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 | Cordelia | maggio 2024 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di maggio 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#BOLOGNA

SBUCCI (Gli Omini)

Come arriva la rabbia? Nasce con noi o appare a un certo punto? Come riesce a prendere il sopravvento su tutto il resto? Che cos’è una macchina della gioia? “Sbucci” non è un’indagine sull’uomo, né la sua caricatura; gli sbucci sono le prime ferite, quelle da cui ognuno di noi si è rialzato, chi piangendo, chi con fierezza, orgoglioso di portare addosso, su gomiti e ginocchia, i segni delle prime battaglie. Sono stati gli sbucci a dare l’incipit alla nostra strategia di sopravvivenza. La compagnia pistoiese, che con questo spettacolo chiude la stagione Agorà 23-24, ha scelto di ripartire dall’infanzia attivando una serie di laboratori nelle scuole elementari e chiacchierando con i bambini e le bambine per calarsi, di nuovo, nei loro panni. Facendo un balzo all’indietro verso l’infanzia, proseguendo a ritroso fino ai primi atterraggi sui ginocchi, Gli Omini restituiscono un’immagine limpidissima del pensiero “bambino” che ci descrive – noi, tutte le generazioni precedenti – con disincanto, senza retorica. Questi esseri umani, che noi percepiamo senza futuro, si confrontano sulla scena con dei robot di cartone, scatole magiche e aliene, che producono per lo più interrogativi sulla specie umana ma che, con inaspettata empatia, rispondono ai desideri dei piccoli offrendo loro la possibilità concreta di veder realizzate aspettative e immaginazioni. Così dalla bocca di un grande Bobi – robot gigante che domina la scena – vengono fuori personaggi come la “Mama” cioè la versione femminile del Papa, o una grande e sguaiata cicogna con la sindrome di Peter Pan. Bobi non giudica mai, guarda con curiosità allo srotolarsi di emozioni contrastanti dei bambini e delle bambine; su tutte la più importante pare proprio la rabbia, quella che a un certo punto della vita arriva e fatica ad andare via. Ma anche la perplessità rispetto alla vita degli adulti. Sbucci è un palcoscenico per la prossima generazione, è un vastissimo mondo dei sogni e delle paure in cui possiamo specchiarci, è l’antologia dei sentimenti che abbiamo provato e ci fanno sentire tanto lontani dai piccoli che hanno il potere di farci ritornare, finalmente, vulnerabili. (Silvia Maiuri)

Visto alla Sala Giulietta Masina di San Giorgio di Piano (BO)– Crediti: Una produzione de Gli Omini con il sostegno di Teatro Metastasiodrammaturgia Giulia Zacchini con Francesco Rotelli e Luca Zacchini

#SOLOMEO

ERETICI. IL FUOCO DEGLI SPIRITI (di Matthias Martelli)

«Eresia» significa, in senso etimologico, «scelta». È attorno al principio di autodeterminazione, dunque, che si gioca la partita di Matthias Martelli, di nuovo alle prese con la lezione di Dario Fo, con quella «letteratura corporea» che si radica nella tradizione giullaresca del Medioevo. Stavolta è accompagnato, sulla scena sgombra, da tre donne (Laura Capretti, Flavia Chiacchella e Roberta Penta), cantanti a cappella ma anche interpreti, persuasive nella loro adesione appassionata alla medesima idea di corporeità: leggibile, scandita e profonda. La scelta di lavorare sulle eversioni – sulla fiamma che ha agitato, in tutte le epoche, gli «spiriti liberi», da Galileo Galilei a Julian Assange – mostra, proprio per la sua trasversalità, una premessa un po’ sacramentale e un po’ didattica, un proposito di reductio ad unum toccante ma sospetto. Ci troviamo di fronte a un’eredità, quella di Fo, e a una “militanza”: entrambe tentano di smarcarsi dai rischi inscritti nei presupposti (anacronismo, ingenuità, andamento esplicativo) attraverso il primato del corpo, la sua “smisuratezza” e la sua sintesi. A correggere la retorica impura della verità (oggi che anche la possibilità di sedersi dalla parte del torto appare integrata all’egemonia mediatica, e dunque parte del torto stesso) interviene la verità del corpo. È ancora il corpo, luogo delle istanze incarnate (nell’accezione di mutate in carne), e del «gestuare», che si fa portatore dell’eresia, della supremazia della scelta. Il corpo dipinto (per Paolo Veronese, Michelangelo, Caravaggio), il corpo nella sua rivendicata possibilità sensoriale (l’occhio di Galileo che fissa la teoria eliocentrica), il corpo magniloquente e quello profanato, il corpo “cassa armonica” dell’oggettività o della denuncia (la lingua di Giordano Bruno, il polpastrello di Assange). Oltre i pericoli della generalizzazione (tanto della figura del martire, quanto di quella dell’aguzzino), permane un sentire che appare innocente – la platea estasiata valga qui come metafora – tanto ampio da essere ormai, per paradosso, pacificato. Dunque ora siamo davvero capaci di applaudire gli eretici? E, se sì, vale per tutti o soltanto per quelli “canonizzati”, dalla storia o dalla cronaca? Sediamo ormai tutti dalla parte del torto, commossi, a distanza di sicurezza. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Cucinelli, Solomeo – Crediti: di e con Matthias Martelli; e con Laura Capretti, Flavia Chiacchella, Roberta Penta; regia Matthias Martelli;

#CATANIA

IL QUARANTOTTO (regia Laura Sicignano)

Una grande giostra: la macchina scenica diretta da Laura Sicignano per Il Quarantotto, da Gli di zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, è un enorme carillon che domina l'intera Sala Futura dello Stabile di Catania. Lungo questo prisma rotante (di Elio Di Franco) si svolgono i tempi e i luoghi di una rivoluzione affatto rivoluzionaria le cui fasi, comprese tra i moti liberali e l'annessione all'Italia, sono un grande mascheramento che si cela e si rivela. I tre interpreti (Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino – Vucciria Teatro) si scambiano costantemente abiti (di Vincenzo La Mendola) e ruoli: tra loro si instaura un grande gioco delle parti dove il ricorso a segni minimi e riconoscibili determina l'avvicendarsi di personaggi e situazioni. Nobili, popolani, borghesi e in genere arrivisti rincorrono l'affermazione di sé tra pareti rotanti, inarrestabili nonostante la stasi domini di fondo lo svolgimento degli eventi. I protagonisti sono ridotti a burattini, pupi manipolati dall'interno da attori e attrice a ritmo serrato ma fluido, in cui movimenti di scena e incalzare dell'intrigo si incuneano l'uno nell'altro senza cedimenti. La storia torna sempre su stessa, in circolo, destinata a un eterno ritorno; il baratto di indumenti e casacche scorre sui corpi di interpreti sottoposti a incarnazioni sempre nuove e vecchie. Era facile scadere nel macchiettismo, ma il pericolo è stato sventato da una parodia ben calibrata; al contempo, le musiche di Puccio Castrogiovanni, eseguite sul palco, imprimono al dramma un sapore consapevolmente tradizionale e non folkloristico. Sicignano entra nel testo sciasciano con lodevole asciuttezza, isolandone l'ossatura narrativa senza scadere nell'usuale retorica insulare. Piuttosto, inserisce il fatto letterario in un discorso teatrale aggiornato, fruibile e contemporaneo, sostenuto da una compagnia appassionata e affiatata. Sono questi gli spettacoli di cui auspichiamo un'adeguata circuitazione anzitutto in Sicilia, dove spesso la cultura siciliana è poco più che un polveroso fossile auto-elogiativo. Ma che si vorrebbe elogiare, di grazia? (Tiziana Bonsignore)

Visto in Sala Futura, Teatro Stabile di Catania. Crediti: tratto da Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, regia Laura Sicignano, con Joele Anastasi Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino, musiche Puccio Castrogiovanni, scene Elio Di Franco, costumi Vincenzo La Mendola, produzione Teatro Stabile di Catania

#PRATO

IL RIFORMATORE DEL MONDO (di Thomas Bernhard, regia Leonardo Capuano)

Un testo, anche un grande testo, non esiste se non in scena. E per questo ci vogliono gli attori, meglio quando sono grandi attori. Anche se il testo è Il riformatore del mondo di Thomas Bernhard. Perché senza la fragile, puerile tracotanza di Leonardo Capuano, qui anche regista, o la minuta cura dai gesti antichi di Renata Palminiello, di un’intensità scultorea, quel testo non sarebbe stato lo stesso, sarebbe rimasto pagina appena detta, non vissuta appieno come invece quella sera al Teatro Fabbricone. L’uomo entra nel buio, la sua veste bianca è bagnata di luce (da Gianni Staropoli) mentre dondola come un acrobata sugli anelli; ma se questo è un prologo, nella vicenda sconta un’immobilità, o almeno così sembra pur dando l’impressione che non muoversi sia una scelta, o un vezzo, più che una necessità; è lui il Riformatore che presto, quella stessa sera, riceverà il maggior onore: la laurea honoris causa, merito del suo magnifico testo, appunto, per riformare il mondo. La donna è serva e amante, mai moglie, il suo corpo sembra non essere corpo ma si muove con una qualità da strip comica, tratteggia la scena avvicinando lati e angoli con le sue azioni, gestisce la relazione del Riformatore con lo spazio intorno – tre cassapanche perimetrali sotto i grossi finestroni, un lampadario antico appeso in alto, una poltrona enorme e un’altra, piccola – dà l’impressione di seguire le sue indicazioni e invece le determina con una sapienza che appare svagata ma non è. Il legame tra i due, molto simile a quello che Samuel Beckett definì tra Ham e Clov nel suo Finale di partita, ha un presente ma, allo stesso tempo, ha un evidente passato: c’è un’usata consuetudine tra i due, si nota dai gesti semplici con cui lei si tocca l’abito, con cui porta degli oggetti in scena, si nota dalla dolce canaglieria in cui lui scioglie la sua apparente misantropia. “Chi soffre non è tenuto a rispettare l’etichetta”, dirà questo re di un regno perduto, diseredato in un tempo precedente, che ha bisogno, per sopravvivere, che il suo regno sia narrato, signore di un dolore mascherato. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Thomas Bernhard; traduzione Roberto Menin; regia Leonardo Capuano; con Leonardo Capuano, Renata Palminiello; con le voci di Andrea Bartolomeo, Andrea Macaluso e Mariano Nieddu; aiuto regia Andrea Bartolomeo; assistente ai movimenti di scena Paola Corsi; sound designer Francesco Giubasso; scene e costumi Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano e Renata Palminiello; light designer Gianni Staropoli

#MILANO

THE CONFESSIONS (di Alexander Zeldin)

Poteva non essere Milano, da sempre Porta Europa, ad ospitare al Piccolo Teatro le maggiori proposte internazionali? Non c’è voluto molto, per creare con Presente Indicativo qualcosa di ricco eppure agile, che somigliasse a una festa estiva balneare con musica, cocktail e sdraio colorate di fronte all’ingresso del Teatro Strehler o dello Studio, dove tra gli altri abbiamo visto Pascal Rambert e Mariano Pensotti, Caroline Guiela Nguyen e Tiago Rodrigues o Łukasz Twarkowski, insieme agli italiani Marco D’Agostin, Fanny&Alexander, Davide Carnevali. Tra questi, il britannico Alexander Zeldin ha portato a Milano The Confessions, viaggio a ritroso nella storia di una donna, Alice, nata in Australia e giunta poi in Europa attraverso passaggi di stato e imprevisti, come tutti. Ecco, “come tutti” è proprio il punto: Zeldin, come già in Love e Faith, Hope And Charity, spinge ancora il tasto della rappresentazione collettiva attraverso l’ordinario, il consueto. Alice – Amelda Brown delimita anche la narrazione del racconto sulla scena – è un’attivista, il suo corredo esistenziale si è arricchito via via di esperienze alimentate dai cambiamenti epocali culturali, ne ha vissuto i benefici e anche gli effetti negativi, drammatici. Sullo sfondo della guerra del Vietnam, di rapporti familiari sfilacciati, delle lotte per i diritti femminili contro la repressione di aspirazioni e desideri, Alice è una donna che sempre ha saputo ricreare con errori e impegno l’habitat adatto alla vita, la propria e quella degli altri, ha saputo farsi carico anche del dolore di uno stupro per trasformarlo in altra vita. La struttura scenica, in cui attori straordinari si prendono il tempo del teatro, è un interno casalingo, ma il contesto familiare da un’epoca all’altra muta, lo spazio accoglie le trasformazioni della società e dunque degli individui che lo abitano, finché la storia di Alice ricorre in tante donne che possono riconoscere in lei i segni di una vittoriosa emancipazione, affondando nel reale perché sia esso il terreno fertile ove possa crescere il seme della nuova realtà. (Simone Nebbia)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: testo e regia Alexander Zeldin; con Amelda Brown, Kate Duchêne, Jerry Killick, Lilit Lesser, Brian Lipson, Hannah Morrish, Gabrielle Scawthorn, Jacob Warner, Yasser Zadeh; scene e costumi Marg Horwell; coreografia e cura dei movimenti Imogen Knight; luci Paule Constable; musiche Yannis Philippakis; suoni Josh Anio Grigg; direttore del casting Jacob Sparrow; dramaturg Faye Merralls, Sasha Milavic Davies; Ph Alípio Padilha

#GORIZIA

LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (di Joseph Roth, regia Giacomo Pedini)

Nella koinè transfrontaliera inaugurata da Mittelfest nel 1991 arriva come anteprima all'edizione 2024 la regia del direttore artistico Giacomo Pedini, che discute l’identità meticcia di questo festival. Ne La cripta dei cappuccini (1938) il cantore della Mitteleuropa Joseph Roth tenta una summa del transito dalla vecchia alla nuova Europa: il disgregarsi dell’Impero Austro-Ungarico, il sanguinoso strisciare nelle trincee della Grande guerra, fino all’Anschluss, atto finale delle glorie asburgiche e fondazione del nuovo disastro che avrebbe riorganizzato il mondo. A portarne il peso, come epico testimone, è Trotta, umili origini nobilitate da un atto d’onore, interpretato da un malinconico Natalino Balasso. Come un corpo astrale attraversa il vissuto e insieme lo commenta infilando in tasca le mani, con voce piccola che mastica l'amaro. La scena è una fatiscente giostra che, girando, mostra i set d’ambientazione; la pigra velocità di rotazione fa da contrappunto alle scene: in quasi quattro ore di spettacolo il ritmo non subisce quasi variazione; il mondo pare incastrato tra passato e futuro, in un affresco estremamente terreo dove si muovono personaggi colorati dai costumi d’epoca e da una recitazione oleografica non sempre semplice da condurre e sostenere. Al monito furioso di Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità (1922) Roth preferisce la forma del requiem: la guerra è una tempesta osservata da lontano e da cui si è al sicuro, non foss’altro perché si è già morti dentro. Ma vi assistiamo con occhi e orecchie di oggi, foderati di narrazioni inattendibili che ci scagliano via dall'evento. Si avverte certo la celebrazione di microstoria locale (lo spettacolo è sostenuto anche da Gorizia/Nova Gorica 2025) e però anche la perizia con cui Pedini affonda in un immaginario che gli è caro, restituendo, in una resa a tratti statica, il ragionamento sulla letale letargia della Storia specchiandolo in quello odierno, tra terremoti internazionali e speranze nella “certa idea d’Europa” steineriana, alla vigilia del nuovo Parlamento. (Sergio Lo Gatto)

Visto a Teatro Verdi Gorizia. Crediti: traduzione Laura Terreni; adattamento Giacomo Pedini e Jacopo Giacomoni; regia Giacomo Pedini; dramaturg Jacopo Giacomoni; musiche Cristian Carrara eseguite da FVG Orchestra; scene Alice Vanini; costumi Gianluca Sbicca e Francesca Novati; luci Stefano Laudato; suono Corrado Cristina; con Natalino Balasso; e con (in o.a.) Nicola Bortolotti, Primož Ekart, Francesco Migliaccio, Ivana Monti, Alberto Pirazzini, Camilla Semino Favro, Giovanni Battista Storti, Simone Tangolo, Matilde Vigna;

#NAPOLI

IL CASO JEKYLL (di Sergio Rubini)

È nota la vicenda che compone Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, racconto di Robert Louis Stevenson che anticipava di poco un tetro Novecento: Jekyll, dottore onesto, ben inserito nella comunità, sperimentando su di sé l’alterazione di una pozione fa emergere il suo doppio, Mr Hyde, diverso sia nell’aspetto – erano gli anni in cui Lombroso teorizzava i propri studi – sia nei comportamenti, responsabili di ripetute azioni omicide. La vicenda, che presto diventerà d’uso comune nell’evidenziare la doppiezza dell’animo umano, arriva con Il caso Jekyll al Teatro Bellini di Napoli, per la regia di Sergio Rubini. La scena è un edificio che fa da interno e da esterno, sfruttando al meglio i livelli rialzati e la velatura delle vetrate, con una porta al centro, che creano i diversi piani di visione; l’ambientazione d’epoca emerge dai costumi e da un certo cupo utilizzo delle luci. In tale contesto Rubini, anche tra gli interpreti e al contempo narratore con leggio a corredo delle scene, fa emergere l’intenzione di lavorare sul risvolto psicanalitico, anticipando il discorso che sarà di Freud o Jung; eppure la messa in scena è ben lontana da una simile profondità: i pur bravi attori (tra i quali l’ottimo Daniele Russo che interpreta entrambi i protagonisti, con la parrucca o senza) sono al servizio di una regia didascalica che fa apparire l’ombra quando si pronuncia ombra, che fa cigolare e sbattere una porta quando si parla, appunto, di una porta, e così via. A non convincere è dunque proprio l’impianto ideologico dello spettacolo che brutalizza, banalizza l’archetipo del doppio, la coesistenza tra bene e male, tra attrazione e repulsione dell’una per l’altra, la compresenza di angeli e demoni condensati nell’animo segreto degli umani. Di tanto non resta che la reazione retrodatata a qualche episodio di bullismo represso e l’idea di far paura alzando il volume al massimo, sparando le luci in faccia al pubblico, usando un linguaggio improvvisamente turpe, incongruo all’epoca in questione, isterizzando qualche vocetta e facendo balbettare un po’ le vittime. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Bellini. Crediti: tratto da Robert Louis Stevenson; adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini; regia Sergio Rubini; con Sergio Rubini e Daniele Russo; e con Geno Diana, Roberto Salemi, Angelo Zampieri, Alessia Santalucia; scene Gregorio Botta; scenografa assistente Lucia Imperato; costumi Chiara Aversano; disegno luci Salvatore Palladino; progetto sonoro Alessio Foglia; produzione Fondazione Teatro Di Napoli - Teatro Bellini, Marche Teatro, Teatro Stabile di Bolzano

#LASPEZIA

TUTTA LA VITA DAVANTI 2024

C’è un festival che dallo scorso anno tenta di farsi luogo di ascolto per la generazione dei venti/trentenni: con la cura artistica di Alice Sinigaglia tutta la vita davanti, prodotto a La Spezia dagli Scarti, si fa comunità per dare un’occhiata  dell’arte e per condividere, palcoscenici, platee, musica, chiacchiere e un tavolo da ping pong. Anche quest'anno una tavola rotonda è stata il baricentro dei due giorni in cui giovani artiste e artisti critici e critiche, operatrici e operatori hanno interloquito rispondendo anche alle riflessioni di qualche quarantenne. Dopo il dibattito dello scorso anno sulle questioni politiche e materiali il nodo si è spostato sulla poetica. Gran parte degli artisti intervenuti convergono sulla mancanza di necessità  nel categorizzare il proprio lavoro, nel definirlo rispetto al passato, è una generazione che non ha bisogno di creare strappi, di uccidere padri o madri, maestri o maestre. Sono autrici e autori che tengono in gran considerazione il pubblico, forse talvolta hanno troppa paura di perderlo, non si sentono avanguardia, non parlano di esplorazione radicale dei linguaggi, ma surfano tra il post drammatico, la stand-up comedy, la performance urbana, i linguaggi del video e della multimedialità, la musica dal vivo, la poesia e la narrazione, il teatro di figura. Non sono l’ennesima new wave, non stilano manifesti ma tessono alleanze. Di alcuni degli spettacoli visti avevamo già scritto, è il caso di Suck My Iperuranio di Giovanni Onorato e Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso del Gruppo della Creta, gli altri li attraversiamo ora per la prima volta. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero

SWAN (di Gaetano Palermo)

A Venezia, dove la performance di Gaetano Palermo ha debuttato nel 2023, prodotta attraverso il bando della Biennale dedicato alle opere site specific, gli sguardi erano anche dei turisti, dei cittadini; a La Spezia invece c’è l’incontro di almeno due comunità, quella del festival (composta dal pubblico, dai professionisti, dalle artisti e dagli artisti) e quella composta da qualche famiglia, donne, probabilmente bengalesi con i propri figli che giocano. Qualcuno si affaccia anche dalle case che circondano il campetto rosso di Fossitermi. Una giovane donna (Rita di Leo) si sistema i pattini, l’abbigliamento e le cuffie, su una panchina, ancora nessuno si accorge di lei, poi si alza e comincia a danzare percorrendo lo spazio del campetto rosso. La performer stringe tra le mani uno smartphone con il proprio cavalletto, talvolta lo sistema a terra e si lascia riprendere mentre esegue i suoi volteggi. Immaginiamo che la sua possa essere una performance live, per un pubblico altro, quello dei suoi follower, oppure un lavoro ossessivo per avere i migliori frammenti da montare in un video pensato per tik tok. Palermo ha strutturato l'opera e a partire dall’assolo La morte del cigno che Michel Fokine coreografò per Anna Pavlova nel 1901. Il cigno d’altronde è una trasformazione dell’umano e anche qui è presente un’interferenza nella realtà: la pattinatrice ha un viso strano, come fosse una pelle più spessa del normale, forse una maschera, si comprende meglio quando si avvicina al pubblico. Da un certo momento in poi la danza verrà interrotta dal suono improvviso degli spari. La pattinatrice/cigno ogni volta cade, poi si rialza, lentamente il ventre si insanguina, ogni volta alcuni dei bambini stringono le mani alle orecchie. Assistiamo inermi, mentre il sound di Luca Gallio avvolge lo spazio di ulteriore inquietudine e non basterà lo svelamento, attraverso la rimozione della maschera e della parrucca, mentre echeggia la celebre hit pop, a salvarci da quel senso di fallimento e di colpa, la colpa di essere solo spettatori. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Di Gaetano Palermo con Rita Di Leo sound design Luca Gallio direzione tecnica Luca Gallio assistenza e cura Michele Petrosino organizzazione e distribuzione Arianna Di Bello amministrazione KLm – Kinkaleri, Le Supplici, mk prosthetics Crea Fx produzione La Biennale di Venezia con il supporto di Casa della cultura Italo Calvino, H(ABITA)T – Rete di Spazi per la Danza, Associazione QB Quanto Basta progetto vincitore di Biennale College Teatro – Performance Site-Specific e di Danza Urbana XL

PERSONNE. CHRONIQUES D’UNE JEUNESSE (di Ugo Fiore e Livia Rossi)

C’è uno spazio bianco, pulitissimo e asettico, sulla parte di sinistra, in profondità è seduto in terra, sul bianco linoleum Ugo Fiore, autore e interprete di questo spettacolo vincitore della scorsa edizione di Forever Young, il concorso indetto dalla Corte Ospitale per accompagnare la produzione di nuove opere. Sulla sinistra, più vicina al pubblico Federica Furlani suona il theremin e creerà le atmosfere sonore di una fiaba per adulti in cui lentamente l’oscurità si mangerà anche il bianco della scena, anche il sorriso un po’ obliquo del protagonista. Ugo Fiore è un artista italo francese trentatreenne che insieme a Livia Rossi ha tratto dalla propria esperienza un dramma autobiografico ambientato nell’infanzia francese, tra le anguste stanze della casa familiare. Sul fondale le immagini della vecchia casa vengono montate con la prospettiva e il ritmo di una soggettiva animalesca, quella del ratto. D’altronde la narrazione si apre con frammenti di filastrocche, un po’ in italiano e un po’ in francese e poi con una variazione del classico C’era una volta, che qui diventa immagine suggestiva e inquietante: «Tanto tempo fa, quando i mostri esistevano solo nelle storie, nella periferia di una grande città, in Francia, c’era una bellissima casa. La mia.Il portone di quella casa somigliava al portone di un carcere. Era una frontiera, che divideva due mondi.». La prima persona di Fiore procede come un una torcia accesa in un passato oscuro, lentamente e con la gravità sospesa di qualcosa che sta per accadere, che deve accadere:  i giochi con il fratello, un vicino di casa immaginato come uno stregone e poi quel bagno del parco che ogni tanto torna, come frammento di un’immagine più inquietante che verrà dissotterrata successivamente, dopo anni, in un racconto al padre (il testo è bellissimo anche solo da leggere). E poi quel finale in cui viene raccontato l’incontro di questo bambino di 11 anni con un adulto e il sesso: il bambino non tenta di scappare, è affascinato, suggestionato, manipolato e forse solo l’adultità gli darà coscienza della violenza subita.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. di Ugo Fiore e Livia Rossi drammaturgia Livia Rossi con Ugo Fiore e Federica Furlani progetto sonoro Federica Furlani disegno luci Giulia Pastore consulenza alle scene Paolo Di Benedetto scene realizzate da Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa produzione La Corte Ospitale co-produzione Proxima Res con il sostegno di MiC e Regione Emilia-Romagna Spettacolo vincitore Forever Young 2021/2022 – La Corte Ospitale

CIAK SI GIRA, LA VITA È UNA TORTURA (di C. Rossi, E. Rosselli)

Gruppo Uror, ovvero Caterina Rossi ed Evelina Rosselli, avrebbero dovuto portare a La Spezia il loro bellissimo Rosso visto a Contemporaneo Futuro, ma a causa dell'indisponibilità di un’attrice (Rebecca Sisti, impegnata in un’altra tournée) hanno rilanciato con una nuova proposta: uno spettacolo più piccolo per mezzi e lunghezza, che dispiega una tavolozza di colori, segni e temi apparentemente lontana da quella riscrittura dark della favola di Charles Perrault. Le due autrici e performer qui allestiscono la rappresentazione di una trasmissione podcast che è sia parodia di un certo mondo radiofonico sia demenziale accoglienza di alcune contraddizioni del nostro presente. In scena due sedie, un tavolino con mixer e strumentistica per musica ed effetti pronti all’uso, dietro di loro campeggia la scritta un po' pacchiana e illuminata Good Vibes. “Ciak si gira vita è una tortura”, canta allegramente il jingle perfettamente intonato dalle due. Il tema è quello del disagio, della sofferenza e attraverso un ribaltamento comico le due conduttrici sorridono alle torture a cui le nostre vite sono sottoposte quotidianamente. Non manca l'invenzione di una pubblicità, che altro non può essere se non l’ennesimo ritrovato farmacologico per perdere peso. Come ogni trasmissione radiofonica che si rispetti c’è anche lo spazio per alcune ospiti: l’esperta di amori catastrofici che risponde alle telefonate di cuori torturati e solitudini eterne sempre con lo stesso consiglio, quello sostanzialmente di preferire un cane a una relazione umana; c’è una mental coach, dallo spiccato accento americano, che insegna la cattiveria gratuita per liberarsi dallo stress. Si ride, con intelligenza, una punta di cinismo e si rimane anche affascinati dalla presenza scenica, anche solo se seduta, di queste due artiste, per il loro trasformismo, per i loro talenti così limpidi e per quella capacità di incarnare l'artigianato del teatro di figura, tra maschere e pupazzi, antichi eppure modernissimi.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Intervento ironico registico di gruppo UROR con Caterina Rossi, Evelina Rosselli ( gruppo UROR ) realizzazione maschere e marionette Caterina Rossi con il sostegno di PAV

#ROMA

LO SCIAME (regia di Dario Costa)

Spin Time si conferma una casa, in tutte le più nobili e pratiche accezioni. È una casa per oltre 150 famiglie, per i migranti che necessitano di supporto e orientamento, per i collettivi e le assemblee, per le comunità artistiche giovani o meno giovani che hanno bisogno di spazio e, dopo le prove, di “provare” lo spettacolo davanti al pubblico. Così è stato per il nuovo progetto di Dario Costa, Lo sciame, basato sul testo originale di Aurora Di Gioia, dal sottotitolo storia di un fallimento. Sembra di stare in una scatola: una bici fissata alla parete, ai lati armadietti e panche di uno spogliatoio, davanti una tv a tubo catodico, in alto uno schermo su cui verrà proiettato il testo, che leggeremo nella sua forma “da pagina”, privo dell’interpretazione umorale istintiva dell’attrice e dell’attore, che invece ascolteremo. Elena (Giorgia Narcisi) è una ciclista perché il padre è stato solo un «prosciuttaro» romano con la passione per le due ruote, Antonio (Andrea Zatti) è il suo coach, sognava di essere il nuovo eroe del ciclismo e invece è rimasto solo un gregario. A questo nucleo, si aggiunge una drammaturgia sonora ottundente – di sciami, appunto, che come fastidiosi ricordi interferiscono nei dialoghi, e del voice over della telecronaca che proviene dalla tv – una drammaturgia visiva, con proiezioni di paesaggi, spot pubblicitari e un video emotional finale, e diremmo anche una drammaturgia fisica gestuale fatta di continui cambi di costumi e scarpe, forse troppi, e merendine scartate e ingurgitate. Serve indubbiamente una limatura di tutti questi elementi, un ritmo più sostenuto che rispetti la concitazione della corsa, e anche un maggior rigore nel portare la voce, a volte è troppo bassa e si perdono gli scambi di battute. C’è però una reagente grana emotiva nei due personaggi, la quale, se alleggerita dalla drammaturgia scenica, può guadagnare in nettezza e trasparenza facendo risaltare quegli accenni, ancora basilari e ancora poco consapevoli, di “epica ciclistica”.

Visto a Spin Time: Regia Dario Costa, Testo Aurora Di Gioia, Con Giorgia Narcisi e Andrea Zatti. Una coproduzione Spin Time. Foto di Enrico Giansanti

LA SPEDIZIONE PERDUTA (di e con Alessia Giovanna Mastriciano)

Partiamo dalla fine e non sarà uno spoiler: sono tutti morti i 129 membri della spedizione Franklin, per cui nel 1845 le navi della flotta britannica, Erebus e Terror, partirono per la prima esplorazione del passaggio a nord-ovest, rotta navale che collega gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso l'arcipelago canadese nel Mar Glaciale Artico. Sia la Erebus che la Terror rimasero bloccate nei ghiacci e i loro relitti sono stati ritrovati solo nel 2014 e 2016. L’autrice e attrice del monologo documentario, Alessia Giovanna Mastriciano, ci racconta a fine spettacolo che la curiosità le è nata leggendo un articolo in cui erano mostrate le foto delle mummie dissepolte e quasi intatte per via dell’ibernazione, immagini in rete ora oscurate per non urtare la sensibilità. Ma ciò non fa che aumentare la fascinazione per un fatto storico realmente accaduto che sembra nato però da un romanzo ottocentesco e che rappresenta quella sete di scoperta e sfida del pericolo incarnate dall’essere umano, quella condanna del fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, tema sul quale poggia infatti il testo originale dello spettacolo. Anche se programmato nei musei a fini didattici e divulgativi, lo spettacolo è più una traduzione simbolica del fatto storico - costruita per oggetti, una boule di vetro, un modellino di una nave, la sabbia, la pece – con finte testimonianze video del capitano e esploratori, perfette nei chiaro scuri aranciati a coprire i volti evidenziando i lineamenti e gesti. Le vicende storiche si diluiscono nella voce recitante di Mastriciano, un po’ naive nei toni ma tuttavia adatta nell’interpretare un testo costruito su una metrica poetica incantata, suggestiva nelle immagini evocate, nella descrizione dell’ambientazione, nell’interpretare i pensieri di questi uomini e i loro ricordi familiari, che si enunciano con stupore, paura e poi orrore, facendo emergere attraverso le parole l’horror vacui della solitudine (Lucia Medri).

Visto al Teatro Trastevere per Inventaria 2024: di e con Alessia Giovanna Matrisciano, musiche originali Marco Olivieri, videointerventi a cura di Luca Travaglini, in video Alessandro Giova, Dimitri D'Urbano, Michele Daini, Francesco Guglielmi, Giuseppe Mortelliti, Giacomo de Rose, Elena Contrino. Foto di Grazia Menna

UN HORROR DEDICATO A MAMMA E PAPÀ (di Niccolò Fettarappa)

«Mamma, siediti vicino a me, ho paura!». Il titolo non andrebbe preso alla lettera. Forse. «Ma non faceva paura», ha detto poi la piccola spettatrice con le codine. «A me sì», ha risposto la mamma tra i denti. La scrittura ormai riconoscibile di Niccolò Fettarappa nel suo tratto sagace e penetrante ripropone una altrettanto riconoscibile dinamica scenica che ha il suo vertice appuntito rivolto alla platea. La famiglia sembra essere una tappa inevitabile nel percorso drammaturgico di Fettarappa (o forse solo un lapsus?), non tanto per il carico tematico sempreverde, ma come specchio – sempre distorto e disturbante – di un discorso allargato a una generazione disgregata, ancorata a valori deformati, aggrappata a certezze insulse, smarrita. In quello che si presenta come primo studio “sulla nausea di nascere”, Lorenzo Guerrieri e Maria Anolfo sono mamma e papà di un figlio silente, spettatore pescato in platea e portato di peso sulla scena (Filippo Amatiste). Sono tre solitudini obbligate dal vincolo famigliare ad occuparsi dell’altro, attraversando le dinamiche spietate della crescita: i risultati scolastici, la competizione con i coetanei, le foto ricordo, le carriere supposte. Il dialogo è un perenne monologo, violento come solo gli affetti di sangue sanno essere, in un’altalena ossessiva che oscilla tra amarezza e tenerezza, spietatezza e umanità. Non c’è redenzione, non c’è una morale, non c’è speranza, non c’è il futuro: c’è l’esistere, un sadico gioco con la morte che è meglio imparare presto, tanto prima o poi tocca gestirlo. In un palleggio allucinato eppure consapevole, sotto gli occhi aperti e innocenti del figlio, Guerrieri e Anolfo rappresentano con efficacia l’involucro del ruolo genitoriale portato alle sue estreme conseguenze: un vestito che è d’obbligo indossare e che impone una serie di movenze, attitudini, posture. Pur indugiando a tratti nel suo stesso gioco, la scrittura si regge su ciò che nasconde, lasciando trapelare nonostante tutto un calore imperfetto, una flebile luce: una realtà disastrata, ma pur sempre, spietatamente umana. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Centrale Preneste nella rassegna YOU- The Young City – You under 35. Di Niccolò Fettarappa. Con Maria Anolfo, Lorenzo Guerrieri e la partecipazione speciale di Filippo Amatiste. Compagnia Bruttipensieri

GENERAZIONE PASOLINI (di Marta Bulgherini)

Pasolini è un’icona, Pasolini sui murales, Pasolini immagine. L’intellettuale nato a Bologna ma romano di vita rischia di essere una spilletta sul petto di chi bisogno di una citazione da sfoggiare. Da questo assunto parte lo spettacolo di Marta Bulgherini, Generazione Pasolini, uno dei più sinceri, strani e divertenti che mi sia capitato di vedere sul grande artista e che ha una sola pecca: la cornice surreale, che gioca con la platea sul tema del viaggio/spettacolo e di cui non c'è alcun bisogno. L’incipit è un continuo sberleffo: Bulgherini è da sola sul proscenio, con il sipario chiuso e ripercorre la proteiformità del genio pasoliniano:scrittore, poeta, drammaturgo, regista, pittore… la prima poesia a sette anni, il primo testo teatrale a sedici. «Pasolini è troppo per noi umani», esclama Bulgherini con la sua recitazione molto fisica, volutamente enfatica. Il registro è ampio, dalla battuta irriverente: «Pasolini è un accollo», alla citazione colta, come quando viene scomodato proprio uno dei massimi appassionati conoscitori di Pasolini, lo scrittore Walter Siti. La nostra società manca di complessità, ecco la difficoltà nel comprendere il pensiero pasoliniano. Quando il sipario del Teatro Vittoria si apre l’attrice dovrà scontrarsi con Petrolio (chi lo acquista lo fa per metterlo in bella mostra, per poi rendersi conto che è troppo difficile da leggere), con la poesia (bollata come noiosa) e poi con lo stesso intellettuale, che appare come una sorta di fantasma, interpretato da Nicolas Zappa. Qui la questione si fa più seria e il pretesto teatrale serve a sviscerare la critica alla società dei consumi e il concetto di omologazione. Bulgherini insomma con questo spettacolo che comincia come controcanto corrosivo si fa mediatrice di quel pensiero troppo complesso e soprattutto trova un modo per metterlo in dialogo con con la nostra società, anzi con la sua generazione, quella dei trentenni; senza però scomodare facili o improbabili parallelismi. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Vittoria. Credits: Drammaturgia e regia Marta Bulgherini con Marta Bulgherini e Nicolas Zappa produzione Attori & Tecnici. Spettacolo vincitore del concorso Salviamo i talenti 2023<

TCHAÏKA (di Natacha Belova e Tita Iacobelli)

A volte capita di vedere dei piccoli capolavori ma come li spieghi? Come li racconti? Perché ti dispiace, da critico, che i lettori non siano stati lì, non abbiano potuto fare il viaggio insieme. Poi tu trovi alcune parole, ma non è lo stesso. Questa sensazione mi ha trascinato via dal Teatro India dopo aver visto Tchaïka, il piccolo Gabbiano cechoviano di Natacha Belova e Tita Iacobelli che, sulla scena, ne guida movimenti e voce. Perché questo gabbiano è un burattino a misura d’uomo, no, di donna, precisamente un’attrice in là con gli anni ma non con l’età – lo so, sembra un gioco di parole, ma come la raccontereste un’attrice che all’ultima recita della sua vita vuole fare Nina e non Arkadina? Si sente giovane, l’arte le permette di considerarsi tale. In cuore, che è come dire nella memoria, le restano i personaggi di ogni recita, è stata mille volte madre e non ha mai avuto figli, è stata colpevole anche da innocente, la magia di stare in abiti di vite altrui, che solo il teatro sa restituire, esiste in lei come una particolare forma d’arte che riguarda la sua vita, non solo il suo mestiere. Tchaïka è al passo finale, l’addio alle scene, ma sarà poi vero? Non sta recitando anche il ruolo dell’attrice all’ultimo ruolo? Il dubbio si scioglie nella magia, la neve che dall’alto bagna il capo di Tchaïka sconvolge da fuori una scena d’interni ma, allo stesso tempo, quel clima sembra l’unico possibile in un salotto coperto di teli, sopra mobili in disuso che qualcuno, prima o poi, porterà via. È, quel salotto, la stessa attrice? Non lo sappiamo, ma nel dubbio i teli lei li tira via, non si sa mai che sia dimenticata. Nel salotto appaiono via via gli oggetti, saranno i personaggi di un Gabbiano tutto nella sua memoria; un po’ ha dimenticato le battute, un po’ fa finta di averle perse perché le fanno male, dicono cose che non vuole escano dalla sua bocca. Un peluche è Kostya, un libro è Trigorin, Nina beh, Nina è un gabbiano lo sanno tutti, sul greto di un lago dove si specchia il suo dolore… un lago? E come lo metti in un salotto un lago? (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Credits: di Natacha Belova e Tita Iacobelli; con Tita Iacobelli; scenografia Natacha Belova; luci Gabriela González, Christian Halkin; musica Simón González dalla canzone La pobre gaviota di Rafael Hernández; in consolle Gauthier Poirier; produzione Ifo Asbl

AMAE (di Eliana Stragapede, Borna Babić)

Poche decine di minuti segnano la durata di questo passo a due, ma densissimi per tecnica e disegno coreografico, Amae è il primo spettacolo dell’edizione 2024 di Futuro Festival, manifestazione dedicata alla danza e alle arti performative (a cui da quest'anno si aggiungono le incursioni nelle arti visive a Palazzo Merulana). Diretto da Alessia Gatta ha il proprio centro nevralgico nei rigogliosi giardini  del parco del Teatro Brancaccio. Qui è stato montato un piccolo tendone con una platea che circonda quasi interamente lo spazio scenico, fuori gli spazi di un bar rendono sociale l’esperienza tra uno spettacolo e l’altro. In Amae c’è qualcosa che ha a che fare con la sparizione, con l’abbandono, l’abdicazione e la resa. C’è un corpo femminile, che tra le braccia di un uomo non ha peso, anzi è come se subisse un processo di liquefazione. La coppia di artisti è formata da una danzatrice italiana, Eliana Stragapede, che si è formata a Rotterdam e ora vive a Bruxelles, collaboratrice tra l’altro di Peeping Tom e dal danzatore croato Borna Babić (tra gli artisti della Ultima Vez / Wim Vandekeybus company), con questa performance hanno vinto la Copenhagen International Choreography Competition. L’idea è quella di riflettere sul concetto di co-dipendenza nelle relazioni umane e alla base dell’ideazione vi è però anche un’influenza nipponica, il libro L'anatomia della dipendenza dello psicoanalista giapponese Takeo Doi. E il titolo rimanda infatti alla parola giapponese Amae (甘え?), è un concetto che ha anche fare con la capacità di indurre gli altri a prendersi cura di noi. Il corpo della giovane donna  prima viene sollevato, dalle braccia, dai fianchi e poi perde peso improvvisamente, come a rendere inutile lo sforzo di cura ricevuto. Babić ha una presa forte ma gentile, di chi fa di tutto per rianimare un corpo che vuole solo sparire: lo svuotamento è anche mentale, di chi si è arreso. Ci sarà il tempo per il distacco, ma i due corpi in lontananza manifesteranno malessere, la fluidità si trasformerà in gesti spezzati e improvvisi. Cosa siamo senza gli altri? (Andrea Pocosgnich)

Visto a Brancaccino Open Air / Chapiteau, Futuro festival regia + coreografia Eliana Stragapede + Borna Babić |Drammaturgia Margherita Scalise | Composizione musicale Nenad Kovačić | Voce Teresa Campos | Musiche originali Nicholas Britell | Audio editing Giuseppe Santoro | Interpreti Eliana Stragapede + Borna Babić | Disegno luci Benjamin Verbrugge | Costumi Nina Lopez-Le Galliard | Una co-produzione VGC Brussels, Culture Moves Europe (European Union and Goethe Institut), L'OBRADOR Espai de Creació, Roxy Ulm and TanzLabor Ulm | Contributi fotografici David Kalwar

RIDICOLA (di Annamaria Troisi)

Accovacciata sul tavolo, in bocca le parole di Alda Merini, Mistica d’amore, un’ode per chi soffre, per «coloro che non sanno gridare/ perché nessuno li ascolta», prima che la luce si spenga risucchiando nel buio questa figura e la sua disperata umanità. Ma oltre a Merini nella drammaturgia di Annamaria Troisi si insinuano anche Erich Fried, C.S. Lewi e Fëdor Dostoevskij che con Il sogno di un uomo ridicolo fa da scintilla proprio alla creazione di Ridicola, spettacolo vincitore della passata edizione della rassegna Over ideata dal Teatro Argot. E proprio nello spazio di via Natale del Grande abbiamo visto il monologo prima che questo possa debuttare tra qualche giorno al Torino Fringe Festival: la prossimità con l’interprete e autrice permette al pubblico quell’esperienza di verità aumentata possibile solo quando di fronte a noi si svela la creazione vivida di un personaggio in cui possiamo credere. Annamaria Troisi questo personaggio lo fa nascere nel buio: leggings neri e ciabatte rosa, racconta di essere incinta ma non c’è nessuna pancia finta, solo un largo pile colorato e poi la lingua napoletana, di tenera o tagliente ironia. È la storia di una prostituta, tra la vita e la morte, con un sogno di mezzo (ecco Dostoevski) e una pistola che sparerà due volte, ma il centro propulsore non sta tanto nella trama, ma nella capacità portentosa di questa attrice di farsi cassa di risonanza di una sofferenza universale. Lo fa prima attraverso un dispositivo molto classico, quello del dialogo con personaggi assenti, invisibili al pubblico ma presenti e veri nei suoi occhi, per poi rompere questa relazione imbracciando un microfono nelle parti più liriche. Qui la vicenda si fa rarefatta, i suoi contorni lattiginosi, forse poco si capirà del bambino e del rapporto tra sogno e realtà, ma lo sguardo è rivolto agli altri, a coloro che giudicano e tutto logorano: «Divennero insensibili e indifferenti pure alle stelle del cielo che prima tanto li commuovevano». (Andrea Pocosgnich)

Visto a Teatro Argot di e con Annamaria Troisi progetto sonoro DANIVA assistente alla regia Sara Consoli produzione AMA Factory spettacolo vincitore OVER – Emergenze Teatrali 2023

#NAPOLI

GLI ABITANTI (di Alessio Forgione, regia Arturo Cirillo)

Alessio Forgione si confronta per la prima volta col teatro, e il suo Gli abitanti chiude la stagione al Ridotto del Mercadante con la regia di Arturo Cirillo. Con la ricerca di una drammaturgia consuntiva, tenta un teatro in cui la vita stessa, di carne vera che già esiste lontano dallo sguardo del pubblico, si potenzia nel poetico. Questa carne è di quattro brillanti attori, Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito, che con estrema generosità e bellezza si sono prestati a un’esperienze che lascia perplessi: sembravano tutti completamente soli e mossi da qualcosa di inspiegabile, nonostante la presenza di una regia sapiente e di mestiere che ha saputo fare di un solo fascio di luce lo strumento della costruzione di uno spazio fisico dello spirito. In un buio pesante, emergono delle vite che portano con sé quelle che vorrebbero restituire le essenze di Napoli, le complessità di una città costantemente prossima a cedere sotto potenze distruttive, le complessità del contatto promiscuo di classi distanti. Si tenta una strana forma di tradizione, che fallisce. Ingenito, il cui personaggio è provvisto di maggiore spessore rispetto agli altri, è un uomo involgarito dalla solitudine alla ricerca del suo gatto: la sua è una maschera kitsch di vocazione moscatiana. Carpino e Dell’Aglio sono una coppia borghese di annoiati, mediocri e deviati. Vicorito è una figura quasi cristologica, forse di un sottoproletariato pragmatico e vigoroso. Tutto qui. La vita non esiste in questa storia di maschere anche troppo stereotipate e vecchie. Lo sforzo abile degli attori è ostacolato da una scrittura che si rifugia con leggerezza nel grottesco e nel ridicolo, che non sa dosare le emotività e si limita alla superficie delle cose. Ogni personaggio è inquadrato e limitato in uno sketch che si ripete in maniera estenuante, senza che mai questo reiterarsi produca completezza. Loro sono e basta, senza motivo, senza Napoli, senza Storia, senza niente. (Valentina V. Mancini)

Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti: Di Alessio Forgione; Regia Arturo Cirillo; Con Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito; Costumi Anna Verde; Regista assistente Roberto Capasso; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale;

#GENOVA

IL VIAGGIO DI VICTOR (di Nicolas Bedos, regia Davide Livermore)

Un uomo ha subito un trauma e ha perso la memoria. Ha avuto un incidente, ma non ricorda bene, forse non era solo. Una donna l’assiste, cerca di fargli mettere a fuoco i ricordi, ricomporre i frammenti della propria biografia. L’uomo si chiama Victor, vive nel Marais parigino, ha condotto un’esistenza appagante, ricca di frequentazioni, di relazioni con attrici famose, come gli viene raccontato dagli avventori del bar del quartiere. Traditore, misogino, forse persino omofobo – tutte spacconate da maschio etero che emergono, come aculei, nel suo racconto che sprofonda pian piano nel dolore – ha poi conosciuto una donna di cui si è realmente innamorato, con cui ha fatto un figlio. Marion è il nome di lei. Ma più si avvicina a questa figura e più il nucleo del dolore diventa rovente, tanto che – mentre il pubblico scopre che è proprio Marion la figura che Victor scambia per infermiera, e che il passeggero che era con lui nell’auto al momento dell’incidente è loro figlio – l’uomo continua a negare la verità, a trincerarsi ermeticamente in una realtà alternativa. Pur essendo nella sostanza un dramma borghese, Il viaggio di Victor di Nicolas Bedos si sviluppa narrativamente come un noir, come un sofisticato gioco di specchi infranti dove l’“assassinio” non riguarda un uomo, ma le dinamiche stesse di una possibile felicità, e dove investigatore e investigato finiscono fatalmente per coincidere. Un dialogo che, nella versione di Davide Livermore, è affidato quasi interamente alla relazione tra gli attori in scena, Linda Gennari e Antonio Zavatteri, dalla recitazione livida, in equilibrio costante tra rabbia e pathos; ma che trova poi un’esplosione tridimensionale nella scenografia video (disegnata dallo stesso Livermore e da Lorenzo Russo Rainaldi) che plasma visivamente l’incidente, la caduta, l’abisso, la quiete – i vari stadi del viaggio di Victor. Una storia – tradotta da Monica Capuani – che sembra disegnare un dolore senza via d’uscita dove i frammenti della relazione amorosa, sparsi qua e là come le schegge di vetro dell’incidente, segnano una flebile, ma presente, possibilità di speranza. (Graziano Graziani)

Visto al Teatro gustavo Modena. Teatro Nazionale di Genova. Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale Traduzione Monica Capuani Regia Davide Livermore Interpreti Linda Gennari e Antonio Zavatteri Diego Cerami in video Abiti Giorgio Armani Scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi Disegno sonoro Edoardo Ambrosio Luci Aldo Mantovani Video maker D-Wok Regista assistente Carlo Sciaccaluga Assistente alla regia Milo PrunottobCast tecnico direttrice di scena Lorenza Gioberti capo macchinista Raffaele Giacobino capo elettricista Federico Calzini fonico Edoardo Ambrosio

#MILANO

LE MIE TRE SORELLE (di Ashkan Khatibi)

Sono 147 i pallini che abitano il corpo di Sadaf Baghbani. Sono 147 i colpi che ne hanno invaso con violenza la carne, sparati dalla milizia iraniana durante una manifestazione di protesta contro il governo. Nell’impossibilità di ricevere soccorso e medicazioni, Sadaf Baghbani continua a portarli con sé anche dopo la fuga dal Paese, cicatrici disseminate che raccontano di lei, della sua storia, del suo sopruso, di ciò che non può più essere taciuto. E non tace Ashkan Khatibi, regista e scrittore esule come lei costretto alla fuga, alla migrazione, che di quella storia decide di prendersi cura. Sadaf così salirà sul palco del Teatro Franco Parenti, le vedremo tremare le gambe e luccicare gli occhi di un’intensità lunare, eco di un dolore senza fondo. Accanto a lei vedremo poi comparire come in un sogno lontano le due sorelle minori rimaste in Iran, interpretate in scena da Nazanin Aban e Saba Poori, spiriti forti e dolci al tempo stesso che recitano in italiano, ma affondano le radici della propria rabbia anche in assoli rap in persiano (diventato per i giovani iraniani la lingua della rivolta). Un telo bianco si srotolerà su di loro come una coperta che ne avvicina distanze e dolori e i dialoghi – in un intreccio linguistico di farsi e italiano che attinge dalla materia pulsante della vita – le caleranno all’interno di un liquido amniotico condiviso. Tutto sembra tornare agli anni in cui si dormiva assieme, in cui la sera si aspettava che le luci si spegnessero per parlare dei propri desideri, delle proprie paure. Ora il bianco del telo e dei vestiti si tinge di rosso, sono le impronte dello scontro, della fuga necessaria. “A Roma, a Roma!”, ritornello di cechoviana memoria (“A Mosca, a Mosca”) e riferimento culturale in cui Khatibi vuole immergere la pièce mutandone la prospettiva, diviene un sogno che si infrange, appiglio letterario per cercare un nuovo orizzonte di speranza. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: regia e sceneggiatura Ashkan Khatibi, con Sadaf Baghbani, Saba Poori, Nazanin Aban, Taher Nikkhah, cantante Sahba Khalili Amiri, costumi Delshad Marsous, scenografia Taher Nikkhah, assistenti di scena Alma, Ava, Tina Karam Zadeh, assistenti alla regia Michele Marelli, Ghazal Shamlou, Arash Shojaei, Tina Karam Zadeh, traduzione dal persiano Michele Marelli, produzione Teatro Franco Parenti

DURANTE (di Pascal Rambert)

Negli episodi della trilogia di Pascal Rambert sulla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (qui l'intervista) c’è sempre il lento delinearsi di un altrove, di un’apertura che si nasconde sul fondo, verso tutto ciò che è altro dal teatro, dal palco, dalla scena. Dopo l’opera Prima, nel secondo capitolo intitolato Durante, questo “altrove” sembra squarciare il dispositivo teatrale, perché prende con prepotenza il sopravvento, come un’esplosione sonora e visiva che divampa a tutti gli effetti sul palco del Piccolo Teatro. E l’esplosione è motore di avvio della trama, allude a quell’incidente d’auto in cui la compagnia teatrale si trova coinvolta e di cui il regista, con particolare sguardo indagatorio, cerca di recuperarne le tracce agendo sulla memoria e sui pensieri degli attori. Per farlo, Rambert fa sì che in scena passato-presente-futuro dei personaggi - attraverso il loro sdoppiamento con gli allievi della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo - si incontrino, in un continuo flusso di scambi, di relazioni e dialoghi che costruiscono un palco abitato da presenze fantasmali (tra cui la rimembranza di un lontano Arlecchino), avvolte da luci ora bianche ora stereoscopiche, curate da Yves Godin. “Che cosa vedi?”, chiede uno degli attori alla compagna, “Fiumi di cose che non riesco a distinguere…la tua voce non è la tua voce…tu mi senti? Tu mi ami?”. In un limbo che non è già morte ma non è neppure più vita, queste presenze sembrano muoversi senza meta né fissa dimora sul palco, come burattini di uno spettacolo mai davvero cominciato, privi di quel carattere identitario e passionale evocato in Prima, anzi più fragili, forse anche più vuoti. Di essi rimangono solo le sagome e i contorni proiettati su di un telo, in una sorta di teatro delle ombre cinesi; un tableau vivant in cui i confini si confondono fino a sparire, in cui regna forse più la fascinazione retorica della riflessione metateatrale, più l’estetica della stessa vita. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: testo e regia Pascal Rambert, traduzione Chiara Elefante, scene Pascal Rambert e Anaïs Romand, costumi Anaïs Romand, luci Yves Godin, musiche Alexandre Meyer, assistente alla regia Virginia Landi, con (in ordine alfabetico) Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi , e con gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa Miruna Cuc, Cecilia Fabris, Pasquale, Montemurro, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, e con Ludovica Bersani, Giorgio Saglimbeni/Filippo Boncinelli, Amelia Varretta, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in coproduzione con structure production e Compagnia Lombardi-Tiezzi. Ph Masiar Pasquali

BRONX GOTHIC (di Okwui Okpokwasili)

«Isn’t necessarily a black play, it’s purely a relationship between these two women», così sul The Guardian. Bronx Gothic è una performance in assolo, scritta e interpretata da Okwui Okpokwasili nel 2014 (oggi anche documentario), ora ripresa in scena da una incredibile interprete, Wanjiru Kamuyu. Vista al Festival FOG della Triennale di Milano, è la storia di come due vite contrastano in una: evoca ricordi difficili dell’infanzia, spesso di natura biografia; la perdita dell’innocenza nel racconto di personaggi che sono però inventati. Attorno a pareti bianche circondate a terra da lampade riverse fra cocci e terriccio, una figura di spalle accoglie il pubblico in un nervoso e inquieto twerking, un prolungato tremore che si espande progressivamente come un terremoto capace di mandare in pezzi il corpo: pancia, dita, piedi, occhi e bocca. Respiro affannato e sudore: è tutto quanto sappiamo nei primi trenta minuti di questa performance. Un corpo si disfa, e finalmente si libera al racconto, alla spiegazione, ora necessaria. Segue la lettura ‘a due voci’ di appunti raccolti a terra, scambiati tra due giovanissime ragazze, appena adolescenti. Sono lettere (da qui il titolo: l’epistolario è genere letterario di molti romanzi gotici) esplicite, cupe, raccontano di corpi iniziati alla sessualità con violenza e predazione, degli apprezzamenti non richiesti, delle aggressioni verbali razziste (Okpokwasili, figlia di immigrati nigeriani, è cresciuta nel Bronx), e dei tentativi di dare senso all’orrore per restare a occhi aperti, per tenere in piedi il proprio mondo. Il corpo in scena di Wanjiru Kamuyu, gli occhi fissati sul pubblico in una denuncia uno-ad-uno, in fondo racconta dell’età dell’abisso che attende la crescita di queste due donne in corpi neri. Con una grande fiducia però nella forza delle parole, come una possibile catarsi del mondo interiore attraverso la scrittura. La cui retorica comunque non può che essere di grande pretesa emotiva, come una ricaduta che esige, e quasi pretende a forza, nel cambio di narrazione, empatia e visibilità. (Stefano Tomassini)

Visto alla Triennale di Milano, scrittura e performance originale: Okwui Okpokwasili, regia, scenografie e light design: Peter Born, interpretato da: Wanjiru Kamuyu, canzoni originali: Okwui Okpokwasili con musica di Peter Born e Okwui Okpokwasili, produzione: Sweat Variant.

#VICENZA

DUET BEHAVIOR (Meredith Monk e John Hollenbeck)

Travolta, e fortemente impressionata, per una accoglienza quasi da stadio, Meredith Monk ha inaugurato la programmazione del 77° Ciclo di Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. Quest’anno affidata alla cura sapiente (e piena di vere promesse) di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. La rassegna parte già benissimo: sembra un concerto sperimentale e interdisciplinare per ascoltatori esclusivi, eppure c’è un pieno di pubblico in attesa, in ascolto, preparatissimo. L’offerta dunque ha chiamato una risposta capace di intercettare una obliqua vitalità. L’ottantenne performer americana duetta in scena con l’amico di vecchia data, il polistrumentista John Hollenbeck, che ha pure un suo breve momento solistico (Click Song #1), ma che più in generale le fa da contrappunto gentile, in un duetto di buone maniere e di empatia tra voce e percussioni che è già anche una lezione etica. E di gioco (uno dei bis si chiude su un’irresistibile gag fra i due). La playlist è più che varia e copre quasi 50 anni di lavori, lo spirito della ricerca vocale è intatto, i suoni sempre ben piazzati con una ancora davvero impressionante gestione del fiato. La ricchezza della tecnica estesa di Monk proviene da una esplorazione che in lei è ormai uno stato dell’essere: perché conoscenza e tecnica sono solo i mezzi per raggiungere il suono autentico che è in ognuno. Pochi i gesti, bambolistici se non proprio marionettistici, sempre a sostegno di una performance contenuta e minimale. Confesso questa non essere la prima volta che assisto a un suo concerto. Eppure questa è stata la più intensa, e memorabile: questione di privilegio. Per esempio, Madwoman’s Vision (da Book of the Days del 1988), eseguita da Monk al pianoforte, è perfettamente intatta nella sua forza ipnotica, anche se la grana della voce a tratti resta come ossidata, opaca, in una dimensione felice della maturità di certo non meno trascendentale: un ammaccato fulgore nell’ora più recente della sua luminosa vita canora. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Olimpico di Vicenza Meredith Monk & John Hollenbeck "Duet Behavior 2024" 77° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, Meredith Monk (voce, pianoforte, arpa ebraica), John Hollenbeck (percussioni)

RUA DA SAUDADE (coreografia di Adriano Bolognino)

La riflessione di Adriano Bolognino sul sentimento affermativo della nostalgia per eccellenza più indefinibile e inappropriabile, è una composizione fatta tutta a contrasto. In Rua da Saudade visto tra il molto pubblico della sala grande del Comunale di Vicenza (così si sostengono i giovani artisti!), l’idea funziona benissimo: perché per il coreografo campano non si tratta tanto di un sentimento, ma invece di un improvviso momentaneo abisso, come l’inciampo in una caduta, l’ossessiva ripetizione in un gesto di scaramanzia, l’immobilità in uno stupore che resiste, l’anticipazione apotropaica nel nero, tutto per scongiurare il buio. La ricerca di una difficilissima armonia. Espressamente ispirato alla «poetica di Fernando Pessoa e la sua grande creazione estetica: l’invenzione degli eteronimi» (non personaggi ma parti di personalità, segmenti di soggettività inesplosi), qui Bolognino dimostra una maturità piena di curiosità e di sapienza, in cerca di libertà. Quattro danzatrici di diverso-colore-vestite: Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, dànno così vita ad altrettante forme dell’inquietudine in traccia del proprio fantasma. Se la maggior parte dei pezzi musicali sono lirici, anche di un minimalismo gentile, fino al Satie più riconoscibile e d’atmosfera, la danza all’opposto è invece costruita per schemi, ed è prevalentemente geometrica, la gestica quasi sempre scattosa a volte pure rigida, con il baricentro basso in un andirivieni di veloci ripartenze (che piacerebbero senz’altro ad Arrigo Sacchi). Il disegno luci azzeccatissimo è di Gianni Straropoli: non le avverti, tutto sembra immobile sotto una luce quadrata che invece detta le situazioni proprio solo quando serve. Vi è anche una lunga parte in silenzio, che è una difficile eppure necessaria, tensiva transizione: il desiderio che si fa largo tra le tenebre. Bolognino ha una incredibile capacità di invenzione, con una decisa preferenza per ben orchestrati assieme, un sincrono ossessivo che è collante ma al momento giusto spezzato in singolarità quasi sempre danzate però tra mille spigoli, e mille pieghe. Figure della mente di una vita in potenza. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza, coreografia Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, luci Gianni Staropoli, costumi Tns Brand, dramaturg Gregor Acuña-Pohl, testi a cura di Rosa Coppola, produzione Torinodanza Festival/Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione I Teatri Reggio Emilia\Festival Aperto, Orsolina28, Cornelia.

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