Alla Biennale Teatro 2024 Tim Crouch porta Truth’s a Dog Must to Kennel, riflessione sulla relazione tra reale e virtuale, indagando il potere dell’immaginazione oltre il supporto tecnologico. Recensione
C’è un passaggio straordinario in Fondamenta degli Incurabili, il libro che il poeta Josif Brodskij ha dedicato a Venezia, città in cui ancora riposa la sua eternità. Tra le pagine sfogliate al ritmo del suo passo tra i ponti e i canali, il poeta non può fare a meno di notare come la bellezza di questa città sospesa, i suoi marmi radicati all’acqua come scogli geometrici e bianchi, certe idee celestiali “devono essere venute agli architetti di notte, mentre sognavano, perché nella realtà quotidiana non c’è nulla che possa ispirarle”. Insomma, Brodskij sa bene – poco prima aveva scritto: “Con gli occhi chiusi contemplai un ciuffo di alghe impigliato in uno scoglio” – che la realtà per essere aumentata non deve far altro che ricorrere all’immaginazione, non certo all’ipertecnologia che promette di vedere mondi fantastici. E lo sa bene anche Tim Crouch, che proprio a Venezia per la Biennale Teatro 2024 porta questo Truth’s a Dog Must to Kennel, elaborazione dall’atto III del Re Lear di Shakespeare per attore solo.
E però quell’attore, lo stesso Crouch in anonimo abito nero, con modi da stand-up comedy inizia a dialogare con il pubblico munito di un visore per la realtà aumentata, una promessa dunque di una realtà di secondo grado, più densa e avvincente, doppiamente reale. Forse. La sua descrizione del pubblico e dell’ambiente intorno, partendo dalla platea, affonda nelle storie minute di “queste persone nel buio”, quelli che in genere osservano, non visti, i gesti dell’attore; e sembra quasi voler già segnare un confine tra quel buio e la luce, tra chi sa e chi ignora, forse soltanto quale sarà la storia, forse un po’ tutto ciò che esiste. Ma procede, tramite questo casco coprente si spinge a identificare anche ciò che non si vede in una sala di teatro, che solo ci racconta e che pian piano sfocia nell’ambientazione del Re Lear, nell’assieparsi delle forze militari che cercano scontro, nelle minacce sanguinolente, le esecuzioni in rapida successione, finché poi però è costretto a dirlo, il segreto più banale del mondo: “Comunque qui dentro non c’è niente”.
Il metaverso è dunque, per Tim Crouch, un luogo da raggiungere attraverso strumenti che diremmo analogici, di cui gli esseri umani sono già dotati da millenni: il teatro, la possibilità di immaginare altra realtà che contenda verità a quella di superficie. Nello spettacolo, precisa, ci sarà solo lui e l’ambiente non ha scenografia; eppure indica continuamente, spinge a osservare cogliendo una profondità che il primo sguardo non permette, esplicita cioè il patto dell’arte nel modo più semplice e insieme decisivo che si possa, gli oggetti e il paesaggio prendono forma e vita perché nominati attraverso la molteplicità della rappresentazione. Così sulla scena accade di tutto: lo sfaldamento della famiglia reale in un delirio pulp di violenza, sangue ed escrementi, si mescola a barzellette apparentemente prive di connessione; ma mentre la storia procede, il paesaggio cambia punto di osservazione, si stringe in primi piani e appare dal finestrino di un treno che passa lontano, Lear e Cordelia vengono giustiziati, la morte fa il suo ingresso nella storia per com’è nota, la tragedia si compie perché narrata, ma è proprio in quel momento che, di nuovo, il punto di osservazione vira altrove: al culmine del racconto, in platea tra gli spettatori – quelli virtuali, descritti dall’inizio – accade qualcosa, la situazione muta e una nuova tragedia, questa volta reale – solo per questo più vera? – contende l’attenzione all’attore. Muore, Lear, ma torna a prendere gli applausi che scrosciano come una violenta pioggia, mentre fuori dalla sala la morte, anonima, rivela la banalità della vita.
La contemporaneità delle due tragedie, sul palco e fuori dal suo confine, espone con chiarezza l’intenzione di Crouch: il teatro, dunque l’esperienza raccolta attraverso l’evocazione sulla scena di ciò che in scena non è detto che ci sia, non può essere se non per stretta relazione con chi accoglie l’offerta del racconto, con chi dunque crede che anche quella realtà sia vera. Non c’è altro. E, forse questo è il solo appunto che si possa fare a Tim Crouch, sembra anche banale ricordarlo. Ma in una società come quella attuale, ordinata attraverso algoritmi, incapace di vivere esperienze se non mitigate da un sempre più complesso codice regolamentare, non è forse cosa da poco ricordare che il teatro è solo quello vivo, anche quando il suo argomento è, come spesso, la morte.
Simone Nebbia
Visto all’Arsenale di Venezia, Biennale Teatro 2024
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TRUTH’S A DOG MUST TO KENNEL
Scritto e interpretato da: Tim Crouch
Coregia: Karl James, Andy Smith
Musica, sound design: Pippa Murphy
Disegno luci: Laura Hawkins
Organizzazione: Brian Ferguson, Adura Onashile
Responsabile di produzione: Craig Fleming
Produzione: The Royal Lyceum Theatre, Edinburgh