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La meraviglia di un mondo non conforme. Intervista a Federica Rosellini

Federica Rosellini è autrice, attrice, formatrice. Lavora tra il teatro – celebre il suo ruolo da protagonista in Hamlet di Antonio Latella – e il cinema – in sala in questi giorni nel film Confidenza di Daniele Luchetti. L’abbiamo intervistata per approfondire con lei la sua visione, tra arte, immaginario e politica.

dal set di “Confidenza” di Daniele Luchetti (Teresa)

Un po’ schiva, e rigorosa, sguardo penetrante e riflessivo; ma sinceramente entusiasta nell’incontro, pensosa nell’esposizione di un ragionamento, attenta nel dare peso ai gesti e alla scelta delle parole. Si percepisce un’architettura culturale stratificata in Federica Rosellini, fatta di memoria, segni, emozioni per la quale sembra essersi però fatto spazio un quotidiano lavoro di decostruzione, di montaggio e rimontaggio di principi che nella loro fissità definitoria sono stati mescolati, interrogati, abbandonati. Per cui gli aspetti oscuri siano poi illuminati di luce piena, viva, non facilmente e non senza dolori ma con la consapevolezza che sia il dubbio a governarci, per liberarci. Viviamo entrambe a Roma ma decidiamo comunque di sentirci per telefono, per non distrarci forse, così io la chiamo e lei, prontissima, risponde:

Volevo finalmente trovare il tempo per parlarti perché ci sono degli aspetti che mi incuriosiscono molto e vorrei condividerteli.

Dei ruoli da te interpretati, tanto in teatro che al cinema, rintraccio la tua tendenza a “desituarti” in personaggi “extra”, comprendenti cioè più personaggi al loro interno, e quindi ti chiedo, come scegli i progetti a cui prendi parte?

Luca Ronconi diceva “noi siamo le infinite cose che potremmo essere” e io in un personaggio, che sia ben scritto o che sia anche scritto male, ricerco sempre una necessaria tridimensionalità, che noi riconosciamo come umana. Io credo siamo abitati da molte creature, non solo umane. Mi piace lavorare sulle debolezze, sui contrasti che mi muovono, i punti oscuri, i nostri fantasmi…me ne innamoro. Se ciò non accade, dico di no. Ho detto tanti no e continuerò a farlo (ride ndr).

da “Veronica” di G.Garaffoni regia F.Rosellini – Biennale Teatro 2023

Quali sono le tue difficoltà e limiti in cui incorri più spesso?

È una contrattazione continua, ogni giorno devi chiederti “Oggi come sto?” “Cosa si è aperto? Cosa si è chiuso?” “Cosa devo sbloccare?”. Il mio punto debole di partenza è stato il corpo: ho una grande fragilità fisica legata alla mia storia personale. Ho iniziato a lavorarci una volta entrata in Accademia a 18 anni (diplomata all’accademia del Piccolo Teatro di Milano ndr) e ho dovuto fare i conti con quei limiti, andandoli a investigare con costanza, e proprio su quelle difficoltà ho dovuto impegnarmi di più. A volte mi capita anche di entrare in una modalità di protezione verso l’esterno, una dinamica a me familiare e che più volte ho dovuto fare lo sforzo di infrangere, rompendo la comfort zone che mi ero creata.

Quando sei tu a scrivere, di cosa ti piace scrivere e in che modo lo fai? Quanto lasci nel privato, come esercizio, e quanto invece decidi di finalizzare?

Sono una grande appassionata di poesia, da ragazza ho vinto anche alcuni concorsi, quindi per molto tempo la mia scrittura è stata poetica. In parte lo è tuttora, i miei paesaggi sono sempre intimi e visionari; procedo per immagini perché è il mio modo di pensare e vedere il mondo, anche come attrice. Vorrei che la scrittura mi accompagnasse di più, invece quando lavori alla produzione di un progetto non puoi abbondare, devi concentrarti e fare una selezione.

Da “Carne Blu” di Federica Rosellini – Piccolo Teatro di Milano ph. Masiar Pasquali

Da chi ti piace “copiare”?

Dalle grandi autrici. Faccio della mia scrittura, del mio lavoro in generale, un atto politico e mi piace andare a scoprire autrici note, Virginia Woolf, Ursula Le Guin, e meno note, che sono state tenute ai margini della storia. Sono una lettrice vorace quindi molto si sedimenta nel mio immaginario in maniera involontaria ma devo dire che ho una grande passione per la fantascienza e la narrativa distopica, per autori e autrici che mischiano i generi. Penso alla figura straordinaria di Ildegarda Von Bingen, il suo eclettismo legato alla musica, alla scrittura, all’immagine, al suo modo libero di raccontare il mondo, non è solo una figura sacra ma grande artista e intellettuale, una mistica di cui, fortunatamente, ci è giunta testimonianza, una donna che nei primi del 1100 è stata capace di scardinare quel realismo che racchiude l’esistente in strutture troppo rigide.

Quando sei spettatrice invece, che spettatrice sei, cosa osservi quando sei tu a guardare?

Anche quando qualcosa non mi convince, ricerco sempre uno spiraglio di bellezza per me, e mi attacco a quello. Sono contro la competizione e il conflitto tra i mondi: nel teatro italiano sembra si debba schierarsi in un ambito di appartenenza e invece la contaminazione è fondamentale, tra imbastardimento e dialogo. In questo lavoro bisogna avere onestà e coraggio, preferisco creazioni che non si adagino nel prevedibile, nel facile e accattivante, mi piace il mettersi in bilico, il rischiare anche, ammiro i progetti che semmai non sono riusciti ma sono stati sinceri nel voler osare.

Hai detto che il tuo lavoro è un atto politico. Poiché lavori sia nel cinema che nel teatro sin dall’inizio della tua carriera, in che modo ti relazioni con questi due settori e che possibilità di accesso ci sono?

Il teatro è molto indietro, parlando del mondo degli stabili, dei teatri statali quindi – che è quello in cui mi sono formata e in cui lavoro – la presenza di autrici, registe, direttrici si conta sulle dita di una mano (leggi i dati Osservatorio Amleta ndr). Rispetto all’accesso, puoi anche accedere ma poi percepisci negli ambienti in cui lavori che la discriminazione è latente, non c’è parità, non ci sono facilitazioni. Ma lo è a livello politico e sociale, non solo in quello culturale, basti vedere le ultime notizie riguardanti i pro vita nei consultori; stiamo insomma tornando indietro nella percezione dei corpi. Abbiamo bisogno di aprire l’orizzonte dello sguardo che è ancora molto chiuso, è uno sguardo cieco alla diversità di genere, all’inclusività, alle seconde, e terze, generazioni. Negli ultimi anni il cinema sembra più avanti rispetto al teatro ma solo apparentemente, la mancata vittoria ai David di Donatello di un’autrice come Alice Rohrwacher è davvero uno scandalo, e credo che sia il sintomo di questo stato delle cose. Dico sempre che il cinema è più disumano: il suo tempo è senza tregua, non fai delle prove, arrivi sul set e devi “essere accesa”, mentre il teatro ha tempi più morbidi di relazione.

Da “Freaks” liberamente tratto da T.Browning regia e drammaturgia F.Rosellini – Pelanda, Roma ph. Manuela Giusto

Mi piacerebbe parlare anche della tua indagine sulla natura che osservi nel suo essere mostruosa, stuporosa, nel superamento dei generi e delle specie per giungere a un’interconnessione tra tutti gli esseri. Mi riferisco tanto al progetto Freaks, per gli allievi e allieve dell’Accademia Silvio D’Amico, ma anche al tuo spettacolo Carne Blu. Cos’è che suscita in te meraviglia?

Nella mia testa c’è il mondo medievale e il rapporto che questo aveva con il concetto di meraviglia. È il mio grande amore, mi piace soffermarmi sulla convivenza tra invisibile e visibile dando a ciò che non vediamo forme sorprendenti. Amo per questo il gusto barocco inteso proprio come la possibilità di una creazione che non sia definita, per cui ognuno possa fare il proprio viaggio. Freaks nasce sull’idea di una non conformità, anche io sono un corpo non conforme, e come correlativo oggettivo ho scelto questo orso cyborg, che supera lo specismo e propone l’interspecie.

Da “Freaks” liberamente tratto da T.Browning regia e drammaturgia F.Rosellini – Pelanda, Roma ph. Manuela Giusto

In merito alla trasmissione quindi, come hai vissuto questa esperienza da formatrice nell’ambito del progetto dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio d’Amico al Mattatoio e, secondo te, come dovrebbero ridefinirsi i moduli formativi all’interno delle scuole?

È stato un lavoro ibrido, complesso e stratificato: un periodo di formazione al quale si è unita poi una parte di messinscena con tre repliche nello spazio de La Pelanda. E credo che le due parti così strutturate siano fondamentali. Mi piace pensare che gli allievi e allieve siano degli attori consapevoli, studiosi, degli autori quindi, che abbiano la possibilità di costruirsi un proprio immaginario personale, che non siano pedine inserite in un disegno ma parte costitutiva di un progetto. Chiedo sempre quale siano le loro altre abilità, perché il teatro unisce le arti, le rende complementari, e non è sempre detto che sia la parola il luogo da indagare. Sono convinta che la scuola debba educare a un immaginario polimorfo, e ritengo che oggi manchi ai ragazzi e ragazze un nutrimento sul loro mondo, i percorsi di studio spesso sono uniformanti e dimenticano le diverse singolarità.

Come definirest invecei il rapporto con i tuoi Maestri?

Mi piacerebbe che a un certo punto si possa parlare di Maestre, vorrei arrivare a un tempo in cui poter dire “bisogna uccidere le madri”. Considero due Maestri nella mia vita, Luca Ronconi e Antonio Latella. Da Luca ho imparato la lettura spietata dei testi ma anche il loro capovolgimento, da Antonio la parola incarnata e performata; entrambi mi hanno trasmesso l’importanza del rapporto con il tempo. Il mio è poi un percorso molto variegato, dalla musica, alla danza, teatro e cinema. Antonio mi ha sempre lasciato grande libertà, ho sempre avuto la possibilità di essere autrice e attrice, di portare nei ruoli il mio personale mondo. Hamlet, in questo, è stato davvero un dono.

Da “Veronica” il Reading di G.Garaffoni regia F.Rosellini – Biennale Teatro 2022

Abbiamo parlato di oscurità, di indefinzione, ma anche di mistero e pure di misticismo; questo ha a che fare per te con il sacro?

Mia madre è un’esperta di iconografia bizantina e quindi ho imparato a considerare l’icona come un atto performativo, ogni strato di pittura è un insieme di preghiere e orazioni, per cui corpo e parola sono legati all’immagine. Sia che sia visibile o invisibile, abbiamo sempre a che fare con il sacro in relazione a un senso panico dell’esistenza, non solo cristiano. Veronica, il lavoro fatto per Biennale, partiva proprio dall’interrogativo “come possiamo guardare al sacro in maniera politica per stravolgerlo dall’interno?”.

Lucia Medri

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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