Al Festival Danza in Rete di Vicenza una programmazione che privilegia soprattutto la danza italiana, fa scoprire la complessità di processi creativi e pluralità di identità che finalmente testimoniano un cambio generazionale in atto.
C’è scritto: «Ricorrente il tema dell’assenza», ma i due performer (Emma Zani e Roberto Doveri) sono sempre presenti, in una frontale sincronia ossessiva, come fra le sbracciate in apnea di un nuoto sincronizzato. C’è scritto che tali corpi «ingessati» sono «“forme scultoree”», ma è invece tutto una gestica visiva mai immobile, un mirroring stipato e didattico, un ‘copiare dal vero’ da istituto d’arte. C’è scritto, addirittura, che si tratta «quasi di una contro-danza» che si rivela nella dissonanza: ma i movimenti non potrebbero essere più didascalici e corrispondenti, la musica (di Timoteo Carbone) minimale e ripetitiva: nessuna contrapposizione, mai, nessun contrasto, nessuna lotta coi fantasmi, nessun conflitto. Qualcosa allora mi sfugge in questi Fiori assenti di Yoy Performing Arts (che omaggiano l’«elemento scenico» in situ di Albano Morandi). Forse il programma scritto è un errore: l’atto maldestro di un descrittivo non aggiornato? Oppure, meglio, la mise en page di un depistamento, di una deriva situazionista che libera dal dispositivo del testo percepito come dispotico? Infine, meno preferibile, questo «progetto multidisciplinare», visto all’Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza per Danza in Rete Festival è l’epitome di un proposito senza traguardo, forse un compendio di convinzioni inesplose, la notifica di un agire crepuscolare nella mera trasparenza?
Resto nel dubbio, e corro sùbito allo Spazio AB23 perché la giornata è intensa, la programmazione incalza. Qui, ci aspetta già rannicchiata sul fondo candido di una parete, e il cappuccio calato, Chiara Ameglio. Imperturbabile e serafica nel suo nomadismo per variazioni del vuoto, dal titolo CHORA. Lo spazio tutto bianco gioca un ruolo facile, ma la performer resta sempre come a margine, in una partitura di movimento astratta e flemmatica (che non ha certo bisogno di dirsi «metafisica»), capace perciò di attesa, di risposta e di proposta di un’idea di incompiuto. Senza precipitazioni, però.
L’intensità astrale della presenza di Ameglio è efficace e ipnotica, perfettamente sincronizzata col nitore del circostante, ma chiede concentrazione come una forma di pratica (il mio vicino di posto, anche se poi nega, forse per un attimo si assopisce; la ragazza dietro quasi si strozza per un raspino in gola: è l’incontro del Reale espulso dal Simbolico? Un ritorno impossibile di piani che risvegliano il soggetto dalla vetrina del suo stato ordinario? Chissà: forse non può sfuggire alla presa totale dei significanti proprio il dressing code della performer, molto trendy, molto instagrammabile).
Direttamente sul Palco della Sala Maggiore ci aspetta, a fine giornata, un incredibile lavoro: Danse Macabre! Una coreografia dell’orrore di Jacopo Jenna. In scena un sorprendente quartetto di interpreti (Ramona Caia, Andrea Dionisi, Francesco Ferrari e Sara Sguotti) che danzano tra citazioni testuali proiettate in uno strepitoso bombardamento di lettering neoespressionista, frammenti di assoli danzati doppiati dal vivo, gesti catturati e riprodotti da un’ampia gamma di fonti e citazioni (dai residui pantomimici del balletto ottocentesco a quelli della Neutanz tedesca fino al più recente voguing), materiali visivi passati in mezzitoni (per potenziarne l’effetto filtro) inseguiti insieme all’artista Roberto Fassone e le musiche elettroniche «ai limiti», di Alberto Ricca – Bienoise (che sul suo sito web, di sé precisa caustico: «Non è un dj»).
Se il tema è quello soprattutto iconografico della danza dei morti, in scena è tutto un gioco di sparizioni di presenza, frammentazioni anatomiche, diradazioni spettrali. E di sovrapposizione addirittura «di un film [di Agnès Varda?] come terzo elemento della costruzione scenica». Senza contare un prolungato (tamarro assai) momento laser di luce che disfa e ripiega lo spazio in architetture dell’inerte. E una linea frontale di zombie che inscenano la morte in corpi espressamente ispirati a Der Tod di Valeska Gert (1929). È quindi, quello proposto da Jenna allo spettatore, un continuo salto di specie (alla Spillover del biologo David Quammen, per intenderci: meccanismo nel quale un organismo si trasferisce o si trova casualmente in un ambiente alieno). E c’è molto da riflettere grazie a tanta ricchezza di segni, grazie a una decisa richiesta di considerare la morte come un fantasma oppresso che rivendica la sua forza vivente. C’è da riflettere soprattutto sulla realtà della sparizione come condizione del suo comparire: è quanto accade in alcuni duetti live che a video sono assoli pieni di nostalgia e di mancanza. Un invito potente alle forze anche oscure ma sempre liberatrici dell’immaginazione, trascinati dall’inconscio là dove le cose «guardano a bocca aperta» (Avery Gordon). Al termine gli applausi, sono interminabili ma si vorrebbe finissero presto. Per rivedere tutto di nuovo, subito.
Stefano Tomassini