Arturo Cirillo, in tournée a Roma con Cyrano tratto da Rostand, è stato da poco nominato direttore della Scuola per Attori del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, per il prossimo triennio 2024/2027. Abbiamo parlato della sua idea di teatro e di formazione in questa intervista.
“Ti intenerisce la mia valigetta?”, chiede Arturo Cirillo accorgendosi che la guardo con interesse. E infatti c’è una piccola valigia, un po’ rovinata sia nel colore che nelle giunture, non si sa cosa contenga ma chi la osserva deve pensare per forza, inevitabilmente, alla valigia dell’attore. Attorno, poi, nel camerino dell’Ambra Jovinelli a Roma dove ci incontriamo, ci sono molti oggetti, alcuni libri o taccuini, un profumo pour homme che forse è il suo, forse è quello di Cyrano, chi lo sa; lui prende qualche appunto che resta sparso su dei foglietti che, dopo, certo finiranno insieme a quei libri adesso chiusi; tra le mani ha una matita speciale, con la testa – e il naso – di un Pinocchio di legno, come sempre, ma con un cuore di grafite.
Cosa ti ha spinto a lavorare proprio su Cyrano?
Questo spettacolo è nato perché qualche anno fa, durante il lockdown, ci fu una prima ripartenza ma non si capiva che futuro avesse il teatro. Così con la produzione decidemmo di fare delle tappe di avvicinamento per mettere in cantiere il nuovo spettacolo, però, dato il momento di incertezza e quindi con la possibilità che fosse per me come per tutti l’ultimo spettacolo, la scelta mi ha portato all’origine della mia passione teatrale: quando ero piccolo vivevo in una casa di Napoli che confinava con i camerini del Teatro Politeama, così una volta ci andai a vedere questo musical tratto proprio da Cyrano de Bergerac, con Domenico Modugno, Catherine Spaak e la regia di Gino Landi. Io non conoscevo nulla di tutto questo, ma ci andai per due volte di seguito e iniziai da quel momento a far crescere la passione che sarebbe diventata il mio percorso artistico. Tra molti spettacoli che vi hanno contribuito c’è stato di certo anche il Pinocchio di Carmelo Bene, fatto inizialmente con più attori negli anni Ottanta, con grandi maschere e pupazzi del bravissimo Tiziano Fario, che andava in scena negli enti lirici – infatti io lo vidi al San Carlo. Nel mio Cyrano dunque, bellissima opera di Rostand ma molto rappresentata e soprattutto ricca di intenti commerciali, fin dal testo iniziale scritto da Francesco Petruzzelli è invece molto presente la mia biografia, così come Pinocchio, non tanto quello di Collodi ma la versione in filastrocca di Gianni Rodari, mescolando sia la messa in scena di Bene che lo sceneggiato di Comencini per la TV, con anche molti riferimenti ai varietà televisivi di cui ero molto appassionato all’epoca. Insomma, Cyrano arricchito da questo gioco di citazioni incrociate è stato un ritorno alla giovinezza, sia anagrafica che artistica, come se fosse la mia madeleine teatrale.
Interessante il passaggio di Cyrano in Pinocchio – a parte l’ovvio riferimento del rapporto complesso con il proprio naso e con le bugie: entrambi sono accomunati da una possibile trasformazione, entrambi dovranno assorbire una nuova crescita all’interno delle proprie azioni successive. In questo lavoro emerge poi anche un forte legame con la musica. Come si relaziona alla storia, o alle storie, narrate?
Per quasi tutti i miei spettacoli ho lavorato con un compositore, Francesco De Melis, mentre in questa occasione avevo bisogno di qualcuno che fosse abituato a lavorare su delle cover, su dei riarrangiamenti, quindi ho chiamato Federico Odling e I Virtuosi di San Martino che attualizzano sotto forma di parodia certe canzoni dell’Ottocento napoletano, la sceneggiata e così via. Il riferimento principale è stato quel genio assoluto di Fiorenzo Carpi, che scrisse le musiche per lo sceneggiato di Comencini, e poi le canzoni di Domenico Modugno, cantate da attore, quasi un po’ recitate, perché mi interessava qui far emergere un certo teatro canzone. Ma è un rapporto, quello con la musica, che sta crescendo nel tempo, infatti come puoi vedere (indica dei libri sul tavolo nda) per l’anno prossimo vorrei confrontarmi direttamente con l’opera lirica e sto lavorando sul Don Giovanni non solo guardando a Molière, ma anche a Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart.
Cyrano è considerata una grande storia d’amore. Ma l’amore oggi, rispetto all’epoca del protagonista, ha mutato forma e risponde a parametri diversi. Come si relaziona il tuo Cyrano con l’amore di questo tempo?
Sono sempre più convinto che in realtà questo testo non celebri l’amore, ma che abbia un’idea dell’amore sempre illusoria, irrealizzabile. Da contemporaneo io sento due aspetti principali: da una parte Cyrano e Cristiano si mettono insieme e creano un falso profilo internet, costruiscono un avatar, qualcuno che non esiste; dall’altra parte regna in tutto il testo una grande insicurezza sentimentale, prima di tutto di Cyrano, il più insicuro di tutti, che vede prima di tutti gli altri grande il proprio naso e si nasconde in questo suo disagio. Ma l’insicurezza serpeggia più o meno in tutti i personaggi di questo ménage à trois, perché Cristiano, per quanto bello, si considera molto limitato sul piano culturale, immaginifico, ma anche Rossana è molto spaventata dal provare un sentimento reale, sincero, e quindi per farsi amare ha bisogno sempre di una ricerca formale, della scrittura poetica. Quindi questa storia ha molto a che vedere con il nostro tempo, sia per ciò che riguarda la realtà immaginaria, appunto i finti profili che raccontano ciò che vogliono raccontare, sia per questa solitudine sentimentale, che è soprattutto, ma non solo, delle nuove generazioni.
Parliamo anche di formazione: hai da poco ricevuto l’incarico di dirigere la Scuola per Attori del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, per il prossimo triennio 2024/2027. La novità che emerge dal nuovo corso è questa idea di creare una classe di regia e, nel merito, mi sorge una curiosità: questa è un’epoca in cui si sta ridiscutendo il significato e il ruolo del potere, delle figure apicali, che tuttavia – nonostante alcuni buoni esperimenti di organizzazione collettiva – rappresentano anche la struttura tradizionale delle compagnie teatrali, in cui il regista ha un ruolo chiave di ordine e decisione, di direzione del gruppo. Chi si avvia a diventare dunque, in questa epoca, il regista di teatro?
Io ho l’impressione che la regia critica sia meno dominante, rispetto certamente al tempo di Ronconi o di Franco Quadri. Sono pochi oggi i registi che svolgono quel tipo di lavoro, forse mi vengono in mente Latella, Lidi, Rifici, De Rosa e pochi altri. La mia idea di regista, che poi è anche la mia storia decennale, è più quella di capocomico, come per esempio Binasco, Dini e altri, che arriva alla regia dopo un percorso duraturo come attore – io stesso ho fatto una gavetta decennale in compagnia con Carlo Cecchi – che partiva da piccoli ruoli e via via giungeva ad avere personaggi sempre più consistenti. Dunque per me regia è principalmente lavoro con gli attori e sugli attori, poi certo c’è anche il lavoro iconografico, simbolico, ma resto convinto che in teatro l’attore sia la misura di tutte le cose, che veicola tutte le suggestioni, i pensieri del regista. Questa idea di regia rispetto alla scuola, specialmente in una città come Napoli che ha una tradizione complessa di scrittura, di messa in scena, di capocomicato, nasce proprio dallo stimolo di vedere allievi registi a contatto con allievi attori coetanei, attraversando la recitazione, così come il lavoro sul corpo spesso tralasciato, come chiave principale per mettere in scena degli spettacoli.
Nelle accademie, nelle scuole per gli attori, c’è raramente attenzione alle forme dialettali, mentre da bando si menziona la lingua napoletana come uno degli indirizzi da seguire. Quali differenti energie innesca la lingua teatrale dialettale rispetto all’italiano?
La scuola è stata fondata da Luca De Filippo proprio con l’idea di una scuola nazionale che però tenga conto di tutto un patrimonio, ma anche con i successivi direttori – tutti di area campana: Mariano Rigillo, Renato Carpentieri, ora io – è rimasta questa intenzione di base che vorrei spostare da un orizzonte locale, da un lato, ma che dall’altro vorrei confrontare con tutto un bagaglio culturale che la città rappresenta. Quindi nel bando è richiesto un pezzo in italiano, ma anche un pezzo in lingua tratto probabilmente da Eduardo De Filippo, anche perché io penso che permetta a un attore la possibilità di avere un rapporto più diretto tra la parola e il corpo, per capirne meglio i confini e la natura, e questo può riguardare tutti perché non per forza per fare dei testi napoletani servono attori napoletani, come poi in qualche modo rappresento io stesso – e infatti Franco Quadri mi definiva “un napoletano astratto” – che ho iniziato a parlare napoletano soltanto a teatro, mentre nella vita non lo usavo.
C’è un altro grande tema che riguarda la formazione, un argomento oggi molto forte come l’inclusione: in merito alle iscrizioni quale attenzione ha la scuola nei confronti delle differenze etniche, fisiche, di genere o culturali?
L’attenzione maggiore, rispetto all’inclusione, è stata data alle differenti formazioni culturali. Già nello statuto della scuola, quindi nei bandi precedenti, c’è questa specifica cura, io ho proprio previsto una quota di partecipanti che non sia in possesso della licenza liceale, mentre invece per le accademie è proprio impossibile, essendo poi equiparate a un percorso universitario, ma anche in altre scuole è un requisito che resta invalicabile. Essendo però la realtà napoletana più contraddittoria, più varia, anche sul piano delle diverse componenti sociali, ho pensato potesse essere interessante incontrare persone al di fuori di un percorso scolastico normale, che magari molto giovani hanno dovuto abbandonare la scuola ma che poi in qualche modo sono arrivati al teatro. Questa è una scelta che già nel mio percorso, quando abbiamo messo in piedi la prima compagnia nel 2002, è stata fin da subito evidente, perché era composta da attori con una formazione eterogenea e a volte non accademica. Per quanto riguarda il resto della domanda, io non mi sentirei di riservare dei posti obbligatori a determinate, specifiche categorie, ma apro a tutti quelli che si sentono di voler tentare la strada del teatro, senza distinzioni.
In tanti anni di carriera com’è cambiato il tuo rapporto con il pubblico? Com’è cambiato proprio il pubblico del teatro?
Quando si fanno tante repliche lo spettacolo cambia nel tempo, ma non sento una grande differenza rispetto a quando ho iniziato. Allora il rapporto con il pubblico, negli spettacoli in cui recitavo, era molto dichiarato, frontale: lo spettacolo era fatto principalmente per il pubblico, in un certo dialogo con la platea; mentre poi, frequentando un altro modo di fare teatro, soprattutto con Ruccello o con gli autori americani a cui mi sono dedicato, ho sperimentato un approccio più naturalistico, dove il rapporto cambia, il pubblico è più un voyeur, come se spiasse un po’ quello che accade sulla scena e dentro ai personaggi. Sicuramente, dopo il lockdown degli scorsi anni, ho iniziato a cercare un rapporto con il pubblico diverso, in cui è chiaro che gli spettatori guardano gli attori, ma anche che noi guardiamo loro.
Amo fare una domanda, alla fine di un’intervista. Federico García Lorca, un poeta, diceva: “Il teatro è una poesia che si alza in piedi”. Tu hai una frase, una definizione di teatro che senti tua?
C’è una frase che credo di aver preso da Carlo Cecchi, ma non ne sono sicuro. E neanche poi saprei dire se fosse sua o di altri. Diceva: “In teatro proprio perché è tutto finto, deve essere invece tutto vero”. Perché il teatro è il solo luogo in cui l’ossimoro, questo ossimoro, può essere possibile.
Simone Nebbia