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 | Cordelia | luglio 2024 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di luglio 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#POMPEI

ODISSEA CANCELLATA ( di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati)

Per l’École du Regard il ruolo portante d’un romanzo era assegnato alle cose passate in rassegna dallo sguardo. Per l’urto visuale della cancellazione della scrittura cui fin dagli anni ‘60 ricorre la creatività sottrattiva di un poeta-autore come Emilio Isgrò si può rileggere l’Odissea eliminandone l’epos, il mito e l’anacronistico suono, ricorrendo a un’odierna narrazione, magari a una parodia. Ecco perché un’opera del 2003 di Isgrò, Odissea cancellata, ha debuttato ora con regia di Giorgio Sangati, aprendo il 13 giugno il Pompei Theatrum Mundi, progetto del Teatro di Napoli diretto da Roberto Andò e del Parco Archeologico di Pompei, col pubblico assiepato soprattutto sul palco di fronte alle gradinate su cui s’imprimeva un’installazione luminosa di antichi versi del X libro di Omero che man mano venivano spenti e depennati, mentre Isgrò in posizione di direttore d’orchestra seguiva dal basso la performance del suo testo. In tema con l’otre dei venti offertogli da Eolo, l’Ulisse di Luciano Roman è qui un senzatetto poco incline al memoir del suo nomadismo, mentre riceve le visite di sei coreutici nani inquisitori, non potendo sfuggire alle apparizioni spettrali di alcune figure mediterranee sue interlocutrici ormai prive di pudore. Gli spostamenti epocali della drammaturgia in versi di Isgrò non salvano nessuno. L’Odisseo nega qualsiasi inclinazione alla guerra, ma sostiene che gli Ellenici rappresentano purtroppo la Vecchia Europa, e chiama pure in causa la Cnn, e ammette un suo cuore pedofilo per la maga bambina Circe. Penelope lo irride per la sua adolescenziale scarsa virilità. Nausica si diverte invece a testimoniare d’averlo sverginato - nel gesto della Monica Lewinsky. Polifemo si degrada ammettendo d’essergli apparso come un bambino scemo. Certe revisioni post-omeriche di Isgrò fanno talora pensare all’astio contemporaneo di Sarah Kane: Ulisse dice che Agamennone e Menelao erano in preda a un’ansia petrolifera. Rilevante il disegno luci di Luigi Biondi. (Rodolfo di Giammarco)

Visto a Pompei Theatrum Mundi. Di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati, con Luciano Roman (Ulisse) e Clara Bocchino (Coro/Corista), Francesca Cercola (Coro/Nausica), Eleonora Fardella (Coro/Circe), Francesca Fedeli (Coro/Penelope), Giua Luigi Montagnaro (Coro/Polifemo), Antonio Turco (Coro/Proemio),  con la partecipazione dell’artista-autore Emilio Isgrò nel ruolo di Omero, installazione scenica di Emilio Isgrò, costumi di Eleonora Rossi, disegno luci di Luigi Biondi, musiche di Giovanni Frison

#ROMA

TEMPO SOSPESO (Adriana Borriello e Thierry De Mey)

Il dispositivo scenico, visivo, sonoro e coreografico è davvero imponente. Una macchina/ambiente capace di far accadere un intero mondo: fatto di oggetti, di suoni, di corpi. È una installazione lunga 20 metri e più, dal titolo Dream Catcher, ideata da Thierry De Mey (realizzata a suo tempo in collaborazione con ShSh Architecture + Scenography e Charleroi Danse), ma che la pandemia aveva troppo velocemente affondato. Adriana Borriello la riporta ora in vita potenziandone le funzioni, con una forte intuizione e anche senso della magia, puntando dritta a tutta la sua latente performatività. Nella sala B del Teatro India, il Festival Fuori Programma ha accolto il debutto di questo evento: una foresta di 1080 bambù di diversa misura, intonati e sapientemente appesi a una struttura dal tracciato proteiforme (durante il precipitare della performance se ne sono sganciati solo un paio), in una lunghezza che allarga lo sguardo, e attraversati in più momenti da 6 performer (la stessa Borriello, con Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, e Ilenia Romano). Il tutto, avvolto da un sound elettroacustico che raccoglie e trasforma da mille microfoni (sugli interpreti, sulla struttura, a terra, che è un pavimento di carta) le partiture preesistenti di Edoardo Maria Bellucci, «in un sistema di feedback che crea sinestesie continue tra visione e ascolto». Anche le luci, di Théo Longuemare, per niente invasive, sono utilmente al servizio della dimensione acustica e cinetica del dispositivo. L’eccessiva lunghezza (un’ora e mezza...), però, e forse l’inutilmente apicale presenza di Borriello in scena, fanno intuire (volendo) scelte e margini di limatura. L’avvio è lento, sempre rimandato, forse sospeso, ma poi con l’arrivo perentorio di Romano e Incarbone, che letteralmente si gettano nel fitto del bosco sonoro; e poi l’intelligente, concitata irrequietezza, piena di impeto e di intensità, di Bravini, allargano dentro e sotto e fuori il dispositivo la percezione della spazialità: il tempo sospeso del titolo è dunque proprio questa strategia di sparizione della temporalità della fine nell’apertura continua di improvvise e impreviste tonalità affettive del movimento. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Concept e coreografia: Adriana Borriello Installazione e musica: Thierry De Mey Sistema di amplificazione del movimento: Edoardo Maria Bellucci danzato da e creato con: Adriana Borriello, Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, Ilenia Romano Luci: Théo Longuemare Scenografia: Shizuka Hariu

SEMÂ (Cie Linga)

L’ultima volta di compagnie linga a Roma era il nel ‘21, sempre all’interno di Fuori Programma, manifestazione che è diventata un ponte imprescindibile tra la danza internazionale e la Capitale. Tre anni fa all’arena del Teatro India gli svizzeri portarono Flow, un lavoro che fondava la propria idea coreografica su elementi selvaggi della natura, stormi di uccelli, branchi di pesci… animali in grado di cambiare il proprio stato collettivo improvvisamente. In continuità con un più ampio progetto, che indaga “il movimento di gruppo e la consapevolezza collettiva dei gesti”, anche in questo nuovo Semâ è l’idea del collettivo a dominare, la forza sprigionata dai singoli all’interno di sistema complesso. Nei 70 minuti che fluidamente portano il pubblico verso il tramonto è il movimento circolare delle danze dei dervisci a influenzare il disegno coreutico: Semâ è il nome della danza dei dervisci rotanti, una pratica che ha come obiettivo anche quello della meditazione (l’etimologia della parola araba e persiana tiene insieme due verbi: ascoltare e fare), ma qui non ci sono bianche gonne che ipnoticamente ruotano all’infinito, qui ci sono corse circolari, stasi, soli, corpi che ricorrono la musica sempre presente, come se la ritmica percussiva dal vivo di Philippe Foch (che ha composto la musica insieme a Mathias Delplanque) rappresenti la struttura guida di questa suggestiva ragnatela di corpi. Eppure le danzatrici e i danzatori diretti dalla polacca Katarzyna Gdaniec e dall’italiano Marco Cantalupo non puntano alla perfezione stilistica, né tantomeno alla levigata unità, talvolta sono ruvidi o addirittura poco precisi in certe improvvisazioni (mirabilmente catturate dentro la rete di una struttura molto accurata) ma hanno una splendida comunicatività, con il pubblico e nelle relazioni interne, detonante, come i floorwork iniziali che esplodono in sorprendenti salti; o come nei cerchi in cui un performer sfida gli altri, ma non per una banale battaglia, per contagiare con il movimento, in una scossa che riverbera anche nel pubblico sistemato sui tre lati della pedana. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro IndiaFuori ProgrammaIdea e coreografia: Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo Musiche originali: Mathias Delplanque, Philippe Foch Con: Aude-Marie Bouchard, Csaba Varga, Cindy Villemin, Martin Angiuli, Lia Ujčič, András Engelmann, Bonni Bogya, Enzo Blond Luci: German Schwab Costumi: Geneviève Mathier

NEIGHBOURS PART l (Brigel Gjoka & Rauf “Rubberlegz” Yasit)

È la danza che vorremmo sempre meritare: sperimentale, silente, continua, inventiva, ibrida, continuamente scindibile e sapientissima. Nella rassegna estiva di danza che ha il titolo più bello, più politico, più urgente, oggi necessario e radicale: Please, Touch!, a Roma, per il Festival Fuori Programma, all’Arena del Teatro India, ho visto la prima parte del dittico Neighbours, creato e danzato da Rauf “RubberLegz” Yasit e Brigel Gjoka (sulle impronte di William Forsythe). Queste due così diverse creature, per 45 minuti, nel silenzio più suggestivo di una performance open air che si svolge su un palco tutto bianco, enorme, vuoto eppure tutto indispensabile, danzano una convincente idea di prossimità. Intorno resti di mura che isolano senza chiudere; sopra, un cielo che incombe sereno, mentre il gazometro si staglia sullo sfondo, senza sovrastare. Siamo nella città ma senza che la città irrompa coi suoi rumori e frastuoni: questa arena è davvero un luogo ideale per esortare nuove immaginazioni. Il duo, tutto linee spezzate e astratte in controcanto a più precise dinamiche morbide, fluide e istintive, è sì un partnering assiduo e insistente lungo tutto lo spazio che asseconda e accoglie, ma è anche un gioco trasformativo attraverso la percezione, la complicità, la permeabilità della volontà dell’altro. Ciò che riesce a questi due straordinarî interpreti è la misura concorde di una possibilità trasformativa. Quella dello stare insieme, dell’andare insieme, del coordinarsi insieme per fare fronte comune a ogni più piccola inflessione del movimento. E così, immediatamente reagendo, cambiare il mondo. Le braccia a volte suggeriscono onde, disegnano sfere, scalate immaginarie altrettanto interrogative che affermative. A volte le gambe battono tempi improvvisi, invitano a perentorie virate, conducono a distanze sempre sincronizzate, anche sfidando la gravità con improvvise verticali, o complicate torsioni a terra del busto. Ma soprattutto le mani hanno un ruolo complesso: il toccare è qui sempre libero, immediato, e generativo. Come la più vera amicizia, non esige consenso. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Di e con: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit In collaborazione con: William Forsythe Produzione: Sadler’s Wells Co-produzione: PACT Zollverein Costumi e luci: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit Durata: 45′

MIA MAMMA FA IL NOTAIO (MA ANCHE IL RISOTTO) (di F. Capobianco)

Ma perché il teatro, perché la poesia, se il mondo va in pezzi, se la provincia è sempre così provincia, se persino la scienza passa per opinione, se si scappa sempre e sempre si resta? Da dove viene quest’idea assurda, prepotente, che le parole possano davvero cambiare il mondo? Non è una risposta, quella di Filippo Capobianco, ma un viaggio di poesia performativa vivace, puro, con le guance rosse. Mia mamma fa il notaio ma anche il risotto è lo spettacolo con cui Capobianco ha recentemente vinto il FringeMi, un anno dopo il titolo di campione mondiale di Poetry Slam, terzo italiano in pochi anni. Procedendo sul confine tra la slam, il monologo e la stand up, pur con passaggi un po’ forzati tipici dell’aggregazione tra materiali diversi, lo spettacolo disegna un’orbita compiuta, dall’infanzia all’età adulta, quel passaggio che può avvenire solo con l’incontro tra il bambino che siamo stati e il bambino che ci ha generato: il genitore che ha tentato di metterci sulla via giusta (ammesso ce ne sia una) e ha fallito perché ha tradito il bambino che era, ché ognuno la sua strada la deve trovare da sé. E quella strada poi misteriosamente ci riconduce sempre all’origine, al primo sentiero. Bisogna solo riconoscerlo, in mezzo alle angosce di una generazione diversa, appesantita dall’illusione di infinite possibilità, condannata a desiderare l’altrove e la casa, il mondo e il nido. Capobianco tiene il palco con generosità, spirito e freschezza, volentieri invade la platea, non indugia mai sul comico, ma usa la sua verve con naturalezza e una certa dolce amarezza. Forse le parole non basteranno mai a cambiare il mondo, ma sono ancora l’unica vera connessione possibile tra le nostre fragilità, ciò che ci rende umani. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro IndiaDominio Pubblico Di e con Filippo Capobianco; Musiche e testi di Filippo Capobianco; Costumi e oggetti di scena di Martina Lauretta; Accompagnamento alla scrittura di Gerardo Innarella

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