In Calabria, a Castrovillari, una piattaforma internazionale di danza ha aperto la 24a edizione di Primavera dei teatri. Nuovi linguaggi della scena contemporanea con lavori capaci di pensiero e di provocazione, spesso imperdibili.
La rassegna è ben congegnata in avvio, con Prima che comprende due sezioni: Open studios (frutto delle residenze offerte dal festival) e Programmazione (che comprende lavori ultimati, nazionali e internazionali, perlopiù assoli). Fra le residenze, spicca l’atteso ritorno alla creazione di Annamaria Ajmone (con il suo team di lavoro: Stella Succi e Natalia Trejbalovà) con il progetto a venire I pianti e i lamenti dei pesci fossili. Ajmone ha una matura consapevolezza non solo dei propri mezzi ma anche del formato nel quale ha potuto consegnare questa sua nuova proposta (non performativa, ma conclusiva di un recente tempo residenziale). Ha presentato i propri materiali di lavoro con parole di studio, e nel consueto candore: il fossile come metafora dell’assente, a partire da Caillois. Ha mostrato immaginarî partnering (in assenza di Vera Fernandez, prevista in scena ma qui non pervenuta), e ha condiviso e letto brani di Irigaray e di Laura Tripaldi. Infine, una volta sedotti tutti con qualche movimento di linee della superficie e della pelle, e la costruzione di uno spazio sonoro con un canto capace di «tattilità emozionale», ci ha abbandonato, lasciandoci così, a guardare il vuoto per ascoltare una traccia vocale per lamento a due (un po’ stile Marie Keyrouz): è l’ipotesi di un finale. Presentare con largo anticipo i propri materiali è credo un modo per testarli, discuterli e anche cambiarli: disattendere una aspettativa (che è nella vita dei materiali) è anche il cómpito della performance, perché tanta ricerca, speculazione, letture e analisi devono infine rompere la cornice e trasformare il corpo, generare nuove occasioni di movimento.
L’incredibile danzatrice e coreografa algerina Dalila Belaza, con l’assolo Figures (a Castrovillari in prima italiana), ha messo in scena «un personaggio-materia fantasmagorico», scolpito in un costume (ideato da Jeanne Vicérial) che sembra una figura arcaica, dalla quale si sprigiona una moltitudine di ombre. L’uso delle (poche) luci è sorprendente. Il lento, lentissimo procedere di questa materia-figura tra bagliori che generano spazio, e il buio improvviso che sprofonda l’orientamento di chi guarda assaltato dalle tenebre (Paola, seduta poco lontano da me, racconta di una vera paura, improvvisa, come effetto di tali cambi), spalanca la percezione al nascosto e occultato. È una contrazione progressiva dello spazio, e della visione, fino a che il corpo di Belaza non viene espulso dal costume-materia. Il corpo liberato fende l’aria con le braccia in una precisione ipnotica, mentre la materia inerte a terra riprende poco a poco volume, e ricompone la figura fantasma ormai dotata di una potenza propria (ed è quella invisibile di Aragorn Boulanger). In questo incontro di forze umane/non-umane, nel nero di una intimità della materia profonda e rivelata, si dispiega per Belaza «una storia dell’umanità reinventata».
Un altro assolo assai istruttivo su cosa può la performance, dunque imperdibile, è stato To be possessed della danzatrice e coreografa greca Chara Kotsali. I saperi messi qui in campo sono vasti: oltre agli studi di danza e teatro, antropologia e musica, come interprete Kotsali ha lavorato con coreografi come Christos Papadopoulos ed Euripides Laskaridis, quest’ultimo sarà a Torinodanza il prossimo ottobre. In questa «genealogia delle possedute», Kotsali si destreggia tra una polifonia di voci, suoni e oggetti incorporati secondo un disordine capace di improvvise epifanie spettrali, di personalissimi rituali del ricordo. Assistiamo così a una vera e propria estasi della performance (e dei suoi mezzi) che dà corpo e voce a un disordinato archivio delle possedute (alla parete Kotsali incolla e reincolla senza sosta fotogrammi di queste scene) che contagia tanto il mondo materiale quanto immateriale. Ma è nella dissociazione del playback attraverso cui molte voci in molte lingue sono parlate, mentre il corpo attraversa contorsioni e vibrazioni che descrivono la perdita e la caduta (ma anche eccitazione e trionfo), che si avverte il carattere travolgente, inquietante e sovversivo della possessione che prova a sfuggire la presa dell’ordine e della colonizzazione dei corpi e delle menti.
Ma il lavoro più potente e sorprendente è stato l’assolo di Maria Hassabi, On stage, tutto dedicato alla lentezza, alla stasi come esperienza di cambiamento, alla presenza performativa come alternativa alla prestazione dello spettacolo. La cipriota newyorkese Maria Hassabi ha creato performance e installazioni dal vivo per oltre due decenni, intensificando la sua pratica artistica con lo studio dell’immobilità, della decelerazione e della precisione estetica. In On stage lentamente arriva al centro del palco, in un elegante denim, e resta sur place per 50 minuti, poi buio (una cara amica, di fianco, esce furiosa perché lamenta di non essere nemmeno riuscita a dormire…). Questo stare sul palcoscenico del titolo è, naturalmente, il corpo. Un tale sforzo di controllo, e di tensione nella lentezza delle transizioni, e nella staticità delle pose raggiunte, sono profondamente virtuosistici. Tutto è fluido in questa difficilissima slow motion: lo sforzo qui rovescia la percezione di che cosa è ostentato e funambolico. Ciò che si mostra, nel tempo lungo della sua posa, in fondo insieme si sottrae. Tutto è sorprendente, magnetico. Le luci di Aliki Danezi Knutsen inseguono Hassabi ma come un confine dei volumi, mentre il paesaggio sonoro di Stavros Gasparatos vibra bordoni e rumori senza mai sovrastare. Lo stare (quasi) immobile tra una posa e l’altra di Hassabi, mette doppiamente in crisi la nostra visione: da una parte, occorre farsi catturare da questa temporalità inedita, dilatata, espansa, che restituisce materialità al tempo dell’attesa; dall’altra, occorre fare i conti con questa figura la cui danza è invisibile, sfuggente, elusa nel suo compimento, come se contasse solo l’ignoto che emerge tangibile nella dilatazione, nell’opposizione al precipitare del tempo della modernità, ai ritmi impossibili imposti alla vita dall’assalto del tempo-lavoro. Tanta intensità richiede una diversa natura dell’intimità tra performer e spettatore, (Gennaro, che tutto ha visto, ricorda un effetto consimile di apocatàstasi almeno già in Kazuo Ohno).
Arriviamo tardi (colpa mia) e ci perdiamo l’inizio, ma ci fanno entrare lo stesso, dopo mille moniti, e così vediamo, restando a lato e in piedi sperando di non disturbare nessuno, anche il nuovo, intenso lavoro di Roberta Racis. In uno spazio tutto bianco, sotto luci notturne (di Giulia Pastore), il palco colmo di foglie e pure con un fumo basso palustre, Racis danza (e canta) un «omaggio al materno» (sua recente perdita), e al mondo del balletto direi, a partire dal titolo (post-romantico), Atto Bianco. È una sorta di maratona fisica: la ripetizione ossessiva e a onde di brevi sequenze in una ostinazione decisamente assertiva, sembra cercare il limite fisico sul quale qualcosa può rivelarsi, forse risolversi: l’elaborazione del lutto, la ricerca di risposte. In fondo a sinistra una sorta di pietra tombale, una «lapide muta» (infatti Racis mi scrive: «è la tomba di Giselle, ma anche quella di mia madre alla quale dedico questo lavoro»), che nel tempo ultimo della performance illumina a sorpresa verso il pubblico una scritta in forma di domanda: «Are You Dancing Enough?». L’atmosfera è cambiata, la performer ora ha spazzato via tutte le foglie, si toglie scarpe e calzini, e resta in un tempo sospeso, come di attesa, a meditare su quali condizioni la vita e la danza possono non essere mai abbastanza.
Infine Elena Antoniou, con Landscape gioca a piene mani con la cultura dello strip tease, anche se nessuno si spoglia qui, perché non ce n’è bisogno: su una larga pedana al centro della sala, Elena Antoniou ipersessualizza la sua presenza, sovraespone il corpo in un perturbante movimento pelvico, e si rende oggetto al nostro sguardo pornografico. All’inizio è immobile, tutina nera e tacco importante, poi con una lenta slow motion raggiunge una posa supina: è inequivocabile il suo voler piacere, il suo sguardo spesso lucido e rotto cerca avido il nostro, in tutte le direzioni, e insieme ci spoglia, ci fa a pezzi. Muove i glutei a un ritmo bizzarro, con ironia sottile e pacata, ma non meno traumatica per la natura che ci svela della nostra irredimibile complicità. Anche il suo scalciare a terra, nel finale, come un cavallo che scalpita l’uscita, ci svela che il paesaggio è proprio il suo corpo, non più o già oltre il pornografico: perché in gioco è forse la natura dei confini di una sessualità oltre il consenso.
Stefano Tomassini