Sotterraneo porta in scena Il fuoco era la cura, liberamente ispirato a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, sul palco del Teatro Fabbricone di Prato. Lo spettacolo prosegue la tournée al Piccolo Teatro di Milano. Recensione
“I libri erano solo uno dei ricettacoli dove mettevamo le cose che avevamo paura di dimenticare”. Chi scrive – ovvero io – ha riaperto la propria copia di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, esattamente alla pagina dove aveva lasciato un segnalibro, così da ritrovarvi questa frase sottolineata a matita. E sembra un colpo strano, questo: avevo dimenticato la frase, per sbaglio o per intenzione l’ho recuperata a dirmi esattamente che l’avevo lasciata lì, così, perché l’avrei dimenticata. Sembra un po’ quel gesto altamente poetico, d’avanguardia, attraverso il quale Stephen Hawking volle sfidare il tempo, inviando ad alcuni scelti viaggiatori extratopici una lettera d’invito a una festa di accoglienza svolta un anno prima, nel 2009, alla quale, tra i festoni di benvenuto, si era presentato da solo. Alcuni giorni dopo aver visto Il fuoco era la cura, ultima magnifica opera del Sotterraneo al Teatro Fabbricone di Prato, ispirata liberamente al capolavoro di Bradbury, ho riaperto il mio taccuino su cui ho notato un vortice di pagine scarabocchiate, lì c’erano i pensieri emersi durante la visione, come una sorta di ritratto istantaneo dal vivo (astratto, a dire il vero), ma scorrendoli uno dietro l’altro quel ritratto sembrava aver preso una forma del tutto nuova, come se le pagine lì conservate avessero formato una memoria ulteriore, distante ormai da quella impressa a caldo. Ecco allora, mi dico, l’impatto che il libro pone sulla storia: illude la conservazione della conoscenza, stipata in una scatola di carta che sembra proteggerla, come cosa fragile in una cosa fragile, eppure allo stesso tempo lì dentro la memoria si sta trasformando, lascia il sapere del tempo precedente per assumere i caratteri del prossimo sapere.
Sotterraneo – ideazione e regia come sempre di Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa – torna dunque a giocare con il tempo, indaga i rapporti di causa-effetto passando da uno spettacolo di altissimo spessore come L’angelo della storia, in cui il dispositivo teatrale diviene lo strumento dei viaggiatori del tempo che si muovono liberi nella pancia del passato, a porre ora sotto esame il presente, quel fascio intricato di possibilità e impossibilità che si stringe attorno alle vite dei contemporanei. C’è una scena vuota e nera, al centro della quale emerge, come una sorta di totem, un proiettore verticale che attrae verso l’alto, dove ha luogo l’immaginazione, sembra un fuoco attorno a cui solo una storia – o la, storia – può essere narrata; cinque presenze – attori energici e completi Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu e Cristiana Tramparulo, che si caricano il peso di uno spettacolo senza risparmiare nulla, capaci di diventare uomini-teatro al pari di come nel romanzo si parla di uomini-libro – cercano sul palco di far emergere tratti della vicenda, frammentata in singole scene che via via vengono discusse, a costituire elementi di un’indagine più profonda sulla società che ci avviamo a diventare, usano cioè il teatro come sonda per la contemporaneità, costruiscono un rituale con il solo intento di sovvertirlo, vanno avanti e indietro nel tempo e nel racconto creando così una distopia nella distopia.
All’interno del romanzo destrutturato, la cui forma è costantemente minacciata da un fuoco che (forse) sarebbe la sua e nostra cura, si fanno strada le tante contraddizioni delle questioni politiche di maggiore impatto, dalla crisi climatica alla fine della democrazia che fa emergere questa nuova esigenza autoritaria nel cuore dell’Occidente; eppure le istanze ideate dalla scrittura di Daniele Villa che appaiono sullo schermo, al riparo dalla banalità, si fanno carico di paradossi e domande scomode che riguardano la verità non delle istanze, ma della nostra capacità di partecipazione al dibattito, di conservazione delle idee in una società in cui la sovrapproduzione dei nostri amati libri, in quanto contenitori di teorie uguali e contrarie, è anche responsabile di creare strumenti validi per ogni teoria, anche la più folle. Insomma, un libro è La Bibbia o le ricette dell’Artusi, ma un libro è anche il Mein Kampf.
Le parti del romanzo seguono una cronologia fluttuante, gli attori ne mimano una scena mentre uno di loro, scegliendo un microfono tra i vari fili arancioni intrecciati sul palco, la racconta agli spettatori, creando così due diverse narrazioni che rendono complementare il totale dell’immagine. Non c’è una sola storia, non c’è una sola verità. Poi tutto si mescola, i personaggi – Montag, Beatty, Clarisse, Mildred – anche già morti si incontrano e parlano tra loro della vicenda, gli uomini-libro compiono l’atto impossibile e simbolico di imparare a memoria volumi, velocizzando e rallentando le scene (con una qualità tecnica degli attori davvero eccellente), una conferenza del 2051 parla del tempo presente al passato, ascoltando testimonianze sullo spettacolo andato in scena molti anni prima, cioè adesso, il linguaggio metateatrale amplifica la scena a renderla idealmente gigantesca e magnifica (ma sempre nera e vuota resta), così che il romanzo si accresce di altri e vari materiali – certo anche il film omonimo di Truffaut e le tante canzoni che ad esso si ispirano – creando così una forma ancora nuova, un apparato con cui affrontare quel senso di gravità perenne che sta conducendo, sotto la spinta di tutte le nostre mani, il mondo verso la fine.
Se fossimo in un Paese in grado di valorizzare le eccellenze, il Sotterraneo sarebbe analizzato nei contesti culturali nazionali e internazionali, non solo rappresentato ovunque ma discusso – sui giornali, in TV, in radio e sul web – assieme all’uscita dei grandi libri di letteratura, dei grandi film che si presume faranno la storia del cinema, sarebbe cioè inserito nel dibattito perché dice qualcosa di importante sulla contemporaneità con limpidezza e qualità ineccepibili e raffinate. Eppure non accade, restiamo noi a scomparire in un applauso perché almeno quel poco si noti quanto, attraverso il teatro, si possa vedere del mondo.
Sono tante le domande con cui si esce dalla sala, tante domande che però hanno nel cuore pulsante, com’è per l’arte che rilancia oltre l’opera, il desiderio di una risposta. L’eredità del sapere è una risorsa oppure una condanna, l’erudizione ottunde o libera lo spazio della mente, saremo per sempre o no capaci di mantenere e dissipare con questo senso dell’equilibrio innato, cui ci porta più l’istinto di conservazione che la capacità di deciderne il destino. Tante domande rivolte al presente, stimoli fragili e profondi che hanno l’unica vocazione di restare tali. Perché questo non è che teatro, pur grande e durevole nel tempo. E un rogo alto e fiero che scalda è pur sempre luce. La fiamma che brucia i bordi delle pagine, c’è da chiedersi, sarà la stessa che brucia l’interno del libro? E la temperatura giusta, poi, sarà davvero quella che Bradbury ha fatto diventare iconica?
Il dilemma è sempre quello con cui si apre lo spettacolo.
“Perché rovinare una bella storia con la verità?”
“Perché rovinare la verità con una bella storia?”
Perché la vita, forse, è come un fuoco lento.
E cambia spesso direzione, esposta al vento.
Simone Nebbia
Teatro Fabbricone, Prato – Aprile 2024
Dal 21 al 26 maggio al Piccolo Teatro di Milano
IL FUOCO ERA LA CURA
creazione Sotterraneo
ideazione e regia Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Daniele Villa
con Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo
scrittura Daniele Villa
luci Marco Santambrogio
abiti di scena Ettore Lombardi
suoni Simone Arganini
coreografie Giulio Santolin
oggetti di scena Eva Sgrò
tecnica Monica Bosso
produzione Teatro Metastasio di Prato, Sotterraneo, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale con il sostegno di Centrale Fies / Passo Nord