Recensione. Edipo Re di Sofocle nella rilettura di Andrea De Rosa. Un’interpretazione del classico che parla al mondo contemporaneo.
Che cosa significa firmare la traduzione di un testo che a ritroso ripercorre, frammento dopo frammento, tradizione dopo tradizione, duemilaseicento anni? Forse significa arrendersi al fatto che la nostra cultura è mutata, che mutato è il corso e il ricorso dei nostri ragionamenti su chi siamo e per cosa agiamo. E però che, nel profondo, le ragioni sono le stesse. Solo che il peso specifico degli archetipi – definiti da Karl Gustav Jung e poi da James Hillman – ha oggi la gravità determinata da un mondo fatto di connessioni virtuali, dubbie aspettative e guerre telecomandate da potenti che non si guarderanno mai in faccia.
Prendendo in mano una delle più celebri tragedie di Sofocle, Edipo Re, recuperiamo a manciate il seme del nostro essere occidentali, il prodromo ai malesseri del cancro etico descritto poi dallo stesso tragediografo nel “séguito” che sarebbe stato Antigone. Lì il ciclo tebano andava a compiersi spiegando le ragioni della maledizione della nostra stessa società, divisa tra la legge dello Stato e quella del sangue e poi divorata dalla logica della “filìa”, l’affiliazione simpatetica, e “mafiosa”, che avrebbe decretato l’avvento della nuova, inscalfibile, filosofia politica.
Si conosce bene l’influenza che ebbe, nei primi decenni del Novecento, il dilagare della psicanalisi nella reinterpretazione dei classici del Quinto secolo ateniese, sui lettini dei professionisti come sui palchi dei teatri d’Occidente; ben si ricorda l’ardire a fare di ogni carattere un modello per interpretazioni utili a rapide diagnosi, dalla Medea eletta a simulacro della vendetta femminile sul maschio alla riduzione di complesse eredità culturali dentro schemi di pensiero borghesi.
E allora quando ci si trova davanti a una frontale trattazione dei tipi umani classici che non abbia pregiudizi ci si riscopre stupiti dalla potenza tellurica che, da sé, possono rivendicare i testi senza tempo. Ed è esattamente ciò che avviene di fronte all’Edipo Re diretto da Andrea De Rosa visto al Teatro Astra di Torino e ora previsto prima al Pompeii Theatrum Mundi 2024 (dal 4 al 6 luglio 2024) e poi, confidiamo, in una generosa tournée sui palchi italiani.
Perché questo allestimento, che si fa forte del rimpasto drammaturgico di un fuoriclasse come Fabrizio Sinisi, ha finalmente il coraggio di trattare la materia mitica e tragica con il rispetto e l’intelligenza che oggi meriterebbero. La riscrittura portata sul palco dal regista partenopeo che guida Teatro Piemonte Europa ha il pregio di ridurre la complessa trama dentro la forma dell’apologo didattico: il viaggio antieroico di Edipo dentro le proprie inconsapevoli colpe, dal parricidio all’incesto, il suo confronto solo narrato con la temibile Sfinge, il corpo-a-corpo con il proprio stolido limite umano, la sua tenera fragilità e la punibile hybris vengono riportati qui a un percorso di consapevolezza lirico e violento.
La scena, firmata dal glaciale e competente Daniele Spanò, è un cerchio di fari e schermi luminosi oppure diafani dove i volti che vi si affacciano– come vuole il claim della stagione 23/24 del TPE, “Cecità” – non hanno occhi e la cui sporcizia sollecita e risveglia lo sguardo miope del pubblico/polis. Qui si raccoglie un’azione essenziale, ordinata, aggraziata, estremamente organica al procedere netto degli episodi e degli stasimi sofoclei. Il canto disperato e rotondo del coro è tradotto in sofferenti melodie e salmi in lingua greca (a intonarli sono i volti obliqui e mai del tutto visibili di Francesca Cutolo e Francesca Della Monica, impastati nel suono acido curato da G.U.P. Alcaro).
Nell’interpretare il protagonista, Marco Foschi raccoglie nella spina dorsale, negli arti e nelle coloriture vocali la sofferenza necessaria a fare dell’attore la cassa di risonanza di un atavico dolore condiviso e piega il corpo (sempre teso) ai pesi di responsabilità del re, del figlio e del traditore; Fabio Pasquini è in grado di preparare il terreno al Creonte che poi condannerà Tebe alla maledizione dei Labdacidi, sotto la spinta irritante e però fondamentale della ridanciana Giocasta di Frédérique Loliée, severa e inconsapevole “Lady Macbeth” di questa tragedia che, allora, risulta rinnovata.
A fare da collante strutturale e concettuale sembra essere la scelta di dare all’interprete di Tiresia il compito di consegnare anche l’eredità narrativa di Apollo “l’oscuro” e dei messaggeri: si tratta di Roberto Latini, il cui “stravedere” (simile a quello del Cotrone dei pirandelliani Giganti della montagna, già da lui interpretato) diventa simbolo della verità che si confonde con l’immagine del vero. Nell’arabesco dell’orrida e galoppante confessione del messo, appare infatti la dicotomia irrisolta che ci consegna il dubbio d’esser stati testimoni di un evento solo immaginato, in molteplice foggia, da ciascuno di noi. De Rosa lascia poi la fantasmatica presenza di Latini felicemente libera di creare, nel resoconto dell’accecamento di Edipo, un a solo che ha il sapore della pura negromanzia; in una corsa forsennata all’estasi narrativa – fatta di movimenti inconsulti e danze dinoccolate sciolte nella consueta e disarmante liquidità del registro vocale – sta in qualche modo la potenza stessa di questi racconti inesorabili. Aperta a tutte le modulazioni di senso e però sottoposta a una rigorosa disciplina scenica che conserva gli elementi essenziali di una trama inattaccabile, questa resa dell’eredità di Sofocle ci ricorda che i classici se ne stanno lì, saldi nel ricordare ad artisti o spettatori che l’umano si concentra e si sostanzia nell’eterna e irrisolta riscrittura di sé.
In un oceano di eccessive ed eccessivamente sbilenche appropriazioni contemporanee, questo terrigno ritorno all’essenza ci rammenta come la nostra cultura possa e debba ancora reagire a brevi e acuti accenni d’ingegno. La condensazione della trama e una luminosa gestione dei tempi della rappresentazione e dei gradi della temperatura emotiva possono davvero farsi carico (didattico ed etico) della misura del nostro essere astanti e interpreti d’una visione antica dell’umano che ancora ci appartiene. L’Edipo Re diretto da Andrea De Rosa ci dice che, nell’orizzonte immaginifico del teatro di parola che riesce a intercettare la vitalità del corpo scenico, è sufficiente un reclamo di coscienza intellettuale e di trasporto emotivo per accendere – attraverso la nuda insistenza di un testo tradotto con passione e di una visione registica netta ed elegante – una disposizione d’attenzione al presente che, con il carico di responsabilità necessario, dovremmo dirci pronti a interpretare.
Sergio Lo Gatto
Teatro Astra Torino, Marzo 2024
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
costumi realizzati presso Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
allieva attrice Maria Trenta
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
con il patrocinio di Consolato generale della Repubblica Ellenica in Torino