Recensione. La vita che ti diedi di Luigi Pirandello, con la regia di Stéphane Braunschweig e l’interpretazione di Daria Deflorian nel ruolo da protagonista. In cartellone fino al 28 aprile e poi in tournée a Pesaro e Bologna.
Un letto immerso nel buio, alla fine del tempo e dello spazio, una donna che rimuove le lenzuola e poi un giovane, a torso nudo, che appare dietro la donna, la abbraccia, la saluta ed esce prima che il buio prenda il sopravvento lasciando spazio poi agli applausi del Teatro Carignano di Torino.
La vita che ti diedi fu scritto da Luigi Pirandello per Eleonora Duse nel ‘23, ma la divina (di cui ricorre quest’anno il centenario dalla morte) chiese all’autore dei Sei personaggi di attendere, finché Pirandello andò in scena con l’interpretazione di Lida Borrelli, qualche mese prima che Eleonora Duse si spegnesse sola in una camera d’albergo di Pittsburgh.
La scena si apre in una casa nella campagna toscana, ma quella che per l’autore di Girgenti è una «stanza quasi nuda e fredda, di grigia pietra», nelle mani del regista francese Stéphane Braunschweig diventa uno spazio nero allestito nel proscenio, con un divanetto sulla sinistra. E solo successivamente si aprirà la vista alla scenografia imponente ma minimale: la grande camera del figlio di Donn’Anna, con il letto, lo scrittoio, l’armadio, due finestre strette e alte, tutto è pervaso da una certa elegante essenzialità di campagna, non sfuggono i dettagli classici dei decori del soffitto. È imprescindibile partire dalla visione spaziale per Braunschweig e qui determinare le precise relazioni tra le attrici, gli attori e lo spazio, in una ferrea connessione con il testo che non ammette errori o sostituzioni; il regista (direttore artistico dell’Odéon) d’altronde ha già un importante percorso nelle messinscene pirandelliane: Vestire gli ignudi, I Sei personaggi in cerca d’autore, I giganti della montana, Come tu mi vuoi.
Come Pirandello aveva scelto, pur senza soddisfazione, Eleonora Duse, Braunschweig ha scelto il corpo e la voce di Daria Deflorian. La sua è una madre razionale, mai sopraffatta dalla tragedia, una donna che cerca dentro di sé una via per placare il dolore della perdita di un figlio e una volta trovata cerca di applicarla al mondo che la circonda. Il pirandellismo delle maschere sociali qui si disintegra di fronte alla tragedia e la “maschera” di Donn’Anna è rigidissima e trasparente al contempo, perché tutti possono guardarci attraverso e trovare il dolore puro di una madre sola. Ragionatrice sublime, Deflorian scuote spesso la testa, come se la sua Anna Luna debba cercare di farsi spazio tra i pensieri, nella realtà che le crolla addosso, tra le macerie, deve, per istinto di sopravvivenza, ricostruire il mondo, che non esiste senza il figlio.
Il portato filosofico qui è tutt’altro che congegno retorico e cerebrale, è nella più profonda intimità sentimentale che il testo deve scavare la propria tragica poesia per parlare al presente dell’amato figlio: «Può esserci un corpo, starci davanti agli occhi, ed esser morto per quella vita che noi gli davamo. — Quei suoi occhi che si dilatavano di tanto in tanto come per un brio di luce improvviso che glieli faceva ridere limpidi e felici, egli li aveva perduti nella sua vita; ma in me, no: li ha sempre, quegli occhi, e gli ridono subito, limpidi e felici, se io lo chiamo e si volta, vivo!». Quel figlio deve continuare a vivere, nella realtà dei sentimenti e in quella del mondo: «Vuol dire che io ora non debbo più permettere che s’allontani da me, dov’ha la sua vita; e che altra vita si frapponga tra lui e me: questo sì! — Avrà la mia qua, nei miei occhi che lo vedono, sulle mie labbra che gli parlano; e posso anche fargliela vivere là, dove lui la vuole: non m’importa! senza darne più niente, più niente a me, se non me ne vuol dare: tutta, tutta per lui là, la mia vita […]», spiega Anna Luna.
Non ci sono altre soluzioni per Donn’Anna se non quella di recitare la parte della madre a cui il figlio non è mai morto, fino addirittura a terminare una lettera che il ragazzo stava scrivendo all’amante, la quale poi arriverà nella villa trafelata, credendo di trovare il suo amore e approdando invece solo a una stanza vuota, piena di fiori, vicino a quel letto sfatto dove il giovane era morto qualche ora prima. Come spesso accade in Pirandello la tragedia rischia di precipitare nel melodramma, ma sono brave le interpreti di questa piéce che ruota tutta attorno ai personaggi femminili (mentre in un’altra sala dello Stabile di Torino, Fonderie Limone, va in scena un altro archetipo tragico femminile, Medea di Euripide). Braunschweig ha cercato di staccarsi dall’atmosfera primo Novecento attraverso un uso dei costumi (forse non facilmente leggibile dal pubblico) in cui si mescolano le epoche, gli anni ‘20 per Donn’Anna e una modernità abbastanza indistinguibile per gli altri; e rinunciando alla scena iniziale in cui una schiera di prefiche piange il ragazzo morente fino all’ultimo respiro. Per salvare la pièce dal melodramma ad esempio è utilissima la performance di Cecilia Bertozzi nei panni Lucia, l’amante che lascerebbe la famiglia precedente per l’amore del figlio di Anna. È una donna moderna e volitiva, alla ricerca, finalmente, della propria libertà. E poi Federica Fracassi con il doppio ruolo di sorella della protagonista e di una madre (quella di Lucia, che verrà a risolvere la finzione) integerrima e altera. Fulvio Pepe tratteggia con grazia i ruoli del prete e del vecchio giardiniere, Enrica Origo è la nutrice, Caterina Tieghi e Fabrizio Costella sono i due figli della sorella di Anna, increduli addolorati per quello che sta accadendo, incarnano con la loro giovinezza, per contraltare, tutto ciò che Anna ha perso.
C’è nel finale una luce di speranza, prima che il buio inghiotta lo spazio lasciando emergere quel letto vuoto, è data dalla piccola alleanza che nasce tra Donn’Anna e Lucia (ben resa da Deflorian e Bertozzi), la giovane, prima di essere ammonita dalla madre, comprende il dolore e quella possibilità che da tutti gli altri viene vista come follia e che invece per loro due è l’unico modo per rimanere vive: pensarlo vivo.
Andrea Pocosgnich
Fino al 28 aprile al Teatro Carignano di Torino
Prossime date in calendario tournée:
Pesaro Teatro Rossini 2-5 maggio 2024
Bologna Teatro Arena del Sole 9-12 maggio 2024
LA VITA CHE TI DIEDI
di Luigi Pirandello
regia Stéphane Braunschweig
con Daria Deflorian, Federica Fracassi, Cecilia Bertozzi, Fulvio Pepe,
Enrica Origo, Caterina Tieghi, Fabrizio Costella
scene Stéphane Braunschweig in collaborazione con Lisetta Buccellato
costumi Lisetta Buccellato
luci Marion Hewlett
suono Filippo Conti
assistente regia Giulia Odetto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale