HomeArticoligruppo nanou. La danza in teatro per ammazzare il tempo

gruppo nanou. La danza in teatro per ammazzare il tempo

Recensione. La compagnia ravennate gruppo nanou festeggia il suo primo ventennale di attività con una installazione coreografica in un’elegante sala del Teatro Alighieri di Ravenna, e ripropone figure e visioni di un immaginario ancora felice.

Foto Zani Casadio

Una delle cose, fra le tante, più bella di Redrum (leggilo all’incontrario: il gioco già in Shining) è questo tempo aperto, libero, dunque sempre calato nel presente della sua fruizione (affollata di citazioni musicali che rimandano a film, di figure, di suoni, di movimenti): la visione dello spettatore non ha né inizio né fine, decide lui tutto, anche lo spazio della sua presenza lungo la Sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna. Eppure si tratta di una installazione coreografica retrospettiva (ma dell’immaginario, non del repertorio) della compagnia gruppo nanou (che celebra oggi i suoi primi 20 anni di attività) e dei tanti materiali che nel tempo si sono depositati e nascosti, qui riapparsi in nuovi tempi e vite, a scombinare nuovi mondi. È un intelligente dispositivo: sembra un cinema circolare, un bordello rotante, una buia taverna in pieno proibizionismo, capace di accoglienza per il desiderio di ognuno, o anche solo per ammazzare il tempo.

Foto Zani Casadio

La cosa più bizzarra invece è l’avanzata pretesa di «riscrivere le regole del rito teatrale per trasformare lo spettacolo in luogo da abitare», l’annuncio roboante di «una rivoluzione della percezione che ci invita ad abitare lo spettacolo dimenticando i confini tradizionali tra palco e platea etc.». Davvero? E dovrebbe impressionare? Io non credo. Impressiona molto, invece, il saper fare e il saper fare bene, che qui si riconosce, in una mise en space magistrale e in tanta danza orchestrata con vera cura, e andrebbe tutto rivendicato come la più rivoluzionaria delle vie: incarnare il proprio sapere nel modo più mirabile e necessario possibile perché sedimentato in un largo arco di tempo creativo che spesso, per i tanti, come Nanou, è stato anche di studio forsennato e lavoro tutto matto.

Foto Zani Casadio

È certo però che il linguaggio è un segno dei tempi: se da una parte vi è una propaganda ministeriale sulla danza anzi Danza-con-la-maiuscola negletta e mortificata a cui tornare (difficile davvero dire cosa significhi), e in cerca di rivincite (ma più direi di ossequî e inchini e tributi istituzionali), una propaganda che sembra a volte scritta da Paperino-Balilla; dall’altra, la scena contemporanea della danza (in Italia particolarmente ricca, viva, intensa e felicemente plurale e infelicemente divisa da cui poi in gran parte la sua invisibilità) è nelle parole come di un Rasputin della Marvel, sempre sull’orlo di un cataclisma rifondativo, di una istituente destituzione, di una dispensazione, di uno spodestamento, o svincolamento, insomma della permanente rivoluzione come una affumicata banderuola che fa la sua prestazione (difficile davvero dirla cosa necessaria). La resistenza non ha bisogno di formule né di layout. La forza delle idee quando investe la vita (e non si limita a replicarla, né si ferma alla sola lettura del menù) già comprende e dispensa l’impuro e la dismisura.

Foto Zani Casadio

Vabbè, sbufferai lettore impaziente, ma questo lavoro che hai visto funziona? Non si capisce mai se ti è piaciuto… (e vorrei anche non adeguarmi a questo imperativo del pollice su-o-giù da appuntare al petto e instagrammare subito, o invece da glissare facendo finta di nulla — “scrive difficile… aria fritta… tutto incomprensibile…” infatti: epperò qui non è in gioco il numero dei C1, la critica ha smesso da un pezzo di procurarne, ma è questione di pensiero di responsabilità di presa di parola e di azione sul presente, e di salto sull’ombra). Comunque sì eccome, Redrum funziona che è una meraviglia.

Le geometrie di movimento in questa installazione sono quelle dell’incontro istantaneo, dell’apparizione fugace, dell’attraversamento frenato da incroci, sviamenti, soste e fughe. Si intuisce, si scruta, si insegue la vita oltre le quattro porte che dànno sulla sala a terra tutta rossa, e che provengono da due altre stanze piene di specchi e riflessi e traffico di fantasmi che incedono da altre porte. Le luci a terra e i controluci a getto; una musica strepitosa che combina le dissimetrie elettroniche di Bruno Dorella a brani di note colonne sonore, fanno di questo ibrido ambiente un post-paradiso, un eden-da-interni costruito con degradate imagines agentes però casuali, interminate, aleatorie. Pure i movimenti del pubblico compongono all’impronta le traiettorie dell’evento (anche se poi c’è veramente gusto fermarsi, sedersi, e fare semplicemente lo spettatore in questa sala rosso fuoco, di fronte all’andare-e-venire di questo teatro della memoria).

Foto Zani Casadio

È una alchimia misteriosa delle apparizioni e delle sparizioni che funzionano perché tutti i performer (spesso muniti di coda che marca flessibile il bacino) sono davvero all’altezza; insomma queste porte di transito sono punti di visione, sono fughe prospettiche musicali, sono metafore visive, rovescio di mondi. Marco Valerio Amico prova ogni tanto a puntare manualmente luci colorate sui corpi dei performer, per cambiare le ombre, le atmosfere, la temperatura, però tutto poi torna a scorrere indifferente, orizzontale. Con gruppo nanou si ha sempre a che fare con alfabeti di movimento tenui, sobri, che puntano sull’intensità, sulla consegna, sulla tenuta dello sguardo nella lenta creazione dello spazio: la coreografia è una organizzazione aleatoria consapevole e condivisa, mai imposta, solo ricevuta e poi lasciata libera ai tempi complici di chi è in scena; non c’è mai nessuna esibizione muscolare, il virtuosismo qui è il fuori dei corpi, è il modo in cui essi informano il circostante.

Foto Zani Casadio

Così Rhuena Bracci detta regole e linee anche di cedimenti e distensioni e di aliene apparizioni, mentre Marina Bertoni quasi provoca in intensità di presenza e prossimità col pubblico (perché il perturbante è una delle tante variazioni gentili di questa installazione), insieme ad Agnese Gabrielli che appare e scompare dappertutto come forma dell’inatteso e dell’imprevisto, a complemento di Carolina Amoretti e Andrea Dionisi che sono forse i motori di azioni più dinamiche ed energiche, con assoli improvvisi, stasi attive, apparizioni/sparizioni di un ritmo fatale. Quasi a lato, ma non cursoria, la presenza che incede a passi brevi e strisciati di Marco Maretti, che porta caraffe di Campari e di Rhum agli assenti (mai a noi, per intenderci…). Di nuovo minaccioso, il programma spende parole ultime di sfida: «In Redrum tutto accade, è sempre accaduto e accadrà ancora». Ricevuto, ma la scena non è così perentoria, come la danza che vi scorre e che occorre saper vedere, raggiungere, amare: queste atmosfere potrebbero piacere a un Fassbinder più che a Lynch, ma forse su questo gruppo nanou credo non convergerebbero.

Stefano Tomassini

Maggio 2024, Ravenna, Teatro Alighieri, Ravenna Festival

redrum

coreografie Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
musiche originali Bruno Dorella (eseguite ‘live’ nella replica del 22)
con Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Andrea Dionisi, Agnese Gabrielli, Marco Maretti
scena e luci Marco Valerio Amico
costumi Rhuena Bracci

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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