teatro India, ho visto la prima parte del dittico Neighbours, creato e danzato da Rauf “RubberLegz” Yasit e Brigel Gjoka (sulle impronte di William Forsythe). Queste due così diverse creature, per 45 minuti, nel silenzio più suggestivo di una performance open air che si svolge su un palco tutto bianco, enorme, vuoto eppure tutto indispensabile, danzano una convincente idea di prossimità. Intorno resti di mura che isolano senza chiudere; sopra, un cielo che incombe sereno, mentre il gazometro si staglia sullo sfondo, senza sovrastare. Siamo nella città ma senza che la città irrompa coi suoi rumori e frastuoni: questa arena è davvero un luogo ideale per esortare nuove immaginazioni. Il duo, tutto linee spezzate e astratte in controcanto a più precise dinamiche morbide, fluide e istintive, è sì un partnering assiduo e insistente lungo tutto lo spazio che asseconda e accoglie, ma è anche un gioco trasformativo attraverso la percezione, la complicità, la permeabilità della volontà dell’altro. Ciò che riesce a questi due straordinarî interpreti è la misura concorde di una possibilità trasformativa. Quella dello stare insieme, dell’andare insieme, del coordinarsi insieme per fare fronte comune a ogni più piccola inflessione del movimento. E così, immediatamente reagendo, cambiare il mondo. Le braccia a volte suggeriscono onde, disegnano sfere, scalate immaginarie altrettanto interrogative che affermative. A volte le gambe battono tempi improvvisi, invitano a perentorie virate, conducono a distanze sempre sincronizzate, anche sfidando la gravità con improvvise verticali, o complicate torsioni a terra del busto. Ma soprattutto le mani hanno un ruolo complesso: il toccare è qui sempre libero, immediato, e generativo. Come la più vera amicizia, non esige consenso. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Di e con: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit In collaborazione con: William Forsythe Produzione: Sadler’s Wells Co-produzione: PACT Zollverein Costumi e luci: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit Durata: 45′

MIA MAMMA FA IL NOTAIO (MA ANCHE IL RISOTTO) (di F. Capobianco)

Ma perché il teatro, perché la poesia, se il mondo va in pezzi, se la provincia è sempre così provincia, se persino la scienza passa per opinione, se si scappa sempre e sempre si resta? Da dove viene quest’idea assurda, prepotente, che le parole possano davvero cambiare il mondo? Non è una risposta, quella di Filippo Capobianco, ma un viaggio di poesia performativa vivace, puro, con le guance rosse. Mia mamma fa il notaio ma anche il risotto è lo spettacolo con cui Capobianco ha recentemente vinto il FringeMi, un anno dopo il titolo di campione mondiale di Poetry Slam, terzo italiano in pochi anni. Procedendo sul confine tra la slam, il monologo e la stand up, pur con passaggi un po’ forzati tipici dell’aggregazione tra materiali diversi, lo spettacolo disegna un’orbita compiuta, dall’infanzia all’età adulta, quel passaggio che può avvenire solo con l’incontro tra il bambino che siamo stati e il bambino che ci ha generato: il genitore che ha tentato di metterci sulla via giusta (ammesso ce ne sia una) e ha fallito perché ha tradito il bambino che era, ché ognuno la sua strada la deve trovare da sé. E quella strada poi misteriosamente ci riconduce sempre all’origine, al primo sentiero. Bisogna solo riconoscerlo, in mezzo alle angosce di una generazione diversa, appesantita dall’illusione di infinite possibilità, condannata a desiderare l’altrove e la casa, il mondo e il nido. Capobianco tiene il palco con generosità, spirito e freschezza, volentieri invade la platea, non indugia mai sul comico, ma usa la sua verve con naturalezza e una certa dolce amarezza. Forse le parole non basteranno mai a cambiare il mondo, ma sono ancora l’unica vera connessione possibile tra le nostre fragilità, ciò che ci rende umani. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro IndiaDominio Pubblico Di e con Filippo Capobianco; Musiche e testi di Filippo Capobianco; Costumi e oggetti di scena di Martina Lauretta; Accompagnamento alla scrittura di Gerardo Innarella

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