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SAIGON: l’esilio, racconto di lacrime e radici

Recensione. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano, all’interno della rassegna Milano Porta Europa con cui il Piccolo rinnova l’intento di aprirsi al dialogo e confronto internazionale (avviato nel 2022 con Presente Indicativo), Caroline Guiela Nguyen porta in scena Saigon, uno spettacolo presentato al Festival d’Avignone nel 2017 che affronta il tema dell’identità e delle radici del migrante nel contesto del colonialismo francese in Vietnam.

Ph Jean Louis Fernandez

L’inizio è un’inquadratura netta e precisa, una sezione visiva dal taglio cinematografico che si apre sull’interno di un ristorante vietnamita. A sinistra una cucina a vista abitata da mestoli, pentole e altre stoviglie fumanti disegna il luogo privato legato alla liturgia del lavoro. Uscendo dalla porta di questa cucina, uno spazio più grande, definito nella totalità delle pareti da mattonelle verde acqua, accoglie i clienti con tavolini e sedie in alluminio, e talvolta calici di vino, palloncini da festa, vasi di fiori colorati, oggetti che seppur dotati di una carica gioiosa, restano spenti e silenziosi sul palco, colmi anche loro – come tutto ciò che li circonda – di un sentimento di dolore e attesa. Volgendo lo sguardo sul lato destro, la sala termina con l’allestimento di un palchetto da cabaret, circondato da ghirlande e tendine di luci a cascata. Uno spazio vuoto e marginale che attende d’essere ricordato, che chiede di essere abitato, riattivato. Tradotto con vivido realismo da Alice Duchange in una scenografia dai sapori domestici, il palco trasmette così la percezione di un ambiente intimo e familiare eppure terribilmente freddo nelle tonalità e nei materiali di cui è composto. Quest’inquadratura resterà fissa per tutta la durata dello spettacolo, immobilizzata in una sospensione emotiva, temporale e geografica, tra la Saigon del 1956 e Parigi del 1996.

Ph Jean Louis Fernandez

Saigon è il nome del ristorante protagonista della scena, ma anche della città del Vietnam che porta con sé un’immagine intrisa di memoria bellica e di conflitti storici. Saigon è un ricettacolo di segni che non esiste più, eppure nella narrazione della regista Caroline Guiela Nguyen diviene il ponte immaginario tra due mondi: un non-lieu simbolico, uno spazio teatrale di empatia dove le lacrime e le storie perdute si intrecciano tra presente e passato in un flusso narrativo condiviso. La sua centralità nello spettacolo – sospesa tra ciò che era e ciò che non può più essere (sostituita dall’attuale Ho Chi Minh) – è denotativa, perché si inserisce in quel tentativo della regista franco-vietnamita di far riemergere l’insepolto, di riscrivere la storia attraverso i “buchi” creati dalla narrazione ufficiale; una storiografia la cui rielaborazione delle battaglie degli anni ‘70 ( di cui è stata protagonista l’America) è arrivata quasi del tutto a coprire quella della colonizzazione e della disfatta francese del 1956, anno in cui il governo vietnamita ha espulso i francesi dalle proprie terre e sollecitato l’esilio dei vietnamiti considerati non fedeli al governo.  «Dovevo ricostruire questo momento storico davanti ai miei occhi utilizzando la scena teatrale, perché nei libri di studio o nel modo in cui oggi la politica francese narra il percorso del Paese, questa realtà è completamente taciuta. E invece doveva esistere da qualche parte, poiché esiste nelle lacrime di mia madre, che non finirà mai di piangere il suo esilio; frutto della decolonizzazione e, ancora prima, della colonizzazione francese. Era necessario che queste lacrime appartenessero ad altri oltre che a me; che non venissero “asciugate” (…) ma che fossero assorbite in un contesto pubblico e politico».

Ph Jean Louis Fernandez

Per Nguyen, il punto di partenza per questo processo di assorbimento è dunque il racconto sulla scena: un percorso strutturato in quattro capitoli, ma condotto a ritroso nei ricordi-residui stratificati all’interno del proprio albero genealogico. Attraverso di essi, la regista affronta con un particolare sguardo sociologico il problema della memoria legato al tema dell’esilio: cosa ricordiamo delle esperienze di dolore e separazione? Che cosa rimane nel presente di quelle radici? «Così ho cominciato a ricordare tutto di quell’epoca; soprattutto mia madre che parlava con i miei zii, le mie zie, mia nonna, mio nonno: “Torniamo o no in Vietnam?”. La domanda risuonava in ogni casa». È da questo bacino di esperienza sopravvissuto nella tradizione orale che prendono vita, in un brulichio di diversi accenti e lingue, i personaggi che popolano la trama intrecciata dello spettacolo, interpretati da un validissimo cast di attori vietnamiti e francesi di origine vietnamita: qui, Maria Antoniette, proprietaria del ristorante, spirito tutto buffo, vivacissimo e di una semplicità genuina, aspetta per 17 anni un figlio che non farà mai ritorno; sua nipote Lam l’aiuterà a rassettare sommessamente tavoli e cucina ma il suo silenzio in scena troverà una nuova voce nella rievocazione lucida di quei ricordi. Queste figure perno tra i due mondi accoglieranno alcune anime di passaggio, in un viavai continuo di partenze e ritorni accarezzati costantemente dalle sottilissime sospensioni sonore di Antoine Richard, realizzate con cura tramite l’assistenza di Orane Duclos.

Ph Jean Louis Fernandez

Da Saigon parte Eduard, soldato francese innamorato della giovane vietnamita che porta con sé al rientro in Francia. Eduard prende Linh in sposa, le promette agi e onori ma Eduard finisce per mentire alla donna su tutto. Morirà presto, lasciandole un figlio che di quel passato di esilio porterà il peso senza mai davvero riuscire ad elaborarlo del tutto. Hao, invece, farà ritorno alla città d’origine per ritrovare l’amore perduto dopo la sua migrazione obbligata. Ma di quelle radici locali identitarie Hao non troverà più nulla, né l’amore a lungo atteso né i luoghi abitati, la lingua parlata, i sogni conservati. Non c’è più niente che lo aspetta, niente che riuscirà a colmare la distanza di quei quarant’anni trascorsi. Alla ricerca delle proprie radici identitarie, Hao rimarrà per sempre un Việt Kiều, Vietnamien-ne-s d’outre-mer, Vietnamien-ne-s de l’étranger, vietnamita d’oltremare, vietnamita straniero (qui un articolo che approfondisce i significati del termine, analizzando le questioni sociali, politiche e identitarie che vanno ben oltre il criterio migratorio). Straniero in Francia, straniero in patria.

Nel ricostruire con l’immaginazione la trama di una storia che in qualche modo le appartiene, Caroline Guiela Nguyen organizza sapientemente presenze e assenze sul palco, inchiodando lo spettatore alla visione, plasmandone i sentimenti di compassione e nostalgia, di solitudine e amarezza. La sua regia è, tuttavia, incredibilmente “pulita”: l’inquadratura fissa mantiene per tutta la durata dello spettacolo una funzione documentaria, registra con imparzialità l’esplosione della vita che fluisce e ne mantiene una certa carica centripeta. Tutto accade dentro il ristorante, nella Saigon del 1956, nella Parigi del 1996. Anche i sentimenti sembrano essere esposti tutti lì, condensati in un groviglio indistinto che si inserisce nel corpo per calare cautamente in quella zona di mezzo tra sterno e gola, si sedimenta come un peso in sospensione e rimane lì, a ricordarci, una volta usciti dalla sala, che la sensazione di ritrovarsi in esilio, senza patria, senza identità o radici, non termina con la sola storia del colonialismo francese in Vietnam. Non termina neppure nel 2024. La Storia scorre e ripercorre ininterrottamente le sue tracce come un flusso fluviale. E la sua riscrittura è sempre possibile.

«Le lacrime sono qualcosa di molto presente nella vita dei vietnamiti, molto più che in Francia dove spesso ci si nasconde per piangere. In questo senso mi sono detta che se volevo parlare della Francia attraverso la storia del Vietnam, non dovevo dimenticare questo ‘cammino del pianto’».

 

Andrea Gardenghi

 

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano, 4-5 maggio

SAIGON

testo Caroline Guiela Nguyen
insieme a tutta l’équipe artistica
messa in scena Caroline Guiela Nguyen
con Caroline Arrouas, Dan Artus, Adeline Guillot, Thi Truc Ly Huynh, Hoàng Son Lê, Anne-Marie Ly-Cuong, Phú Hau Nguyen, Maurin Ollès, Yen Linh Tham, Anh Tran Nghia, Hiep Tran Nghia
collaborazione artistica Claire Calvi, Paola Secret
scenografia Alice Duchange
costumi Benjamin Moreau
luci Jérémie Papin, con l’assistenza di Sébastien Lemarchand
creazione sonora e musicale Antoine Richard, con l’assistenza di Orane Duclos
composizioni Teddy Gauliat-Pitois, Antoine Richard
drammaturgia e sovratitoli Jérémie Scheidler, Manon Worms
stagista di drammaturgia Hugo Soubise
traduzione Duc Duy Nguyen e Thi Thanh Thu Tô
realizzazione costumi Pascale Barré, Aude Bretagne, Dominique Fournier, Barbara Mornet, Frédérique Payot hairstyle e parrucche Christelle Paillard
allestito per la prima volta nel giugno 2017 alla Comédie de Valence – Centre dramatique national Drôme-Ardèche
produzione Théâtre national de Strasbourg
coproduzione con Les Hommes Approximatifs, Odéon – Théâtre de l’Europe, Comédie de Valence – Centre dramatique national Drôme-Ardèche, MC2: Grenoble, Festival d’Avignon, CDN de Normandie-Rouen, Théâtre national de Strasbourg, Centre dramatique national de Tours – Théâtre Olympia, Comédie de Reims – Centre dramatique national, Théâtre national Bretagne – Centre européen théâtral et chorégraphique, Théâtre du Beauvaisis – Scène nationale de l’Oise, Théâtre de La Croix-Rousse-Lyon, Domaine d’O – Montpellier, Teatro Nacional D. Maria II – Lisbona

con il sostegno finanziario di Région Auvergne-Rhône-Alpes, Conseil départemental de la Drôme

con il sostegno di Institut français à Paris nell’ambito del programma Théâtre-Export, Institut français Vietnam, Università di Teatro e di Cinema della città di Ho Chi Minh, La Chartreuse, Villeneuve lez Avignon – Centre national des écritures du spectacle
testo premiato dalla Commission nationale d’Aide à la création de textes dramatiques – ARTCENA
con la partecipazione di Jeune théâtre national
scene realizzate nei laboratori dell’Odéon – Théâtre de l’Europe

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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