Dall’Australia la compagnia Back to Back Theatre riceve il Leone d’Oro 2024 dalla Biennale Teatro di Venezia, nell’ultimo anno di direzione di ricci/forte. Un’occasione per tornare a parlare di potere, di violenza, nell’arte.
Cosa vuol dire esercitare il potere? Si tratta di un processo attraverso il quale un individuo si pone in una condizione di superiorità rispetto a un altro, sfruttando caratteristiche date da diverse cause, che si tratti di condizione economica, etnica, fisica, sociale, di genere. Si è dunque abituati a definire l’esercizio del potere identificando una disparità di livello tra due o più individui, l’emergere della quale certifica in modo limpido che tale differenza sarà decisiva per l’autodeterminazione di entrambi. Siamo – si potrebbe dire, in una società neoliberista come la nostra – in virtù del potere che possiamo esercitare sugli altri. Ne consegue, per opposizione, che secondo questa idea la società umana sia divisa nettamente in categorie l’una subordinata all’altra, un po’ come un gioco di ruolo o comunque una sorta di attualizzazione della società medievale. Ma la nostra contemporaneità è assai più complessa di così, al punto che dunque le categorie hanno perso i loro confini, mescolando livelli e confondendo vertici, così che l’idea stessa di categoria si è fatta fluttuante e riguarda ogni singola situazione che si venga a creare.
Sul palco di Food Court della compagnia australiana Back to Back Theatre, fresca vincitrice del Leone d’Oro 2024 per la Biennale Teatro di Venezia, si avverte quella sensazione ondeggiante che confonde la percezione e rivela i tabù, a volte imprevedibili, di chi vi assiste: sulla scena poco o nulla, al di fuori di corpi che rivelano l’evidenza di una disabilità; dapprima semplicemente estroflessa, mostrata, poi pian piano si compone una relazione tra i personaggi attraverso l’unità tra il linguaggio stentoreo e una postura di immobilità, così da far affiorare pregiudizi e violenza là dove nessuno aveva immaginato di trovarne. L’abitudine crea il nostro immaginario, a volte tradendo la logica e forse per ricevere rassicurazione sotto una forma pregiudiziale, al punto che riconosciamo con difficoltà l’evidenza di un meccanismo di potere straniante, operato tra pari rispetto a una condizione che – lo si voglia ammettere o no – definiamo unilateralmente normale. Qui entra in gioco il punto principale del lavoro offerto dalla compagnia, che si compone quasi interamente da attori e attrici con disabilità: anche esercitare il potere è un privilegio? Può una categoria, universalmente vessata e spesso ridotta in stato di inferiorità, farne uso e mostrarsi brutale, al fine di affermare il predominio del proprio modo di vivere su un altro?
Le domande offerte dai dialoghi sulla scena spoglia sembrano un viaggio all’inferno, una discesa nella profondità dell’abiezione, nel momento in cui due donne, la cui disabilità è mitigata dal tenore dei loro argomenti, dall’identica fattura dei loro abiti da fitness, osservano e giudicano la terza, giunta sul palco poco dopo. Le prime due sono come vertici di un triangolo che pone sotto indagine e accusa la terza, in evidente condizione di differenza rispetto a loro due, vessata sul piano verbale e immobilizzata sul piano fisico, giudicata in merito all’alimentazione perché sovrappeso (non più delle altre due, ma gli argomenti esulano dalla realtà nel momento in cui si fanno sentenza), vestita male, muta, maleodorante, coperta di offese. La donna appare sul palco senza parole, subendo le urla e gli ordini delle due (“Cicciona bastarda” “Perdi qualche chilo e impara a parlare” “Puzzi di merda di animale”) che ne sfidano i limiti e si sostengono attraverso la reciproca riconoscibilità, estremizzando la diversità dell’altra, ridotta via via in uno stato di sempre maggiore subordinazione alle regole predeterminate, esposta alla totale nudità, ingabbiata nella paura.
Durante l’incontro di assegnazione del Leone d’Oro, alla presenza dei direttori Gianni Forte e Stefano Ricci, colpisce l’evidenza di uno spettacolo ideato nel 2008 e che ancora oggi rivela un profondo senso di disagio in chi vi assiste (vincitore anche dell’Ibsen Award 2022). L’esercizio del controllo dell’individuo su un altro si estende dunque oltre quell’idea stantia, di cui già ci eravamo occupati parlando del lavoro di Ricky Gervais, che solo i cattivi siano cattivi, che la comunità umana possa dunque essere compresa in una forma leggibile e rassicurante, mentre invece la fluttuazione del bene e del male riguarda tutte e tutti, nessuno escluso. Fosse questa la vera rottura delle differenze? Fosse l’abuso di potere, l’esercizio della violenza, a renderci finalmente tutti uguali?
Simone Nebbia
Biennale Teatro 2024 – Venezia
FOOD COURT
Uno spettacolo di: Mark Deans, Bruce Gladwin, Rita Halabarec, Nicki Holland, Sarah Mainwaring, Scott Price
Regia, scene: Bruce Gladwin
Interpretazione: Sarah Goninon, Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, Tamika Simpson
Musica: The Necks: Chris Abrahams (piano), Lloyd Swanton (basso), Tony Buck (batteria)
Scene: Mark Cuthbertson
Disegno luci, direzione tecnica: Andrew Livingston, Bluebottle
Animazione: Rhian Hinkley
Sonorizzazione: Hugh Covill
Costumi: Shio Otani