È uscito recentemente Teatro, una raccolta di testi di Lina Prosa, per i tipi di Cue Press. La silloge comprende lavori già rappresentati ma anche inediti. Un’intervista alla drammaturga, insignita, tra l’altro, di importanti premi nazionali e internazionali.
Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro Amazzone, a Palermo, dove si svolgono attività laboratoriali rivolte alle donne vittime di tumore al seno. A partire dall’uscita della sua ultima raccolta, abbiamo fatto il punto su come il presente, «tempo alla deriva», possa entrare nel teatro, risignificandolo.
Cominciamo dalla tua nuova pubblicazione, e dai testi che la costituiscono.
Ci sono nove testi all’interno del libro, che io ho suddiviso in due parti complementari: “testi” e “sottotesti”. I primi sono legati alla città, i secondi alla campagna. I testi hanno un rapporto con il paesaggio più maturo e strutturato. Sono anche più conosciuti: ad esempio La carcassa è stato allo Stabile di Catania, mentre Ingrid e Lothar è stato rappresentato al Teatro Due di Parma. I sottotesti invece conservano ancora un’immaturità, una sincerità, un senso di malinconia, che sono quelli dell’autore nel rapporto con la parola. Si presentano come un sottotesto dell’anima. Ci sono dei segreti, in questi lavori, legati più alla mia vita che al teatro. Uno rimanda alla morte di mia madre, per dire. Un altro sottotesto riguarda il mio rapporto con l’Africa, la mia esperienza in quel continente fino alla pandemia – per la quale sono dovuta tornare perché si chiudevano le frontiere. Ho vissuto profondamente questa separazione, questo desiderio di essere in un mondo a cui guardavo da lontano. Tutto ciò rientrava e rientra ancora nel progetto che porto avanti: lavorare sulla distanza e sull’avvicinamento, questione che nella drammaturgia classica è presente ad esempio nella vicenda di Elettra e Oreste. La scrittura mi consente di attraversare territori e spazi che la realtà, quella in cui viviamo ogni giorno, non mi consente di attraversare. È come se le parole avessero le gambe e mi portassero a vedere le giostre, a salire su un cavallo: tutto può indurti a guardare con stupore al mondo. La scrittura vive, vive insieme a me. Domani, un altro giorno, sarà un altro giorno della scrittura. È un aggiornamento dell’anima, quello che compio. Io davvero scrivo in maniera innocente. Ho messo insieme questi lavori perché volevo che avessero una vita in comune.
Mi sembra che questi tuoi lavori vogliano anzitutto colmare il senso di una mancanza, per mezzo della parola e del teatro.
Qui dobbiamo fare un passo indietro. Non solo quando scrivo, ma anche quando mi avvicino alla scena, lavoro moltissimo sul livello del laboratorio, dimensione che mi si confà di più. Il mio alter-ego è sempre l’attore, non è mai il regista. Quindi, per tornare al tuo discorso sul senso della mancanza, per me la scrittura è desiderio del corpo dell’attore, di una fisicità al di fuori di me. È la ricerca di un avvicinamento, un desiderio verso la storia – non la storia legata al mio testo, alla mia parola, ma la storia intesa come quella parte di me al di là di me. È tensione verso qualcosa che non esiste, che ancora non è là. E allora io intraprendo un viaggio per raggiungerlo. La parola, nel momento in cui si confronta con una diversa accezione dell’esistenza, cerca un appoggio fisico: per me quell’appoggio fisico è l’interprete. Non intendo tanto l’attore in scena, quanto la testimonianza palpabile di qualcosa che io, noi tutti viviamo come assenza. Sai, credo che in fondo il mistero della vita sia legato all’assenza. Ogni volta che facciamo teatro, ogni volta che scriviamo, noi cerchiamo di decostruirla, di compensarla, questa assenza. Per questo la scrittura deve creare una nuova visione del mondo, più che una realtà effettiva: un avamposto reale, fisico, dentro il mistero della nostra condizione.
In che modo la parola può addentrarsi, secondo quanto dici, nella realtà?
Ti faccio l’esempio del mio lavoro su Medea, non compreso nell’ultima raccolta: stavo iniziando questo progetto di ricerca in Francia, con un gruppo di attrici. Proprio il giorno in cui cominciamo, scoppia la guerra in Ucraina. E lì che fai? Il presente non può colpirti come un colpo di vento, che attraversandoti ti asciuga. Allora è chiaro che quella guerra è entrata subito nel testo, modificandolo, accogliendo il mio vissuto, la mia indignazione. Tutto diviene linguaggio poetico, ma prima c’è l’impatto con qualcosa che cambia completamente la tua visione e ti costringe ad attrezzarti di nuovo, a lottare. Per me un testo è sempre un’esperienza di rivolta. Certo la rivolta spesso è un’esperienza solitaria – mentre la rivoluzione è sempre collettiva – ma rimane comunque un atto di partecipazione al cambiamento. Quando scrivo metto in discussione anche la forma teatrale, il senso e la funzione del teatro, perché mettere in crisi il teatro significa mettere in crisi anche la società, la realtà. Per me il teatro non è solo pratica teatrale (qui è la lezione della drammaturgia greca che mi accompagna). Il teatro è il coraggio di poter guardare, così com’è nell’origine della parola – da theaomai, vedere. Guardare nel buio, nel conflitto che ci segue ovunque, è un atto in grado di cambiare la parola nel suo viaggio verso l’interpretazione. La scrittura, il teatro, non possono dare soluzioni, ma possono far aprire gli occhi, guardando fisso nel nodo conflittuale dell’esistenza. E quando dico esistenza, parlo anche della dimensione politica, della forma politica dell’esistenza. Dobbiamo essere fastidiosi: il teatro non può essere connivente. Per me, la scrittura deve essere un meccanismo di allerta sulla deriva in atto.
Penso alla Trilogia del Naufragio, dove presente e senso mitico si confondono in una nuova visione della realtà.
La Trilogia del naufragio è una grande macchina di allerta. Parliamo di persone distrutte da un viaggio disumano: è il grande tema su cui dovremmo tenere gli occhi aperti, perché lì si gioca la nostra facoltà di sentirci umani. Su questo si riversa non solo la mia sensibilità di autrice, ma anche di siciliana. Io come faccio a sentirmi umana quando so che delle persone si bruciano la pelle sui barconi, muoiono di inedia e la loro sepoltura consiste nell’essere buttati a mare dai propri cari? È lì che manca il rispetto dell’umanità, ed lì che dobbiamo lottare. Io posso farlo con le mie armi naturali, le parole. Ma ci sono associazioni, persone che fanno un grande lavoro. Che stanno in allerta, appunto. La migrazione è l’ultima occasione per recuperare la nostra umanità. Noi abbiamo perduto il valore mitico del viaggio: ci spostiamo per vacanza, turismo, lavoro. Così abbiamo smarrito l’ultima possibilità di scommettere su una vita diversa. Di andare oltre il confine, il limite. Noi non siamo più in grado di compiere un percorso rivoluzionario. Soltanto i migranti oggi ci danno l’esempio del viaggio come valore assoluto verso un cambiamento. Tutto ciò riporta al mito, ad Ulisse: c’è chi arriva a Itaca, c’è chi non arriverà mai. Per questo la parola deve muoversi, consentendoci di mettere in gioco facoltà che altrimenti sono negate: quelle dell’esplorazione di un altro territorio, non solo della realtà, ma anche dell’anima, della mente. Il teatro non va soltanto fatto, ma anche pensato, sentito, attraversato, viaggiato appunto. Non siamo fatti per essere residenziali, siamo fatti per essere nomadi. Abbiamo questa necessità di muoverci, di andare oltre.
In che modo queste tue concezioni si trasformano in prassi, al Centro Amazzone?
Il Centro Amazzone è un po’ il cuore di quello che ho detto. Il principio è quello di guardare a un’esperienza traumatica, se vuoi di frontiera (quella del tumore al seno) da un altro punto di vista. Al centro adottiamo un approccio multidisciplinare che unisce mito, scienza e teatro. Dal momento in cui il nostro lavoro si concentra sulla questione del corpo, il teatro ha nelle nostre attività un ruolo centrale. Noi spesso viviamo per categorie: ma in realtà per me tra il fare teatro e prendersi cura di qualcosa non c’è differenza. Non a caso a partire dalla pandemia, momento di rottura straordinario, si è parlato molto di “teatro come cura”. La cura non è solo una terapia medica, ma anche il sentimento integrale della tua persona. Anche, soprattutto nella condizione di crisi.
Tiziana Bonsignore