Intervista a Giorgio Andriani e Antonino Pirillo, direttori del Teatro Biblioteca Quarticciolo insieme a Valentina Marini.
In un momento di grande riflessione sul fare teatro nella capitale, dove una sempre più ampia varietà di soggetti si scontra con la parallela e progressiva mancanza di spazi, è sempre più evidente come la pluralità e la progettualità condivisa siano strategia indispensabile per qualsiasi pratica culturale. Antonino Pirillo e Giorgio Andriani, produttori, organizzatori e direttori artistici, portano avanti da anni questo modello funzionale di collaborazione, ascolto e orizzontalità. Dal 2020 dirigono insieme a Valentina Marini il Teatro Biblioteca Quarticciolo, spazio di per sé ibrido e plurale nel cuore di uno dei quartieri popolari più complessi dal punto di vista delle politiche sociali romane. Intervista.
Il Teatro Biblioteca Quarticciolo, insieme al Teatro Tor bella Monaca, il Teatro del Lido di Ostia e il Teatro Villa Panphilj, è uno dei cosiddetti Teatri in Comune: strutture di proprietà pubblica finanziate dal Comune di Roma. La direzione amministrativa e artistica delle tre sale del territorio romano viene assegnata tramite bando pubblico di «affidamento della programmazione e dei servizi di gestione». Il finanziamento pubblico, proporzionato alla grandezza degli spazi, dovrebbe coprire le spese di gestione e di programmazione. Tali chiamate pubbliche hanno avuto una battuta d’arresto negli ultimi anni. L’ultimo bando pubblicato è quello triennale del 2020. A dicembre 2022 sarebbe dovuto uscire un nuovo bando, e invece i gestori dei Teatri in Comune hanno avuto delle proroghe a singhiozzo. Qual è la situazione al momento?
Giorgio Andriani: A dicembre 2022 è stata fatta una proroga di sei mesi fino a giugno 2023, e da giugno 2023 hanno fatto un anno di proroga fino a giugno 2024. Il nostro mandato quindi scade a giugno 2024. A quanto pare ci sarà un nuovo bando però ancora non ne abbiamo l’ufficialità. Il che naturalmente crea dei problemi: la programmazione di uno spazio in una città come Roma non può essere fatta di mese in mese. Una buona direzione artistica e organizzativa lavora con un anticipo di almeno un anno rispetto alla stagione successiva, quindi noi adesso dovremmo già chiudere la stagione 2024-2025, ma non lo possiamo fare.
Il bando richiede agli affidatari di rispettare degli standard di qualità nella programmazione, oltre che la promozione di una pluralità di attività e servizi. Le risorse pubbliche assegnate in che misura coprono i costi delle vostre attività?
G. A. :Il finanziamento viene quasi totalmente assorbito dalla gestione dello spazio più che dalla programmazione, il che è un problema fondamentale. Chi va a gestire questi spazi è invitato, ma in un certo senso anche un po’ costretto a cercare delle altre risorse per far sì che la programmazione sia di alta qualità così come poi il bando richiede: la specificità del Quarticciolo in particolare è di dare risalto alla drammaturgia contemporanea e ai nuovi linguaggi, mentre ad esempio il teatro di Villa Pamphilij è orientato al teatro ragazzi. Come tutti i bandi pubblici è un bando a ribasso. A decretare la vincita e quindi l’assegnazione pesa senza dubbio la progettualità artistica ma anche la relativa offerta economica e una fattibilità gestionale.
Il bando del 2020, l’ultimo uscito e quello che appunto avete vinto voi, era stato istituito dall’allora Associazione Teatro di Roma, cui il comune aveva affidato la procedura di assegnazione ed erogazione dei fondi. L’idea era quella di accorpare gli spazi del comune situati in zone periferiche al fulcro del teatro pubblico romano, il Teatro di Roma appunto. Perché questa iniziativa è fallita?
Antonino Pirillo: Il Teatro di Roma dovrebbe essere il teatro della città, invece è rimasto un monolite a parte che non dialoga con le altre entità del territorio. Accorpare i Teatri in Comune al Teatro di Roma era stata un’idea intelligente, proprio perché questi teatri di periferia avrebbero dovuto essere dei satelliti del TdR. Però avrebbe avuto senso se alla base ci fosse stata un’idea più solida di politica culturale.
G. A. Il bando prevede un’autonomia economica, gestionale e artistica degli spazi, però prevede anche che ci sia una struttura di coordinamento e di progettualità comune che di fatto non si è mai attivata: i Teatri in Comune si chiamano così non soltanto perché sono di proprietà del Comune ma perché dovrebbero essere in rete. In questi anni le iniziative in comune sono state quelle che quasi esclusivamente venivano dai teatri stessi: ne è un esempio il Festival Immagina, che è il festival di teatro di figura che da quattro anni mette in rete tutti i teatri in comune e altre istituzioni della città di Roma.
A. P. Immagina nasce da una volontà dei Teatri in Comune di collaborare e di dare un senso a queste rete. Noi abbiamo cominciato a collaborarvi dal secondo anno e continuiamo a cercare dei fondi per farlo al meglio, perché anche in questo caso il finanziamento comunale non basta. Due anni fa abbiamo vinto il bando progetto speciale del Ministero, che abbiamo rifatto quest’anno come capo fila, anche perché il festival è cresciuto e hanno risposto tantissime compagnie, anche dal Sud America, dall’Est Europa…
Nel frattempo l’Associazione Teatro di Roma è diventata Fondazione, sono cambiati gli scenari politici fino all’affaire De Fusco, che tra le tante questioni ha riportato ancora una volta alla luce il problema degli spazi romani, sempre meno numerosi. Dalla vostra prospettiva qual è la visione che avete della realtà romana e come vi si inseriscono le vostre attività?
G. A. Di fatto a Roma non c’è più un tessuto teatrale che riesca a corrispondere e a rispondere al bisogno della comunità. Anche nei teatri nazionali di altre città italiane sono state fatte delle scelte sia politiche che artistiche discutibili, però non hanno avuto la rilevanza che ha avuto la questione del teatro di Roma. Prima di tutto perché tutto ciò che succede nella capitale ha sempre un’eco maggiore, ma è anche vero che se succede qualcosa al Piccolo, la città di Milano ha un tessuto teatrale, un sistema teatrale che riesce a supplire. Noi invece siamo in una città di più di due milioni di abitanti che non ha più… Teatri aperti. Per questo da parte nostra ad esempio dedichiamo tre mesi della stagione alle residenze degli artisti, perché abbiamo capito che uno dei problemi fondamentali di questa città è la mancanza di spazi non soltanto di prova, ma di creazione, luoghi in cui essere nelle condizioni per creare, per pensare, per fare. Questa cosa non rientra nelle esplicite richieste del bando che abbiamo vinto, ma noi la facciamo perché sentiamo di rispondere a una domanda della comunità teatrale di questa città. Ma c’è un equivoco di fondo. Molti pensano che noi siamo… siamo un teatro pubblico, no? E di conseguenza abbiamo chissà quanti soldi e quindi dobbiamo rispondere a tutte le istanze del sistema. Ma non è esattamente così. Come dicevo, e l’abbiamo capito molto bene gestendo questo spazio dal 2016, il comune ci dà i soldi per tenerlo aperto, non per fare le capriole. Dovendo produrre da bando almeno 90 giornate di programmazione, è ovvio che l’operatore debba chiedersi: ma io questi 90 giorni dove li faccio? In che situazione mi trovo? In che contesto culturale opero? In che quadrante della città sto? Perché fare soltanto la programmazione, fare una programmazione di qualità, se hai minimamente dei contatti o delle conoscenze e dei fondi è abbastanza semplice. È tutto il resto che è un valore aggiunto.
A.P. Lavorare sul territorio è anche fare emergere i temi di questo territorio. Per esempio un anno, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne abbiamo realizzato un progetto sulle strade della prostituzione, perché la Togliatti è proprio tra le più famose. Abbiamo portato Medea per strada del Teatro dei Borgia su un pullman, per le strade del quartiere. Non si tratta soltanto di spunti per fare dei focus sul calendario civile all’interno di una programmazione. Organizzare una giornata della legalità qui al Quarticciolo ha un senso diverso rispetto alla stessa iniziativa in un teatro in centro. Fare la giornata per la prevenzione delle malattie, dell’AIDS ha un senso…Pratico. Perché qui c’è una comunità molto fitta di transizioni. Quest’anno abbiamo ospitato, in collaborazione con il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, il Roma Rainbow Choir per la giornata contro l’HIV e nei camerini abbiamo predisposto delle analisi rapide per Hiv e Sifilide.
Quale tipo di attenzione e di cura richiede la gestione del Teatro Biblioteca Quarticciolo?
A.P. Bisogna essere molto modesti per lavorare in uno spazio del genere. Noi siamo sempre qui, accogliamo, parliamo con tutti perché la relazione è fondamentale. Gli spettatori ci scrivono su whatsapp per prenotare i posti, cerchiamo di fidelizzarli. Questo è un presidio culturale e tutte le attività collaterali spesso sono importanti quanto la programmazione. Per esempio, banalmente noi ci chiamiamo Teatro Biblioteca Quarticciolo perché a fianco a noi c’è una delle biblioteche del sistema Biblioteche di Roma. Non dovremmo necessariamente occuparci di letteratura. Eppure abbiamo organizzato Tbq_Letteratura, in corealizzazione con Biblioteche di Roma e a cura di Francesca De Sanctis, e abbiamo invitato Nicola Lagioia che è venuto a parlare del caso Varani, accaduto a due chilometri da qui. Vogliamo far emergere delle tematiche, ma anche far conoscere il territorio a chi viene qui attirato dalla programmazione. Molti quando arrivano le prime volte ci dicono “ma voi come fate a stare qui?”. Invece per me è come stare a casa, anche perché il quartiere ha un grande rispetto per l’istituzione teatro e biblioteca, lo considera un vanto.
Gli abitanti del quartiere partecipano alle vostre attività?
A.P. Partecipano molto alle attività collaterali, come i laboratori per adulti e per bambini che facciamo tutto l’anno. Lo scorso autunno abbiamo vinto un bando per un progetto che abbiamo chiamato Lotto Tbq, perché in questo quartiere i condomini vengono identificati come lotti. Il nostro è diventato il lotto ideale della cultura, aperto alla comunità, con attività di residenza per artisti e di formazione per i bambini del quartiere. Più difficile è coinvolgere la comunità di quartiere negli appuntamenti della programmazione, anche se spesso prevediamo delle forme di gratuità. Grazie a Federica Migliotti abbiamo fatto negli anni un grande lavoro con le scuole, abbiamo una programmazione per le nuove generazioni molto seguita, ci sono tantissime scuole che partecipano. A volte invece siamo noi ad andare nel quartiere: l’anno scorso per esempio abbiamo portato il Teatro delle Ariette nella palestra popolare con una cena spettacolo, un’altra l’abbiamo organizzata in biblioteca, l’anno prossimo vorremmo portare Nicola Borghesi e il suo lavoro bellissimo, Album, nella bocciofila. L’idea è dire: se non venite qui, veniamo noi da voi e voi non pagate.
Anche queste attività però non rappresentano alzate di sipario, e quindi non rientrano nelle giornate riconosciute dal mandato pubblico, pur essendo altamente orientate al territorio. In vista dell’uscita di un nuovo bando, pensate che dovrebbe tener conto maggiormente di questi aspetti?
G. A. Fare un bando per la gestione di un teatro necessita di un’indagine specifica del territorio in cui quello spazio esiste. Però è anche vero che tenere le maglie un po’ larghe permette un’operatività maggiore a chi vi opererà. Non ci dimentichiamo una cosa importante: noi facciamo teatro, non siamo servizi sociali, non facciamo assistenza sociale. L’intelligenza di chi gestisce sta nel fatto che si fa teatro in un determinato contesto e quel contesto deve far parte della pratica teatrale, della pratica in generale. Penso che il maggiore risultato che abbiamo raggiunto in questi anni sia stato abitare uno spazio che si trova in una periferia difficile della città e farlo diventare un luogo non solo della città, ma del paese in generale. Lo dico con orgoglio, perché il lavoro è stato lungo e non facilissimo. Siamo riusciti a far diventare di respiro nazionale un teatro che aveva una vocazione di quartiere. Ci scrivono tante compagnie da tutta l’Italia per poter fare dei periodi di residenza, per poter debuttare qui. Il Quarticciolo è diventato un punto di riferimento per una comunità allargata.
L’attività strettamente connessa al quartiere si affianca infatti a numerose collaborazioni che avete attivato da anni con realtà della scena romana e nazionale, da Romaeuropa a InBox e Scenario, da Carrozzerie N.o.t. a Fortezza est al Teatro Basilica. Cosa vi ha permesso di raggiungere una così larga apertura?
A.P. Il Teatro Biblioteca Quarticciolo si è aperto tanto forse proprio perché noi non siamo artisti. Non dobbiamo neanche necessariamente far corrispondere un’identità artistica a un’identità di programmazione, di gestione. La direzione artistica è orizzontale e condivisa. Grazie al lavoro di Valentina Marini nell’ambito della danza riusciamo a fare quello che con il teatro è più difficile per una questione di linguaggio, ma anche per una questione di economie. Con la danza contemporanea il Quarticciolo si è aperto anche a un mercato internazionale che prima non aveva… È una priorità per noi non identificare lo spazio con un artista o con un singolo pensiero. È una priorità che è anche la forza di questo teatro e anche, forse, il motivo per cui riesce a stare in piedi. E soprattutto, facendo anche produzione, abbiamo una sensibilità in più verso le esigenze degli artisti. Diamo una casa a tutte le compagnie che vengono in programmazione, perché magari non c’è un cachet, a volte dei minimi garantiti, considerando poi i costi di ospitalità di una città come Roma, in questo momento, che sono forse tra i più alti d’Italia. Cerchiamo di farli sentire veramente a casa, andiamo sempre a cena con le compagnie dopo lo spettacolo, facciamo in modo che vivano anche loro il quartiere. Anche la questione della sensibilità alle residenze penso che sia legata al nostro concepire la produzione di uno spettacolo: come Cranpi vogliamo che gli artisti che produciamo lavorino per step e non facciano 20-30 giorni continuativi di prove e basta, perché ci deve essere sempre un nutrimento col territorio. Il processo creativo si alimenta con lo sguardo degli altri e tu arrivi allo step successivo di produzione con dei tarli in più. Capita che proponiamo giorni di lavoro extra anche alle compagnie che ospitiamo in cartellone, se sentiamo che il loro lavoro ne può giovare.
G.A. Un altro aspetto importante per noi è fare rete: quando apre uno spazio nuovo, una nuova realtà, non entriamo in competizione, ma cerchiamo la possibilità di entrare in collaborazione se non proprio in comunione con quella struttura. Siamo in collegamento con tutte le strutture più significative e importanti di Roma: con Romaeuropa e con Short Theatre c’è una collaborazione che vede sia l’ospitalità da parte del teatro delle attività di questi due festival, sia la collaborazione su delle progettualità. Da diversi anni con Fortezza Est realizziamo la rassegna CondiVisa. Da poco abbiamo avviato con il Teatro Basilica una collaborazione per un progetto di nuova drammaturgia, Prima Stesura, ideata da Pier Lorenzo Pisano; come Cranpi abbiamo prodotto in collaborazione con il Teatro Vascello; lavoriamo con Carrozzerie N.o.t. nell’ambito di Powered by ReF e di Starter Pack, un corso di formazione per giovani artisti e compagnie realizzato insieme anche a 369° e Andrea Rocchi, direttore tecnico di RomaEuropa Festival. In quest’ottica di relazione, stiamo lavorando ad una mappatura degli spazi indipendenti di Roma in collaborazione con l’associazione Ateatro e con Teatro e Critica e Graziano Graziani. I primi risultati verranno presentati nell’ambito di una giornata di studio e approfondimento dedicata alle buone pratiche teatrali che ospiteremo il 15 aprile.
Se le economie del finanziamento comunale sono limitate, come sostenete tutte le attività, comprese quelle che non rientrano nella vocazione originaria del bando?
G. A. Fondamentalmente tramite altri bandi. E con la messa in rete dei progetti che facciamo. Perché collaborare con altri non è soltanto una condivisione di idee, ma anche di economie.
A.P. Però la rete non deve essere dettata dalla moda o dal bando. Ci deve essere una relazione vera. Bisogna scegliersi. Incontrarsi nella volontà di realizzare un progetto e capire in che modo ognuno può dare un apporto, sia economico sia di ideazione e di realizzazione.
G. A. Se c’è la volontà, poi si trova un modo. Magari il primo anno lo fai in minore, poi il secondo anno c’è una crescita. È anche vero che noi teatranti, tutti, in Italia siamo anche abbastanza, diciamo, dei… dei visionari e allo stesso tempo siamo degli spericolati. Perché ci mettiamo in delle condizioni, in delle situazioni… facciamo cose che in altri settori, in altri ambienti non faresti se non avessi a disposizione le certezze.
Qual è la sfida più grande del vostro lavoro e quale il desiderio che ancora non avete realizzato?
G. A. Fare questo mestiere non è semplicemente gestire un luogo, ma creare una comunità, ideare e sviluppare un progetto artistico e culturale. Avere una gittata temporale un po’ più lunga, di almeno 5 anni, favorirebbe il processo. Sappiamo che non è soltanto una questione di volontà politica, ma di burocrazia: il finanziamento comunale deve rispettare delle tempistiche, il pareggio di bilancio, questioni tecniche che impongono delle scadenze così ridotte. La squadra che abbiamo creato e che anima il Teatro Biblioteca Quarticciolo forse ha fatto anche dei miracoli rispetto a tutto quello che è in questi anni è successo, dalla pandemia alla chiusura degli spazi nella città, lavorando sempre su tempi molto ristretti.
A. P. La mia utopia invece sarebbe far diventare il teatro un luogo aperto dalla mattina alla sera, farlo abitare a 360 gradi con attività di ogni tipo, dare il foyer e il palco per il corso di yoga per le signore del Quarticciolo o per i compiti del doposcuola, e che lo spettacolo diventi una delle cose da fare: magari vengo lì per la lezione di questo di quello e poi resto e mi vedo pure lo spettacolo. Il mio sogno è da sempre questo, rendere il Teatro Biblioteca Quarticciolo una casa veramente di quartiere, come in parte lo è già.
Sabrina Fasanella
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