| Cordelia | giugno 2024
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di giugno 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#CASTIGLIONCELLO - Inequilibrio Festival
THE DOOZIES (di Marta Dalla Via e Silvia Gribaudi)
«I thought of the wisdom of the Homeopaths», così Isadora Duncan nel 1907, in cerca di rimedio per un ultimo dolore d’amore. Subito trovato, nel pomeriggio: era bello, di buon portamento, biondo e perfettamente vestito. Così ha raccontato il ‘pragmatismo’ duncaniano contro il patriarcato, Franca Zagatti durante l’incontro Duncan, Duse: praticare l’impossibile (in compagnia di illustri studiose: Eugenia Casini Ropa, Rossella Battisti e Maria Pia Pagani), all’auditorium del Castello Pasquini per Inequilibrio 2024. Prodromo alla davvero sorprendente performance serale presso l’Anfiteatro Giuliano Scabia, di Marta Dalla Via e Silvia Gribaudi, dal titolo The Doozies: e si pronuncia Dùtsi, perché è la goffa storpiatura inglese del cognome della grande attrice italiana. La performance è a quelle biografie e a quei miti ispirata. Sullo sfondo vi sono senz’altro le precedenti infinite chiacchierate con le esperte qui convocate: sul pionierismo e sulle rivendicazioni culturali di Duncan e Duse contro le costrittive convenzioni sociali della loro epoca. Ma quel che ne segue è invece un pastiche per niente retrospettivo, molto ben scritto e anche integrato all’impronta. Se i toni iniziali sfiorano la parodia (i fantasmi di queste dive sono convocati in un effetto impossibile, ma divertente, di metempsicosi), i battibecchi, le baruffe sempre complici, la presa del palco (e della luce) per un difficile divismo, virano la relazione tra le bravissime performer e il disponibilissimo pubblico sull’immediata percezione della fallibilità dei corpi, sulla rivendicazione dell’oppressività di norme e regole, sulla difficoltà di visibilità e riconoscimento di ciò che non è conforme ancora nell’epoca in cui Galileo nasce prima di Cristoforo Colombo. Ed è certo giusto rivendicare nel programma la «meraviglia della stranezza», anche se poi in scena Marta Dalla Via dà una grande prova di duttilità attoriale, e di disponibilità performativa che sono misura di una forte intelligenza della presenza. Gribaudi di continuo sorprende: e recita, e scherza, sempre nei tempi esatti del suo sapere performativo, ma anche balla (e spacca) con una forza ed energia e bellezza del presente che proprio non ammette ricorsi. (Stefano Tomassini)
Visto al Castello Pasquini, Inequilibrio Festival 2024.di e con Marta Dalla Via e Silvia Gribaudi direzione tecnica Roberto di Fresco consulenza drammaturgia Diego Dalla Via consulenza coreografica Chiara Frigo costumi Sonia Marianni ricerca Materiale Eugenia Casini Ropa, Franca Zagatti, Maria Pia Pagani produzione di Associazione Culturale Zebra coproduzione di Teatro Stabile del Veneto - Teatro Nazionale, La Corte Ospitale con il sostegno di MiC - Ministero Italiano della Cultura Residenze artistiche Fondazione Armunia - Castello Pasquini in collaborazione con Progetto Duse2024 del Comune di Asolo - Museo Civico di Asolo – Teatro Duse | www.duse2024.it | Curatela performing arts Cristina Palumbo
MONUMENTUM DA (di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo)
È un silenzio che inonda le orecchie e la mente, quello in avvio di Monumentum DA, di e con Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo, visto al festival Inequilibrio di Castiglioncello. Una figura di spalle con una improbabile parrucca attraversa lo spazio, ha un braccio steso in avanti: impugna un pomo di legno. Poi un cambio e posa al centro, la sfera di legno ora è accanto al corpo di Anselmo, ma per la pendenza del palco rotola a proscenio: ogni centro infatti si dissolve, ogni possibilità di controllo del rapporto tra contenuto e forma, tra parola e suono ruzzola via. Il progetto Monumentum di Rizzo, dopo le forme dell’assolo e del quartetto, si declina qui in un mirabile duo tutto però a favore di Diana Anselmo, della sua «singolarità», e della LIS come «lingua viva, corporea, umana, che non parla di margini ma di nuove forme». Quello che qui si prova a far saltare è la logica della sintassi fonocentrica (il monumento al predominio dell’ascolto) attraverso nuove politiche della comprensione, per una performance «accessibile a tutti»: udenti e sordi. Come? Ad esempio nella visualizzazione dei suoni, nella verbalizzazione dei gesti, nella citazione in comparazione dell’abuso ‘creativo’ della lingua dei segni in Nelken di Pina Bausch, o nella citazione muta da Drumming di Anne Teresa De Keersmaeker. Una striscia luminosa di sovratitoli intanto riflette sulla strategia della distrazione nella quale siamo tutt* catturat*: tra la lettura del testo che scorre in alto, e la muta eloquenza visivo-gestuale performata sul palco. La manualità di Anselmo è espansiva e orientata in termini espressivi. Il duo prende poi forma, anche in gentili asincrono, alla ricerca di una possibile concordanza nei corpi, sotto una sequela di «NO» sovrascritti, rivolti soprattutto a ogni tipo di manipolazione degli affetti. Poi DA si mette due auricolari acustici e non si ferma più, tra ricordi e nuove tracce, fino a dialogare seduta con Rizzo, e in presenza di una terza figura, interprete LIS: tutto affinché il silenzio diventi luogo di parola. (Stefano Tomassini)
Visto al Castello Pasquini, Inequilibrio Festival 2024. Di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo coreografia Cristina Kristal Rizzo performance Diana Anselmo e Cristina Kristal Rizzo testo a cura di Cristina Kristal Rizzo, Diana Anselmo e Laura Pante su scritture di Yvonne Rainer, John Cage, Simone Weil, Ilya Kaminsky e CKR accompagnamento teorico Laura Pante, Sergio Lo Gatto produzione Fuorimargine Centro di Produzione di danza e Arti Performative della Sardegna e TIR Danza con il sostegno di MilanOltre Festival e Oriente Occidente residenze artistiche PARC - Performing Arts Research Centre, Kilowatt, Armunia.
CHAMBER MUSIC (di Silvia Rampelli/Habillé d’eau)
Il suggestivo titolo fa pensare a un piano compositivo nel quale il ruolo di ognuna delle tre presenze è sempre individuale, quindi isolato, unico, fors’anche insolito. Non sono tre assoli, però, ma un piccolo ensemble che non necessita, se non a dosi contenute, di compresenza. Come in musica, vi è una segreta alternanza dei corpi/strumenti che mira alla costruzione dello spazio. L’ambientazione è già molto suggestiva: una sala con camino del Castello Pasquini a Castiglioncello. Di fronte al pubblico, una finestra aperta sul verde circostante, in una elegante cornice ambientale dal forte sapore preraffaellita. Un mood che consuona benissimo con le due figure in nero, e con quella nuda, che poi attraverseranno la performance. È Chamber Music, «esercizio concreto» di Silvia Rampelli (Habillé d’eau), ospitato da Inequilibrio 2024. Una figura a terra accoglie il pubblico (più numeroso del possibile, ed è un buon segno) come uno spettro senza peso in attesa del suo tempo: è Valerio Sirna che sembra creare una dislocazione e una parzialità della presenza affinché le ragioni del suo stare non siano compromesse da alcun ricatto di natura rappresentativa. Nulla sembra qui ripetere azioni comandate. Poi, una figura quasi senza volto, ma solo perché inondata dalla lunga nera chioma di Eleonora Ciocchini, prende spazio in un movimento anche nervoso e misterioso, indecifrabile (ma bellissimo) perché dettato da condizioni opache e provvisorie, come per sfuggire alla cattura di pareti e pavimento, insomma del contesto. La scena solo ospita queste epifanie, infatti, non le determina. Infine, quando il contrasto visivo nel quale siamo immersi si attenua, perché la finestra di fondo (e con essa la luce che si fa strada) viene chiusa, compare la figura nuda di Alessandra Cristiani in tutta la sua tensiva, anche straziata, inquieta fragilità (di continuo le mani versano e spalmano olio). Ciò che si fa effettivo in tanta stasi, in tanta resistenza al movimento ma senza mai rinunciare alle pretese del ritmo, io credo, sia la chimerica possibilità di una dissidenza possibile: l’ammutinamento della figura attraverso il sensibile. (Stefano Tomassini)
Visto al Castello Pasquini, Inequilibrio Festival 2024. Ideazione e regia Silvia Rampelli danza Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna luce Marco Guarrera accompagnamento Gianni Staropoli produzione Tir Danza sostegno alla Produzione Armunia/Festival Inequilibrio azienda Speciale Palaexpo - Mattatoio | Progetto Prender-si cura con il supporto di Vera Stasi/Progetti per la Scena azione per Buffalo 2022, Macro - Museo per l’Immaginazione Preventiva, Roma
#ROMA
DARKNESS PIC-NIC (Dom)
Chi, anche dopo l’introduzione al buio del teatro in cui una filosofa e una psicologa si spendevano in una lunga conversazione su cosa sia l'atto sociale del Picnic, credeva che tutto sarebbe rimasto su un livello narrativo o concettuale si sbagliava. Le esperienze performative di Dom sono radicalmente realistiche: al termine del dialogo il pubblico è invitato a uscire dal teatro dal retro del palco, è una piccola effrazione allo stato abituale delle cose. Ci mettiamo in marcia e una volta arrivati al Parco di Tor Tre Teste raggiungiamo una piccola vallata con un prato arso dal caldo estivo, nel mezzo un perimetro di teli ricco di cibo e cuscini. E mentre il tempo passa, tra discorsi informali, torte salate, hummus, vino e altre prelibatezze appositamente preparate da uno chef, alcune persone si fanno spazio spostando le vivande e conquistando un microfono nel quale riverbererà una storia oscura. Filippo Gonnella, Chiara Aru, Sara Saccotelli, Carlotta Grassi, Violetta Cottini raccontano con grazia, sicurezza e intimità la sceneggiatura del film Picnic a Hanging Rock del 1975, di Peter Weir - che a sua volta riprendeva il romanzo dell’australiana Joan Lindsay. Siamo tra le adolescenti di un collegio, nel giorno di San Valentino del 1900 il gruppo di giovani esce per un picnic. Alcune di loro spariranno attratte da una misteriosa parete rocciosa, un’altra si suiciderà successivamente. Il gruppo di performer si dirige verso gli alberi, in lontananza, fino a scomparire nel buio che intanto comincia a mangiarsi il parco. Le seguiamo nell’oscurità senza incontrarle più, e il ritorno alle luci del quartiere, con le persone che ci guardano con curiosità è straniante. Ci fermiamo di fronte al teatro, qui Leonardo Delogu e Valerio Sirna raccontano l’epilogo; dalle porte che danno sul foyer esce un fumo denso, come quello del collegio andato a fuoco un anno dopo. Il resto della compagnia emerge dalla nube bianca, di fronte agli applausi di chi ha vissuto un’esperienza unica, tra la gioia dell’incontro collettivo e l’angoscia di un racconto di morte senza catarsi. (Andrea Pocosgnich)
Parco di Tor Tre Teste, Fuori Programma Festival. A cura di: DOM- Con: Filippo Gonnella, Chiara Aru, Sara Saccotelli, Carlotta Grassi, Violetta Cottini Produzione: Fuorimargine – Centro di produzione di danza e arti performative della Sardegna Co-produzione: 4realtrue2 – ETS
VEDUTA > ROMA (Mk)
All’ultimo piano di un palazzo ottocentesco di fronte al Circo Massimo, nell’ex pastificio Pantanella, c’è un grande open space, un salone nel quale vengono create le scenografie del Teatro dell’Opera di Roma. Siamo allo storico Laboratorio dei cerchi, sede scelta quest’anno dal Festival Fuori Programma diretto da Valentina Marini per una nuova versione di Veduta>Roma. Il format di Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch lo scorso anno era andato in scena a Castel Sant'Angelo. Ogni volta l’opera di Mk si arricchisce dei suoni registrati sul posto, qui quelli catturati durante alcune giornate di lavoro nel laboratorio hanno incontrato quelli cittadini e di viaggi lontani. Li ascoltiamo nelle cuffie che ci vengono consegnate mentre in un suggestivo controluce Biagio Caravano avanza danzando di fronte alle enormi vetrate. Ma in questa opera che mescola danza e narrazione in un luogo storico con coerenza e capacità di fascinazione rare è lo stesso spazio dilatato a scandire la drammaturgia: la voce in cuffia comincia a raccontare di una fuga che si trasforma in viaggio, il performer rompe i confini attraversando la grande scenografia in lavorazione che occupa parte del salone. Lo seguiamo, usciamo sulla terrazza che dà sull’anfiteatro romano. Qui comincerà un altro un altro spettacolo: un lavoro bellissimo composto sulle distanze, una danzatrice cerca di farsi spazio tra la tortuosa fila di persone in coda per il Vinòforum, un altro con gesti amplissimi danzerà nel mezzo del Circo Massimo (Laura Scarpini e Sebastiano Geronimo). È uno sguardo cinematografico quello di Di Stefano, che intreccia piani lunghissimi in un montaggio narrativo nel quale ascoltiamo un avvincente viaggio che va oltre i limiti spaziali e fisici approdando a Marrakech. La nostra guida audio ci suggerisce di voltarci, dietro di noi un’altra interprete, Roberta Mosca, la sua danza ora aumenta di intensità con la musica: siamo catturati dalla forza del suo sguardo, lavora soprattutto con gli arti superiori, in un’eleganza quasi animalesca. Il ritorno alla realtà è segnato dall’odore intenso della falegnameria del piano terra in cui usciamo dopo 15 minuti densissimi di un vero e proprio divertimento estetico.(Andrea Pocosgnich)
Visto al Laboratorio dei Cerchi, Fuori Programma Festival. Di Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch Con: Biagio Caravano, Roberta Mosca, Laura Scarpini, Sebastiano Geronimo Musica: Lorenzo Bianchi Hoesch Coreografia: Michele Di Stefano Management: Carlotta Garlanda con Silvia Parlani Distribuzione: Jean-François Mathieu Sistema audio: LEM International – Silentsystem Produzione: mk 2023 con il sostegno MIC
#VENEZIA - BIENNALE TEATRO
SLEEPING BEAUTY (di C. Balucani, regia F. Arcuri)
Ci sono feste di benvenuto, ma questa è una festa d’addio: una giovane donna saluta l’età bambina, si fa largo tra i dolori non sopiti, mai risolti, l’ingombro della figura paterna, riemersa tramite incubi notturni, di cui non riesce a superare la violenza, fisica e psicologica, ricevuta in passato; poi la donna si moltiplica come un fiume con i suoi emissari in quatto diverse storie, simili, rievocate attraverso quella relazione da esorcizzare. C’è tutto questo in Sleeping beauty, testo di Carolina Balucani diretto da Fabrizio Arcuri alla Biennale Teatro di Venezia. I quattro attori (Vincenzo Crea, Andrea Palma, Dajana Roncione, Maria Roveran) indossano lo stesso abito, di un colore diverso ma che tutti dicono rosa, hanno una ferita forse vera o forse finta alla mano sinistra, come un residuo infantile, condividono la fragilità di una memoria infeconda e soverchiante, il bullismo, il body shaming, un manifesto e insostenibile outing, l’insicurezza che ha corrotto i passaggi verso l’età adulta di una bella tormentata nel bosco. La scena, che Arcuri disegna con la collaborazione decisiva e ispirata di Rosita Vallefuoco e Luca Brinchi, è un trionfo di luce, lo spazio sembra una discoteca paradisiaca – cui anche la musica di Giulio Ragno Favero dona identico fascino – in cui sfere prismatiche riflettono raggi in ogni direzione, dal fondo poi nascono getti di luce cubica che sembrano riversi sulla platea, superando gli attori in scena, forse una loro emanazione, tutto attorno sulle pareti è un firmamento di cielo notturno che arricchisce l’atmosfera di un carattere ancor più etereo. In questo ambiente, tuttavia, il testo di Balucani – vincitore di Biennale College Teatro per la Drammaturgia – non sembra mantenere una promessa di compattezza, le storie hanno una debolezza sia descrittiva che stilistica, perdendosi presto in un profluvio verboso che necessitava di una più severa opera di taglio soprattutto nella seconda parte, la recitazione raramente riesce a sostenere un carico emozionale che ha come obiettivo di esprimere la fragilità ma finisce per farsi esclusivamente lamentoso. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Arsenale, Biennale Teatro: Crediti: di Carolina Balucani; regia Fabrizio Arcuri; con Vincenzo Crea, Andrea Palma, Dajana Roncione, Maria Roveran; scene Rosita Vallefuoco; video Luca Brinchi; assistente alla regia e alle luci Luca Giacomini; consulenza musicale Giulio Ragno Favero; produzione La Biennale di Venezia, Cranpi, La Corte Ospitale
HAVE A GOOD DAY! (di V. Grainytė, L. Lapelytė, R. Barzdžiukaitė)
Tornano ad affacciarsi alla Biennale Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė and Lina Lapelytė, grazie alle quali il padiglione lituano si aggiudicò nel 2019 il Leone d’Oro per la miglior partecipazione alla mostra di arte. Le tre artiste lituane hanno portato in laguna (ma quest’anno all’interno del festival teatrale diretto da Stefano Ricci e Gianni Forti) Have a Good Day, creazione del 2013. Cambia totalmente il contesto, ma gli obiettivi e il percorso sono riconoscibili: ovvero la possibilità di inserire elementi di grande realismo in un disegno scenico che viene poi sottoposto a una torsione surreale. In una delle sale del Teatro alle Tese ci ritroviamo di fronte a una piattaforma sulla quale sono schierate in linea 10 interpreti: vestite con il tipico grembiule, in mano hanno dei fogli con dei codici a barre e uno scanner. Il primo suono che ritmicamente si fa strada in questa opera musicale per “10 cassiere, suoni del supermercato e pianoforte” è proprio il bip degli scanner. Rimarranno sempre sedute e alterneranno al canto l’abituale gesto con cui le merci vengono registrate in tutti i supermercati del mondo, in sala le luci sono quelle fredde e stranianti dei neon e un paio di responsabili della sicurezza accolgono il pubblico, uno dei due si posizionerà di fronte a un pianoforte, al lato della scena. Meno suggestiva di Sun and Sea, dal punto di vista dell’impatto scenico, qui la performance colpisce per l’intelaiatura musicale del canto, per la freddezza spettacolare con con cui le canzoni si alternano al buio e alla desolante atmosfera di sottofondo. Siamo oltre la semplice critica al capitalismo delle merci, la performance attraversa con maggiore complessità la tematica, anzi il paesaggio: le donne cantano la vita immaginaria di cetrioli e ravanelli, di direttori scontrosi e registratori di cassa, illuminando però anche le condizioni di un lavoro spesso invisibile, di chi maneggia i soldi e si ritrova i batteri sulle mani e la vescica piena. “Grazie! Buona giornata” canta ossessivamente un ritornello. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro alle Tese, Biennale 2024. Anno/Durata: 2013, 55’ - Opera per 10 cassiere, suoni del supermercato e pianoforte Ideazione: Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė Libretto: Vaiva Grainyté Composizione, direzione musicale: Lina Lapelyté Regia, scene: Rugilé Barzdžiukaité Disegno luci: Eugenijus Savaliauskas Costumi: Daiva Samajauskaité Fonico: Arūnas Zujus Produzione: Operomanija Cassiere: Indrė Anankaitė-Kalašnikovienė, Liucina Blaževič, Vida Valuckienė, Veronika Čičinskaitė-Golovanova, Lina Valionienė, Rima Šovienė, Milda Švelnienė, Rita Račiūnienė, Svetlana Bagdonaitė, Kristina Svolkinaitė Vigilanza: Kęstutis Pavalkis (pianoforte) Nota: Spettacolo in lingua lituana sovratitolato; traduzione in lingua italiana Alessandra Cali
CRISALIDI (di Ciro Gallorano)
In continuità con le Biennali di Rigola il progetto College della fondazione veneziana continua a sfornare artiste e artisti in grado di catturare l'interesse. Ieri, nell'ultima edizione (a meno che non arrivino eventuali proroghe) diretta da Ricci e Forte, ha debuttato Ciro Gallorano con Crisalidi, progetto vincitore del concorso dedicato ai giovani registi e registe e i primi minuti sono stati ipnotici. Già mentre il pubblico prendeva posto nella platea del Teatro alle Tese, una scena cupa con pochi mobili e oggetti si mostrava ai nostri occhi: al centro una credenza ingiallita dal tempo, sulla sinistra una ragazza dà le spalle al pubblico; salterà la corda dando il via allo spettacolo. Siamo in un tempo altro, con una vasca da bagno d'antiquariato, dalla parte opposta una scrivania classica e severa, sul limitare del palco, verso la platea, uno specchio. Sono elementi quasi abbandonati nello spazio alla loro significanza simbolica. Gallorano (classe '88, con studi al Metastasio di Prato), mette in campo una idea di teatro immagine in cui è la visione a dettare il piano drammaturgo e nel radicale silenzio si agitano mostri e fantasmi, apparizioni di giovani e sensuali donne (interpretate da Sara Bonci e Andreyna de la Soledad), personaggi di un incubo in cui il luogo, la casa, ha un ruolo centrale perché determina le azioni teatrali. Sul catalogo si legge dell'inspirazione data dalla vita e dalle opere della celebre fotografa Francesca Woodman, allora tornano in mente certi spettacoli di Alessandro Serra (soprattutto quello dedicato ad Hopper), oppure gli incubi di Romeo Castellucci e si potrebbe andare indietro nel tempo fino ad evocare la stanza della memoria di Tadeusz Kantor. Ma qui c'è anche un gusto per l'illusionismo: le pareti che si spostano, i corpi che escono fuori dalle mura ammuffite, fino al kitsch di una testa che compare da una botola del tavolo, quasi un omaggio a Georges Méliès. L'opera di Woodman si manifesta improvvisamente - ma basta scorrere qualche foto per ritrovare gli arredi usati da Gallorano - come nell'immagine di una delle due giovani che si solleva con le braccia sullo stipite della porta, in una sorta di crocifissione casalinga. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro alle Tese, Biennale 2024. Anno/Durata: 2024, 65’ (prima assoluta) Ideazione e regia: Ciro Gallorano, vincitore Biennale College Teatro – Regia Under 35 (2023-2024) Con: Sara Bonci, Andreyna de la Soledad Scene: Alberto Favretto Disegno luci: Sander Loonen Costumi: Gianluca Sbicca Assistente alla regia: Federica Lea Cavallaro Tutor del progetto: Stefano Ricci e Gianni Forte Produzione: La Biennale di Venezia
#ROMA
ATTRAVERSAMENTI MULTIPLI FESTIVAL
Certi progetti hanno bisogno di essere rifondati per continuare ad esistere o semplicemente per continuare a intercettare l’esistente, i bordi in movimento di un epoca che continuamente tende ad allargarsi di fronte a noi per complessità e tragicità. Attraversamenti Multipli da più di 20 anni abita luoghi decentrati della città di Roma attuando una trasformazione temporanea degli spazi. Se fino a due anni fa il luogo di elezione era il popolare Largo Spartaco, ora per la seconda volta la manifestazione ideata da Margine Operativo si è installata nel parco di Tor Fiscale, cercando di immaginare le relazioni tra arti performative e natura, con un intento politico ben preciso: il bassissimo impatto ambientale. Qualche cassa per il suono, delle sedute, le bellissime proiezioni sugli acquedotti romani e poi gli artisti e le artiste che devono vedersela con la terra sotto i piedi, ripensando talvolta i propri lavori. È una scommessa radicale e lo sarà anche verso il pubblico, che in parte dovrà essere ricostruito e ritrovato a partire proprio dall’atto di una scelta culturale. Nella serata del 20 giugno abbiamo avuto la possibilità di assistere a lavori di breve formato, 8 Km en Mule di Alvaro Murillo e Divine Beasts di Cornelia Dance Company (coreografia di Maša Kolar) e di attraversamento del paesaggio, il nuovo Cosmorama di Nicola Galli a cui dedicheremo qui un approfondimento. In 8 Km en Mule il flamenco di Murillo, nella suggestiva location di fronte all'acquedotto, negoziava la propria presenza nella natura riconfigurando lo spazio di azione su una stretta tavola di legno. Un'esplosione ritmica in cui il nostro sguardo si concentrava sui tacchi e sui polsi, sul loro sensuale ruotare. Pregevole anche la costruzione di Cornelia, la compagnia diretta da Nyko Piscopo agiva su un tappeto esagonale con varie tonalità di rosso che riprendevano i costumi e il trucco primordiali dei danzatori. Un quarto d'ora vibrante sul Bolero di Ravel tra floorwork e pose animalesche in cui la precisione, ma anche la morbidezza e flessuosità dei corpi hanno tenuto viva l’attenzione del pubblico. (Andrea Pocosgnich)
COSMORAMA (di Nicola Galli)
Nicola Galli è artista in grado di interpretare lo spirito di Attraversamenti Multipli incarnando già nei propri lavori tensioni rituali, riferimenti antropologici e l’alterità di un immaginario in cui sondare l’essere umano (o ultra umano) in relazione con l'ambiente circostante. E in questo Cosmorama (in programma anche a Mittelfest) la dimensione rituale e misterica torna ad essere evidente come nel bellissimo Il mondo altrove: è una creazione in cui il pubblico segue i due performer (con Galli è presente Giulio Petrucci) negli ampi spazi del parco, ma più che parlare di performance itinerante dovremmo parlare di creazione per stazioni. Si comincia con un campo lunghissimo, ci fermiamo infatti a decine di metri dai due artisti, vestiti con pantaloni e smanicata beige, in assoluta armonia cromatica con la natura; qui assistiamo alla stesura del vocabolario, in una danza fatta di gesti e movenze lente, i segni ampi si ripetono alternando le singolarità con bevi unisoni, in un dialogo mai urlato. Qualcuno di noi si siede, mentre una nota metallica scandisce lentamente il tempo e l’atmosfera musicale. Comparirà poi un bastone dorato che nella tappa successiva assumerà dimensioni più importanti fino all’ultima stazione in cui l’unione di ulteriori parti lo renderà lunghissimo: giavellotto da scagliare, ausilio per saltare oppure, come nel finale, totem da piantare in terra per una comunità in adorazione. E qui gli sforzi della platea (di attenzione e di ricerca dentro e attorno i codici fisici) vengono ripagati con la possibilità di entrare in risonanza con la trama invisibile: il lungo bastone diventa una reliquia da proteggere, oggetto di valore apotropaico o più semplicemente simbolo di una relazione, quella con la comunità degli spettatori delle spettatrici. Avviene tutto naturalmente: i due artisti si avvicinano, cedono parte del peso, chi sceglie di entrare si fa carico di una musica invisibile. Altri guardano da lontano, un paio di biciclette sfrecciano da un’altura ricordandoci la provvisorietà di questa piccola cerimonia. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Parco di Torre del Fiscali per Attraversamenti Multipli 24. Concept e coreografia: Nicola Galli danza: Nicola Galli, Giulio Petrucci dramaturg: Giulia Melandri cura e promozione: Margherita Dotta produzione: LAC Lugano Arte e Cultura, TIR Danza Progetto performativo sostenuto attraverso la Residenza artistica curata da Margine Operativo, supportata dalla Rete Ecoritmi // Fondazione Roma Tre Teatro Palladium, Eticae, Margine Operativo // con il contributo del Ministero della Cultura – Next Generation EU
BUFFALO seconda giornata 20 giugno
Animali umani, umani animali; contro l’annichilimento del controllo artificiale, i corpi si affidano all’istintuale selvatichezza in una perlustrazione tra solitudini e molteplicità. La seconda e ultima giornata della V edizione di Buffalo inizia insonnolita dalla cappa di calore di Minosse, che ha tolto i colori alla realtà rendendola di un bianco grigio lattiginoso. Ma nel rosso del ballatoio, al di sopra dell’auditorium del MACRO, il pubblico sventolante i programmi di sala e i biglietti viene incuriosito da Miriam Budzáková e Simone Lorenzo Benini i cui abiti glitterati, come fossero usciti da una discoteca anni 80, contrastano con la ferinità dei loro impulsi e parole che alimentano la loro fame. (e poi entrarono i cinghiali) è una danza urlata in partiture estatiche, a terra o con salti scattanti, accompagnata da sguardi allarmati e catatonici; ci osservano, ci mangiano. A seguire, nel foyer del museo diventato un deserto, dove un albero secco si staglia all’estremità di un solco, c’è Voodoo di Masque Teatro, ideazione e regia di Lorenzo Bazzocchi, in cui il corpo di Eleonora Sedioli è in bilico tra l’immanenza della materia e la trascendenza dello spirito. Il complesso tentativo di elevarsi in posizione eretta si costruisce per accumulazione di gesti, la polvere rossa sporca il corpo che nudo soccombe al rito. È vita morente che giace ai nostri piedi, è una scossa muscolare che rende l’aria elettrica...La gravità del vento risuona nelle sfere arancioni che Roberta Mosca e Canedicoda agitano sulla terrazza in Incertezza di fase. In abiti bianchi hanno preparato una cerimonia dell’ascolto magnetico in cui la presenza si scolpisce in pose ieratiche, mentre nei balconi attorno la sera estiva cala, un signore ci guarda e innaffia le piante. “Cosa ti succede quando ti fermi?” è una delle domande che ci accolgono al rientro in sala e con le quali potremmo interrompere Emersione n.2 un’andatura un po’ storta ed esuberante di Antonio Tagliarini, e con Gaia Ginevra Giorgi ai suoni live della loop station. Un dialogo tra loro due e il pubblico il cui codice è composto da una partitura fluida di azioni e di attimi in cui tra il noi nasce, si manifesta, scompare e poi rinasce un io, e la sua strenua resistenza all’oblio. L’individuale diventa collettivo nella prima italiana di A very eye (in situ) di Angela Rabaglio e Micaël Florentz, un incanto a orologeria dai colori pastello, in cui l’incastro dei movimenti si regge grazie all'unione e disunione del gruppo, sorretto da una musica progressiva. Questa fecondazione cellulare è la sintesi, pulsante, che chiude la giornata in un ritmo di vita. (Lucia Medri)
Visto a BUFFALO al MACRO a cura di Michele Di Stefano una co-realizzazione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Azienda Speciale Palaexpo vai ai crediti completi
#POLVERIGI
ANTOLOGIA NOTTURNA (di Massimo Monticelli)
A Inteatro Festival di Polverigi, la proiezione del docufilm L’isola del teatro ha testimoniato perfettamente la ricchezza degli oltre 40 anni di questo storico appuntamento. Le immagini si susseguono legando insieme artist* decisiv* per definire il contemporaneo: da Win Vandekeybus al gruppo Ariadone di Carlotta Ikeda, passando per una giovanissima (ieri come oggi bellissima) Adriana Borriello. Con Velia Papa, direttrice storica della manifestazione, ho condiviso che il momento più bello e significativo (e ce ne sono davvero molti) è in una domanda (all’epoca molto frequente) rivolta da un improvvido intervistatore al leggendario gruppo canadese La La La Human Steps: che tipo di teatro fate? Cui seguì un divertito imbarazzo e, inevitabile, lo scoppio collettivo di una risata. Non importavano più generi né confini né reti di protezione: la performance era rischio e dissenso. Nella giornata conclusiva del programma di quest’anno, ho visto in anteprima Antologia notturna di Massimo Monticelli, in scena lui stesso con la straordinaria Noemi Piva (vera forza della natura, capace di presenza ironica, di vocalità astratta, di complicità cinetica). Massimo mi spiega che il modello ‘antologico’ è quello del mordi e fuggi, leggi-quel-che-vuoi-e-passa-oltre. E infatti all’ingresso ci consegnano la zine con le poesie da loro composte durante il processo creativo. Ma qui in scena, i continui loop che si creano tra parole irriconoscibili, i delay che si inseguono di suoni come puri significanti, fanno di questo lavoro una composizione continua e autogenerativa, per sovrapposizione, sedimentazione progressiva: voci e gesti e suoni come una archeologia dell’istantaneo. È infatti sorprendente la continuità compositiva, anche pur passando per momenti molto naive (il microfono a terra da litigarsi; la solita borraccia termica per dissetarsi, e per spezzare ritmo e ricezione, altrimenti non è performance; un assolo a testa per chiudere, altrimenti non è coreografia…). Monticelli, davvero bravissimo, è al bivio: puntare alla confezione o deviare sullo sballaggio, sul disfare le forme, la poesia degli scarti? (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Teatro della Luna per Inteatro Festival 2024.Concept, regia Massimo Monticelli coreografia Massimo Monticelli in collaborazione con Noemi Piva danza, testi Massimo Monticelli e Noemi Piva disegno luci Maria Virzì produzione Anghiari Dance Hub e TIR danza
#MILANO
RAP – REQUIEM AL POETA (di Pouria Jashn Tirgan)
Un canto liturgico rap ad una poesia defunta, o forse più un eloquio musicale ad una bellezza che non trova più alba. RAP - Requiem Al Poeta non è altro che la celebrazione degli strascichi fallimentari del 21 secolo, nelle voci di chi questo secolo se lo ritrova costantemente come uno scomodo zainetto in spalla, in cui ansie e responsabilità ne aumentano il peso specifico, minando costantemente l’equilibrio del giovane costretto a indossarlo. Ecco che sul palchetto del Ghe Pensi Mi, sono proprio due ragazzi, vestiti con tuta e calzetti bianchi al ginocchio - Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini - a celebrare questo inno alla stanchezza: stufi di non sentirsi abbastanza per raccogliere le fila di un presente di scarti, eppure pronti, colmi di ideali e passioni da condividere per ricominciare a vedere luce anche nel buio pesto. Ma se “è possibile che noi siamo lo sbaglio in un tempo sbagliato” allora è anche possibile che “siamo le persone giuste in un tempo giusto”? Partendo da questi interrogativi e assumendone le diverse prospettive di sguardo, la coppia scivola nella storia recente e negli scontri generazionali con battute e colpi di risposte a ritmo rap, in cui le note elettroniche di Tirgan incalzano il fraseggio vorticoso di Fantini, che si fa sempre più arguto nelle rime, negli accostamenti sintattici e nell’ironia dei suoi esiti, rievocando nel pubblico madri, nonne, bisnonne, radici di una generazione che dalle sue battaglie ora ci chiede conto e riscontro. Chissà se c’è una risposta a quella domanda, eppure Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, “come i becchini dell’Amleto”, continuano a scavare, a scavare e a scavare, con freschezza e spigliatezza, con ironia ma non senza una punta di severità, “per dare – finalmente – degna sepoltura ai morti”. (Andrea Gardenghi)
Visto all’interno del palinsesto del FringeMI, Milano. Crediti: con Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, drammaturgia e regia Pouria Jashn Tirgan, musiche originali Emanuele Fantini, co-produzione Teatro del Lemming, Vincitore Bando Cura 2022, Finalista premio Alberto Dubito 2023
#CASTROVILLARI - PRIMAVERA DEI TEATRI 24
GRAMSCI GAY (regia M. Gatta)
Mauro Lamantia è Gramsci. Gli somiglia moltissimo, la chioma folta, i tipici occhiali. Eloquio insieme energico e posato, accogliente e vibrante. Interrompe un chiacchiericcio che si fonde con quello degli spettatori in sala: ci siamo tutti, siamo in un’affollata assemblea. Abbiamo fallito, ci dice. Dobbiamo ritentare, resistere, credere che le regole si possano riscrivere. Serve immaginazione, serve cultura, serve bellezza. Consapevolezza e capacità creativa. Il suo lungo monologo finisce, l’assemblea è sciolta, ha acceso sguardi di malinconica nostalgia. Cosa abbiamo visto? Dalla platea si alza una voce scura, ironica, scurrile. Ha un bomber e dei jeans ora Lamantia, è Nino. Sta aspettando di entrare in commissariato per ricevere domande cui risponderà con schietta indolenza. Nino ha scritto gay sulla faccia di Gramsci. Ma non sa perché lo ha fatto. Anzi lo ha fatto senza un vero motivo. Ridicolo cercare un significato politico al gesto: sarebbe un’ennesima forzatura radical chic. La realtà è molto più concreta. Nino è di casa in commissariato, ma non ha mai fatto davvero qualcosa di male. La sua lingua è scattante e pronta come quella di Gramsci, ma parla da un orizzonte in cui le speranze non sono svanite: non ci sono mai state. Il fallimento è un’eredità generazionale, non qualcosa su cui meditare. Allora quello che importa è galleggiare, tirare avanti come si può, non deludere troppo la mamma. Farsi solo le domande che possono servire a qualcosa. Quella malinconica nostalgia diventa amarezza. La giustapposizione dei due monologhi nella drammaturgia di Iacopo Gardelli non innesca un esplosivo: piuttosto un annichilente presa di realtà. Dove sono cadute le parole di Gramsci? In quale salotto televisivo sono rimaste rinchiuse? Con grande abilità e generosità Lamantia si muove tra i due personaggi, in una convincente prova attoriale che non propone soluzioni, speranze, spunti da coltivare, ma restituisce una fotografia spietata. Di quei valori, di quelle idee, di quelle speranze non resta che vernice su un muro. (Sabrina Fasanella)
Visto a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria. Con Mauro Lamantia. Drammaturgia Iacopo Gardelli. Regia Matteo Gatta. Produzione Studio Doiz e Accademia Perduta / Romagna Teatri. Tecnica e voce Mattia Sartoni. Costumi e scene Gaia Crespi
PLAY (di C. Baglioni / M. Bellani)
Un rettangolo velato lascia intravedere una figura di spalle seduta ad una grande scrivania. La sua silhouette è disegnata dalla luce essenziale e tagliente di Gianni Staropoli, che costruisce uno spazio insieme reale e asettico. Quando Caroline Baglioni entra timidamente sedendosi a un lato della scrivania, è da subito evidente il rapporto di potere tra i due. Testo sorto dalle suggestioni legate al movimento MeToo, Play ricostruisce quelle dinamiche che, a lungo nascoste in piena vista, sono passate potentemente alla cronaca per gli esiti più tristemente tipici della molestia e dell’abuso in ambito cinematografico e dello spettacolo in generale. La drammaturgia di Caroline Baglioni non gioca per metafore, ma introduce l’argomento con deciso realismo: il dialogo tra il regista e l’attrice percorre precisamente le insidie del provino cinematografico, laddove il rapporto tra i due sessi cammina sul crinale tra lecito e illecito con il filtro della creazione stessa: sulla carta è perfettamente legittimo per un regista ricercare la figura più adatta alla vicenda che vuole raccontare, non soltanto indagandone gli aspetti esteriori – essenziali nel racconto per immagini del cinema - ma scavando nell’intimità dell’attrice, un voyerismo amplificato dalla presenza delle immagini in live streaming proiettate in primo piano rispetto all’azione sul palco per gran parte dello spettacolo. Ma qual è il confine da non oltrepassare? Un ribaltamento di posizioni interviene a deviare la traiettoria del racconto: l’attrice si ribella, denunciando l’abuso di potere del regista, ma comunque non lasciando la stanza. Quel film lo vuole fare. Il racconto evolve innestando il dubbio sul reale rapporto tra i due, salvo poi ritornare nei binari iniziali, mentre scorrono le didascalie di uno script: la vita stessa è come decidiamo di raccontarla. Il gioco interessante tra i diversi piani di realtà non arriva del tutto a sostenere una riflessione profonda sulla complessità di tali sottili dinamiche relazionali, per una sproporzione forse eccessiva tra la parte iniziale, descrittiva di dinamiche ben note, e il plot twist dello scambio di ruoli tra i due protagonisti. (Sabrina Fasanella)
Visto in prima nazionale a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris. Di Caroline Baglioni. Con Caroline Baglioni, Annibale Pavone. Regia Michelangelo Bellani. Luce e spazio Staropoli. Suono e musiche originali Francesco Federici. Scenografia Loris Giancola. Costumi Aurora Damanti. Assistente alla regia Barbara Pinchi. Cura del movimento Lucia Guarino. Produzione La Corte Ospitale
VORREI UNA VOCE (di T. Granata)
Il teatro è un processo osmotico, dalla vita alla vita. Reazioni chimiche che hanno per materia l’umano, la sua organica complessità, potente quanto più ridotta ai minimi termini. Tindaro Granata restituisce sul palcoscenico l’esperienza umana e poetica del suo lavoro con le detenute di massima sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Il reagente è Mina, la sua voce di assoluta potenza, la sua presenza dirompente; l’assunto di base è apparentemente disimpegnato, d’intrattenimento, un lavoro di pura mimesi, come in un lipsynch show. Ma reinterpretare i brani della voce più raffinata, misteriosa e popolare della canzone italiana mette in atto un processo tutt’altro che mimetico, uno svelamento vestito di paillettes. Granata lo ripercorre dando voce e presenza alle storie di quelle donne ai margini, ferite, sole, colpevoli quasi sempre per conto di uomini. Nel farlo, è lui stesso a svelarsi e raccontarsi, perché non c’è reazione che possa avvenire senza uno scambio di energia. La sua storia di artista s’intreccia e si riscrive tramite quelle voci incontrate nel luogo della reclusione, dove il palcoscenico e la musica ad alto volume consentono gli unici momenti di intima confessione. Rievocando quell’atmosfera di difficile confidenza, di fiducia costruita a fatica, di progressivo svelamento, la drammaturgia che sostiene Vorrei una voce restituisce con efficacia le tappe di un percorso di scoperta – tanto per l’autore quanto per le sue attrici detenute - , giocando tra il tempo attuale della platea e il passato della casa circondariale, spesso coincidenti. La struttura del monologo è tradita dalle tante voci che vi risuonano, ricostruite da Granata con efficace e generosa cura e sempre nel rispetto profondo verso quelle storie piccole e potenti organicamente tenute insieme dalla musica: linfa vitale per l’immaginazione e il sogno, panorami che il carcere offusca. (Sabrina Fasanella)
Visto a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria. Di e con Tindaro Granata. Con le canzoni di Mina. Ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto “Il teatro per sognare” di D’aRteventi diretto da Daniela Ursino. Disegno luci Luigi Biondi. Costumi Aurora Damanti. Regista assistente Alessandro Bandini. Produzione LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione con Proxima Res.
PINOCCHIO – CHE COS’È UNA PERSONA (di D. Iodice)
La passione di un grillo parlante che trascina il suo cricri sotto il peso di una croce di libri. Un abecedario ambulante, zavorra da cui si staccano parole da reinventare, ridefinire, interrogando un mondo normativo che impone definizioni escludenti ed elitiste. Pinocchio è uno e sono tanti, ognuno è Pinocchio a modo suo, con la stessa energia «anarchica e dirompente» compressa in un corpo di legno. Pinocchio – che cos’è una persona? è il primo spettacolo della compagnia della Scuola Elementare del Teatro | Conservatorio popolare delle arti sceniche, progetto laboratoriale napoletano di pedagogia sociale nato dieci anni fa negli spazi dell’ex asilo Filangieri e successivamente accolto e sostenuto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Marginalità e disabilità si specchiano negli archetipi della storia di Pinocchio: come racconta il regista Davide Iodice, «da sempre ci siamo rivolti a lui come a un fratello simbolico dei ragazzi con sindrome di down o di autismo, o Williams, o Asperger che compongono l’articolato gruppo di lavoro». In scena accanto a loro le famiglie, nuclei di resistenza civile, registi del quotidiano dei propri figli, fate turchine senza bacchetta, rivolte ad un futuro che è vicino e lontano insieme, da scrivere e continuamente inventare. Nel lavoro di Iodice il teatro non è terapia, né autonarrazione, piuttosto macchina del sogno, insieme paese dei balocchi e ventre della balena dove si incontrano poesia e denuncia, senza pietismi ma con spietata realtà, quella di tutte le favole. Gli oltre venti interpreti si muovono in scena riscrivendo le regole del vedere ed essere visti; qualche sguardo curioso raggiunge lo spettatore e senza volerlo lo interroga, consegnandogli un’innocente e disarmante domanda: «…e poi?». (Sabrina Fasanella)
Visto in prima assoluta a Primavera dei teatri, Capannone. Ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice. Crediti completi