Conversazione con Andrea De Rosa, direttore artistico di Teatro Piemonte Europa, al terzo anno di mandato. La stagione “Fantasmi” inaugura a Torino il 6 novembre 2024.
Quando incontro Andrea De Rosa, al tavolino di un bar nel parco di Piazza Vittorio Emanuele II a Roma, sta finendo la primavera. C’è il trambusto laborioso del termine del pomeriggio, il calcio balilla che schiocca, la folla di giovani che non hanno più la scuola la mattina dopo. La stagione cambia. Della stagione del Teatro Piemonte Europa appena trascorsa, “Cecità”, ho seguito quel che potevo, prendendo treni da Roma verso Torino, accolto da un pubblico variegato e fidelizzato, da uno staff i cui sorrisi fanno intendere che c’è sinergia, messo di fronte a una selezione di spettacoli che cerca davvero di comporre una drammaturgia del tempo presente. Il 19 giugno è stata presentata la nuova annualità, dal titolo “Fantasmi”, che consegna, in ordine di apparizione: Pippo Delbono, Paola Rota, I Gordi, Giovanni Ortoleva, Teatro del Carretto, Antonio Latella, MM Contemporary Dance Company, Marcos Morau, Daria Deflorian, Cornelia, Teatro dell’Altro, Ashkan Khatibi, Renato Sarti, Leonardo Manzan, Cristiana Morganti, Carmelo Rifici, Barbara Altissimo, Fabio Condemi, Thea Della Valle/Irene Petris, Fabrizio Gifuni, I vespri, Anagoor, Sandro Lombardi, Paolo Costantini, Eko Dance Project e Barletti/Waas. Si tratta di un panorama meticcio, finalmente non identificato da un’estetica né da un genere (di spettacolo o di biologia); un caleidoscopio di frammenti che si fa strada in un sistema di schemi frastagliati. Di questo parliamo qui, con il direttore artistico. Di quel che è stato e di quel che sarà.
Partiamo da un volo sul triennio che si sta concludendo. Il TPE ha lavorato molto, anche grazie a un’ottima strategia di comunicazione innovativa (rara per il nostro teatro) a chiarire in che modo ci possa essere un filo tematico in qualcosa di complesso come una stagione, rivolta al pubblico della città ma che riverbera sul panorama nazionale. “Buchi Neri”, “Cecità”, ora “Fantasmi”.
Se si deve prendere il buono che c’è, è che il Ministero ti chiede di immaginare un triennio, non un anno alla volta. Sembra ed è una follia, è una scommessa su carta. Ma ti dà la possibilità di articolare un discorso tematico e di linguaggi in un arco di tempo più lungo, immaginando su che cosa concentrare una curiosità. Mi piace molto fare il direttore artistico, perché è l’occasione per lavorare insieme agli altri: questo significa anche lavorare attraverso gli altri, con gli spettacoli degli altri, con il pensiero degli altri, anche scontrandosi, se capita. Non sei più soltanto l’autore di un singolo spettacolo che, per quanto ci provi, difficilmente lascerebbe una traccia o un segno chiari, che invece possono essere composti convocando una pluralità di voci.
Visioni che non sono necessariamente la tua.
Esatto, stimolando gli altri su un filo che però ho pensato attorno a una mia curiosità, senza che essa diventi solipsistica o dittatoriale. Venendo dalla pandemia, il triennio immaginato era articolato sul rapporto con la verità. Al di là del rischio retorico, si è poi snodato in tre stagioni organiche, con un primo passo sulla verità scientifica, “Buchi neri”, dove sono emersi diversi risultati soprattutto sulle più giovani generazioni di registe e registi, riguardanti una scienza non “scientista”. Il linguaggio scientifico si ritrova continuamente di fronte a frasi misteriose, in cui appare chiaro come ci sia qualcosa nella materia che forse non comprenderemo mai, perché nella materia c’è qualcosa di più nascosto ancora che nell’animo umano. Per questo motivo, la scienza utilizza un linguaggio che diventa involontariamente poetico. Ed è lì che ci si può emozionare: l’esempio più grande è di fronte all’ingegneria romana, alle dighe, ai ponti, agli acquedotti, dove niente è stato ispirato da una ricerca del sacro o del poetico. Ma guardare la Piscina Mirabilis – che tecnicamente sarebbe una cisterna – ti lascia senza parole, vedi la funzionalità eretta a opera di caratura estetica. Senza volerlo, la scienza produce una poesia commovente.
Che tipo di poesia può scaturire dalla forma complessa che il teatro può assumere?
Per me il miracolo a teatro succede quasi sempre quando io o l’artista non ce lo aspettiamo. È chiaro che è una ricerca, bisogna sempre sorvegliare, ma quando avviene lo fa al di là delle intenzioni che avevi previsto.
È un pensiero molto vivo quando si fa teatro, per esempio, con le nuove generazioni, ma vale anche in generale. La missione può essere quella di portare un discorso che contenga in esso una – più o meno corposa o necessaria – componente di mistero, qualcosa che programmaticamente riesca a sfuggire innanzitutto all’artista che vi passa attraverso. Forse è lì che la scienza si avvicina alla creazione artistica, dove si cerca di indagare quel che si può o non si può vedere, quello che si crede essere vero oppure no. Soprattutto quando si ha a che fare con un’arte libera come il teatro, che “tira via il lenzuolo” e svela che cosa c’è dietro al “fantasma”.
Quello che cerco, da quando mi sono accostato al teatro e ancora di più in questo triennio, è un avvicinamento alla parola “mistero”. Quell’azione di togliere il lenzuolo al fantasma somiglia a quella di mettere in prosa dei versi: questo ti aiuta a disinnescare il trucco, a capire che cosa c’è dietro. Ma allo stesso tempo, mettendola in prosa, svanisce il mistero della poesia. Quella formula magica non sopporta nessuna parafrasi. Soffermarsi nel buio e guardare i fantasmi ti dà la possibilità di vedere qualcosa che davvero non ti aspettavi, che è ciò che spero sempre che accada in teatro. Il ragionamento sulla scienza è stato molto forte: venivamo dal lockdown, in cui è stato messo fortemente in discussione – anche dal punto di vista politico – che cosa la verità scientifica rappresenta, in un mondo in cui proprio la classe politica è stata costretta ad abiurare (come in Processo Galileo, diretto insieme a Carmelo Rifici e scritto da Fabrizio Sinisi e Angela Demattè ndr). C’è stata poi la stagione “Cecità”, il dialogo con quelle verità che non vogliamo vedere (personalmente mi sono confrontato con Edipo re di Sofocle), in cui il meccanismo riguarda la difesa e la protezione; a volte non vedere somiglia a una sorta di salvezza. Apollo dice a Edipo: «Non guardare la verità dritto negli occhi, ti accecherà». E allora è come quando, da bambini, cominciamo a comprendere il fatto che prima o poi moriremo: l’unica strada è quella di spostare di lato quella visione, di tentare, appunto, di non vedere; altrimenti la vita diventa insopportabile. Non possiamo vivere se non dimenticandocene.
Era Sartre a scrivere: «Esistere per assolvere questa incombenza; vivere per dimenticarla».
La verità, come la intendiamo oggi noi moderni, è la corrispondenza fra un enunciato e la realtà. Per i Greci, ad esempio, era tutt’altro concetto: la parola alèteia significa «togliere il velo dalle cose». Questo significa che sono velate e se lo sono il motivo è proprio la protezione; togliere quel velo (come nella stagione “Fantasmi”) ti fa correre il rischio che dietro vi sia qualcosa di mostruoso: Tiresia viene punito per aver visto la dea senza veli e cerca di proteggere Edipo («Non andare avanti!»), sapendo che non ci riuscirà. Allora questa prossima stagione contiene un invito, a non togliere del tutto il velo di mistero che ci protegge da verità che potrebbero risultare insopportabili. Ma, in tutto il triennio, ho cercato di non assumere un atteggiamento moralista. Mi sono innamorato del teatro proprio perché mi offre la possibilità di sperimentare qualcosa che non sia solo l’io che si è ricevuto in consegna. E per questo ho deciso, oggi, di lavorare su Orlando di Virginia Woolf (drammaturgia di Fabrizio Sinisi, con Anna Della Rosa, al Teatro Astra 6-15 dicembre 2024 ndr): è la possibilità di inventare un’identità con le parole. Di come va il mondo oggi mi colpisce molto e trovo fantastica la possibilità, destinata forse al fallimento, di andare a chiedere alle persone che incontri: «Chi sei oggi?». Però devi anche saper rispondere a quella domanda, devi trovare le giuste parole.
O i giusti gesti e costumi. È quello che accade in Orlando, che ha uno sfondo filosofico e politico molto sottile, e dove questi passaggi identitari del/della protagonista sono marcati da passaggi di convenzioni sociali, di contesti che stimolano una consapevolezza nuova, che si stratifica. Più si procede nella lettura e più Orlando guadagna una distanza (quasi scientifica) da ciò che accade, dai cambiamenti che attraversa, addirittura rispetto alla modalità che il tempo ha di scorrere in maniera lineare o di compiere destabilizzanti balzi in avanti. E questo, che potrebbe essere anche un discorso politico, facilmente ci riporta anche al teatro, che con l’identità gioca di continuo.
Forse di tutti i fantasmi quello che trovo più spaventoso è la trappola dell’identità. Rispetto al teatro italiano, io vedo una sorta di malattia. Il teatro che mi annoia è quello in cui vedo in scena personaggi che recitano sapendo chi sono. Di Macbeth, ad esempio, quasi subito l’attore tende a recitare il villain, l’efferato omicida e questo mi distanzia, perché non potrò mai identificarmi con lui. Se c’è invece la possibilità che quel personaggio sia io, che qualcosa mi riguardi, allora riesco a entrare. Quando Antonio Latella parlava dei rischi di un nuovo capocomicato io sono stato d’accordo, perché questo porta a una sorta di nuovo “teatro borghese”, in cui ciascuno ha un’identità e la difende, quasi come accade nella vita reale, dove ci si rispecchia ma non ci si sorprende più. Se neppure il teatro riesce a liberare l’identità diventa poco interessante, perché il risultato è che lo spettatore riceva la “pappa già masticata”. Ci si può limitare a lodare gli artisti per l’esecuzione: quando c’è una presenza protagonista, tutte le altre finiscono per essere al servizio di quella. Nell’apparato capocomicale si crea una messinscena in cui una serie di attori lavora al servizio del protagonista, ha tre battute per esprimersi e lo spettacolo non può mai divenire un lavoro collettivo. Quello che invece mi smuove è vedere una squadra di artisti che lavorano insieme. I calciatori fanno la partita: se hai una squadra completamente al servizio del bomber rimani in una visione che non è più attuale. Io credo nel “calcio totale”, in cui tutti hanno la responsabilità dell’esito della partita. E questo lo spettatore lo percepisce benissimo.
Senza neppure troppo forzare, si può dire che anche in molte direzioni artistiche, e forse ancora di più, si esprima una logica capocomicale. E questo ci riporta al tuo discorso iniziale: l’esperienza di curare un programma dovrebbe forzarti a scomporre la tua idea, metterne in crisi l’identità, appunto, nel porla a confronto (a servizio, forse?) dell’idea di altre persone. Anche solo per responsabilità nel gestire un teatro pubblico, dove ti viene chiesto di rendere plurale una visione, intercettando gusti che non siano solo i tuoi. Le persone che dirigono questo tipo di enti pubblici hanno – da un punto di vista normativo – la possibilità di imporre un’identità che schiaccia la pluralità che ci si aspetterebbe che creassero. Che una direzione artistica esprima una precisa autorialità è sano, è ciò che vorremmo vedere. Il problema è quando dall’autorialità (che servirebbe a creare autorevolezza) si passa alla pura e semplice autorità e, subito dopo, alla autoritarietà.
Se parliamo dei mali del teatro italiano io ho bisogno di una piccola premessa: il teatro italiano è povero di economie e questo lo scopri confrontandoti con i teatri esteri. Agire su questo non risolverebbe del tutto il problema – anche paesi che investono di più producono spettacoli “brutti” – ma aumenterebbe le possibilità. Inoltre, questi pochi denari si concentrano in poche mani. Ma c’è da dire che il teatro negli ultimi anni ha beneficiato di un miglioramento della vita media del teatrante: oggi si producono molti più spettacoli di trent’anni fa e le regole contrattuali e sindacali vengono applicate in modo molto più attento. A fronte di questo, però, tutto si è burocratizzato e, di conseguenza, anche un po’ narcotizzato. È subentrata una logica di welfare, sacrosanta, che però tende anche ad anestetizzare e ad uniformare il prodotto teatrale e a far passare il concetto che gli artisti debbano muoversi sempre all’interno di quel recinto. Questo ha trasferito un enorme potere nelle mani delle istituzioni locali, generando forse quel rischio di autoritarietà prima ancora di discutere le singole scelte curatoriali. Se in passato abbiamo avuto assessori che hanno avuto il merito di scoprire e di sostenere grandi artisti e grandi direttori di teatro, in generale ora la loro funzione sembra essersi ridotta a quella di distributori delle poche risorse esistenti.
Significa tramutare una possibile opportunità di rilancio in uno strumento retorico-politico per affermare un potere che hai già, perché la norma che hai scritto te lo assegna.
Una volta essere un artista difficile da inquadrare era qualcosa che la stessa politica premiava, perché poteva dare una scossa al sistema e dare visibilità e lustro al politico di turno. Nel momento in cui quel sistema si organizza basandosi sull’equa distribuzione, ecco che la voce fuori dal coro diventa solo un problema da gestire. Non penso fosse meglio allora, quando – ai miei inizi – io e altri venivamo letteralmente sfruttati in nome della gavetta. Quella realtà non è più possibile, ma almeno permetteva di non assopirsi.
Dalla tua posizione ti senti (e come) di amministrare e gestire quel possibile narcotico?
Io provo a farlo nel migliore dei modi. Di certo ciò che abbiamo prodotto in queste stagioni ha del miracoloso, rispetto alle economie che il TPE gestisce. Provo a non farmi schiacciare da quelle regole. Ho letto la dichiarazione di un direttore artistico, che diceva: «Per fare grandi spettacoli ci vogliono grandi teatri». È un punto di vista che denuncia tutto il male che c’è: io la penso al contrario, che si può fare un grande spettacolo anche con pochissime risorse. Il problema è che spesso nessuno li vede.
Ed eccoci arrivati all’ultimo punto, il vero male di oggi, la distribuzione degli spettacoli.
Eccoci. Dobbiamo accettare che il teatro italiano, per le economie che gestisce, senza scambi non possa sopravvivere. Il problema è che viene immesso nel mercato, viene imposto, un prodotto che non è ancora nato, indipendentemente da chi lo firma. Mi è capitato a Napoli (2008-2010) di aver ospitato spettacoli che sulla carta erano molto interessanti e che sono riusciti male. Stai distribuendo qualcosa che non esiste – un fantasma, appunto – di cui non puoi neppure assumerti la completa responsabilità, non essendo tu il produttore. In una delle riunioni di PLATEA feci una proposta molto chiara e semplice: gli spettacoli che un teatro produce non possono essere distribuiti (se non dai coproduttori) nello stesso anno, in modo che lo spettacolo possa e debba essere visto da chi programma. Naturalmente non c’è stato seguito, anche perché per farlo dovrebbero cambiare le logiche del sistema. Se il sistema ti offre la possibilità di vederlo, guadagni gli strumenti per assumerti una responsabilità, per difenderlo, per metterci la tua firma. Io nel mio piccolo procedo così, possiamo vantarci di aver visto tutti gli spettacoli che mettiamo in stagione; io voglio andare prima a vederlo – e questo fa anche storcere il naso perché fa perdere tempo nella programmazione – ma posso farlo perché gestisco un teatro piccolo, per un Nazionale è impossibile.
Ma dobbiamo renderci conto che non si tratta solo di un problema di metodo, che è invece una questione di visione. Un teatro pubblico non dovrebbe rinunciare a far incontrare e comporre, pur con certe differenze, un “teatro che abbiamo in mente”.
Sergio Lo Gatto