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Ivonne Capece, la direzione artistica del Teatro Fontana e l’era robotica

Intervista. Ivonne Capece è stata nominata direttrice artistica del Teatro Fontana, a valle di un percorso di collaborazioni produttive su alcuni lavori di Sblocco5, compagnia indipendente fondata a Bologna nel 2013 con Micol Vighi e vocata all’indagine scenica sulle nuove tecnologie

Raggiungo Ivonne Capece in call mentre si trova al Teatro Fontana, di cui è da pochi giorni diventata direttrice artistica. Sullo sfondo del nostro scambio il chiostro annesso al complesso teatrale, condiviso col santuario cinquecentesco di Santa Maria della Fontana. Nell’ampio panorama di luoghi teatrali milanesi, questo si distingue per l’architettura ibrida, sacroprofana, che sembra stranamente coerente con la storia di Elsinor – centro di produzione teatrale con sede proprio al Fontana, ma con presenza disseminata tra Forlì col teatro Testori, e Firenze col Teatro Cantiere Florida. Dal 2000, il lavoro di Elsinor ha inizialmente gravitato tra il teatro ragazzi e la cultura teatrale di area cattolica, ma con gli anni ha saputo trasformarsi accogliendo progettualità sempre più ampie e sperimentali, fino alla capillare rete di produzioni attualmente in distribuzione. La nomina di Ivonne Capece, che con la sua compagnia indipendente Sblocco5 (fondata nel 2013 a Bologna con Micol Vighi) esplora da anni il rapporto tra scena e nuove tecnologie, sembra un passo ancora più deciso verso orizzonti d’innovazione. Iniziamo scherzando sul fatto che la sua nomina abbassa l’età media del profilo anagrafico delle direzioni artistiche sul territorio nazionale, e su quanto si sia alzata la soglia di definizione della giovinezza.

“Ci sono un sacco di turisti qui, soprattutto nel weekend. Vengono a visitare il Santuario con la famosa fontana. Il Chiostro è bellissimo, finora è stata solo occasionale la possibilità di utilizzarlo per le attività teatrali, ma mi piacerebbe lavorare in questo senso. Anche lo spazio pubblico adiacente, con un emiciclo naturale e in parte pavimentato che si vede da qui, è un luogo interessante. Nei prossimi giorni è previsto un incontro con la presidente di quartiere per valutare le possibilità di apertura anche a luoghi all’aperto per le nostre attività. È un lavoro complesso e lungo ma sul quale mi farebbe piacere avviare dei ragionamenti”

Com’è iniziato il tuo rapporto con Elsinor e il Teatro Fontana?

Cross – foto di Micol Vighi

Nel 2016 mandai a Rossella Lepore, direttrice artistica del Fontana dal 2012, il video de La monaca di Monza di Giovanni Testori, che realizzammo quell’anno con Sblocco5. Da allora nacque un interesse reciproco, anche per il legame storico tra Elsinor e l’opera testoriana. Così abbiamo cominciato ad essere ospitati in modo abbastanza stabile, di stagione in stagione c’era sempre un nostro progetto. Tappa cruciale è stato certamente il nostro Frankenstein, prodotto da Elsinor nell’ambito di Play-On, progetto europeo sull’utilizzo di tecnologie immersive per la scena. La collaborazione si è estesa anche al di là dell’ospitalità e dell’ambito produttivo, ad esempio con il corso di formazione biennale inaugurato appena un anno fa e di cui ho assunto la direzione didattica. A partire da questo esperimento, tra l’altro, a gennaio di quest’anno abbiamo aperto CROSS, un percorso di alta formazione che ha già visto ospiti come Lisa Ferlazzo Natoli, Anagoor, e fra pochissimo Federica Rosellini, Fabrizio Sinisi e molti altri.

La fisionomia delle produzioni di Elsinor negli ultimi anni è vasta e variegata. Come si relazionano, dal tuo punto di vista, il tuo percorso e quella storia?

Sento che la scelta del mio nome vada al di là di me in quanto autrice e regista con un certo linguaggio. D’altro canto io vengo da un mondo geografico e ideologico, quello degli spazi indipendenti tra Napoli e Bologna, in parte alieno alla storia di questo centro di produzione e, anche solo per questo motivo, la scelta della mia nomina da parte del CdA è stata coraggiosa. Di fatto, un segno molto forte se pensiamo a quanto spesso simili nomine avvengano per prossimità politica o, se non altro, di background culturale (sebbene chiaramente questa sia un’istituzione privata, per cui è più facile, per quanto mai scontato, forzare certe logiche). Negli ultimi anni, con la direzione artistica di Rossella Lepore, è stato fatto un lavoro molto vasto di “scouting” di nuove autorialità, di voci fra loro anche molto distanti, spesso non ancora note. Io mi sento parte di questa storia di trasformazione e apertura, il che mi fa sentire libera, mi permette di lavorare su un’identità fluida, in ricerca. Anche se credo che la missione culturale di una direzione artistica sia anche definire, dopo una necessaria fase di indagine, una traiettoria ben riconoscibile.

Il panorama milanese presenta oggi un’offerta straordinariamente ricca rispetto all’intero panorama nazionale. Come pensi di valorizzare la riconoscibilità del Fontana in questo orizzonte?

foto di Camilla Ambrosini

In questo momento sono naturalmente in una fase di studio e di ascolto, perché arrivo in un territorio in cui ancora non ho messo radici, ma solo gettato semi. Il mio primo obiettivo quest’anno è soprattutto quello di rendermi conto della fisionomia del paesaggio, sto andando tanto nei teatri della città, sto parlando tantissimo con gli operatori e mi rendo conto che il lavoro potrà prendere una direzione o l’altra anche a seconda delle reti, dei rapporti singolari che riusciremo ad attivare. Certamente Milano presenta un’offerta molto ricca, ma è anche vero che esistono degli spazi interstiziali ancora poco esplorati a partire dalla prospettiva teatrale. Penso naturalmente all’ibridazione tra i linguaggi e a una dimensione internazionale: se è vero che a Milano esistono istituzioni che, come la Triennale, portano avanti da anni questo tipo di lavoro, è anche vero che in uno spazio come il Fontana, fortemente legato a un quartiere soprattutto legato alla movida, questa traiettoria può assumere una fisionomia nuova e particolare.

Come intendi declinare il rapporto tra la tua nuova posizione e quella di regista?

Mi affascina la possibilità di concepire la creazione della stagione come una strana opera d’arte fatta di più voci, dove hai la possibilità di creare con un occhio che è il tuo, che non è solo un occhio da programmatore, ma da artista appunto, e che però convoca la creatività di altri. Mi piacerebbe molto riuscire, col tempo, a creare negli spettatori la sensazione che l’opera d’arte alla quale assistono non sia circoscrivibile al singolo spettacolo; mi piacerebbe creare una consuetudine che derivi dalla percezione di un sistema progettuale. Mi affascina questa dilatazione del concetto di opera d’arte attraverso la creatività di molti. Per fare un esempio, mi piacerebbe, da un punto di vista produttivo, sperimentare delle staffette registiche per creare dei dispositivi spettacolari ibridi. È chiaro che la criticità di un approccio simile è che la mia poetica personale non vada ad invadere quella altrui. Proprio per porre dei confini, per esempio, almeno nella stagione ‘24-’25 non ci saranno produzioni Elsinor di mie regie, perché ritengo di aver bisogno, almeno temporaneamente, di mettere in stand by una parte della mia professionalità per affinare l’ascolto nell’altra.

Esistono modelli di esperienze nazionali e non che attivano il tuo interesse?

Mi vengono in mente due situazioni: il caso del Teatro Bellini a Napoli, con la sua apertura alla scena internazionale filtrata però da una prospettiva radicata nel contesto cittadino e, all’estero, il Theater Dortmund in Germania, con l’Akademie für Theater und Digitalität. Un luogo sperimentale che accoglie progetti internazionali di artisti anche molto giovani, con un focus sulla componente tecnologico-ingegneristica nei vari ambiti della performance. Nel nostro piccolo, alcuni progetti di ospitalità e collaborazione sono già in cantiere in questo senso.

Nel tuo lavoro l’accento sulla tecnologia è sempre centrale, a livello scenografico-spaziale e drammaturgico. Quale pensi sia la radice di questa presenza?

Derek Jarman – foto di Luca Del Pia

(ridendo) Sono sempre stata un po’ nerd, ho amato i videogiochi sin da piccola, soprattutto quelli horror. Mi ha sempre affascinata la possibilità stessa dell’immersione virtuale del proprio corpo, ad esempio in tutti quei videogiochi in cui non esisteva una vera trama e il gioco consisteva nel vivere e fare delle cose ordinarie in una realtà che però non era quella analogica. Ricordo l’intensità delle relazioni emotive attraverso le prime chat, quando internet era ancora a 56 k ma la rete cominciava già a dilatare i nostri corpi, a mutarne la definizione. In questo momento noi stiamo comunicando realmente: io credo di guardare te, ma sto guardando solo la proiezione della tua luce, quindi io sto comunicando con la luce che tu emani. Nel momento in cui siamo arrivati a vivere anche la nostra sessualità attraverso i monitor, vuol dire che davvero la natura luminosa ed estesa dei nostri corpi è diventata palese. Ciò nonostante, mi sembra che in Italia la percezione delle implicazioni tra scena e tecnologia sia tendenzialmente derubricata alla dimensione ludico-intrattenitiva, mai vissuta come una profonda possibilità di linguaggio.

Nel tuo ultimo lavoro, Inside me, porti in scena un braccio robotico. Quando si parla di robotica ed AI, tra le reazioni più diffuse c’è l’ansia di sostituzione. Per te è possibile pensare a un teatro senza il corpo umano sulla scena?

Dipende da cosa si intende per corpo. Nel caso della presenza virtuale dell’attore (su uno schermo, o in un visore), il corpo dell’attore c’è, nel senso che noi vediamo corpi che agiscono nello spazio, anche se non sono corpi fisici ma corpi luminosi, appunto. Spesso nei miei lavori ho lavorato sulla discrepanza tra forme di immersione sonora (con cuffie wireless e tecnologia binaural) che denunciano l’estrema vicinanza dell’attore, in antitesi con l’immagine che, attraverso i monitor, ne mostra la lontananza. Ma in maniera ancora più radicale potremmo dire che, per esempio, sarebbe possibile lavorare solo con robot, e dunque sì, in assenza totale di corpo umano. In Italia, diffidenza a parte, forse non abbiamo nemmeno gli strumenti economici per immaginare certe possibilità (quanti teatri dispongono anche solo di proiettori adeguati?), ma si pensi a quanto fatto in Giappone con attori robot mandati a recitare nei luoghi radioattivi intorno a Fukushima. Questo è un confine molto affascinante: vedere non solo la macchina come un’estensione del corpo umano, cosa che facciamo già da molti secoli, ma come surrogato della presenza dove presenza non può esserci.

Il robot come alter ego è appunto un tema tanto radicato nella nostra cultura, quanto oggetto di attenzione particolare proprio in questi mesi – penso a Figure 01, che Open AI ha presentato al mondo proprio pochi giorni fa. A livello scenico, quale consapevolezza ti restituisce l’uso di questa tecnologie, nel gioco di riflessi che si articola con la figura umana? 

In Lucy 2022 insieme ad prof. Matteo Casari e al dipartimento di ingegneria dell’università di Bologna, abbiamo condotto un esperimento scientifico, che era anche sociale. Abbiamo affidato ad un gruppo di danzatori e ad un gruppo di Robot Nao un alfabeto fisico “minimo” comune. I due “gruppi” hanno poi lavorato da soli, ciascuno doveva creare una coreografia a partire da quello stesso alfabeto, per testare le possibilità creative autonome dei robot oggi rispetto alle abilità umane. Le coreografie sono state mostrare al DamsLab durante il festival ad un pubblico numerosissimo, che doveva appuntare le sensazioni e poi c’è stato un dibattito. Sono accadute cose molto interessanti: la prima è che i danzatori umani erano feroci nel danzare, aggressivi e competitivi, tutti tesi a dimostrare di essere i migliori dei robot. La seconda è stata l’accanimento verbale del pubblico contro i piccoli robot, mentre i ricercatori scientifici guardavano sbalorditi.
Io e Micol Vighi eravamo affascinate, ho visto proprio come un mare alzarsi, l’orda delle Scimmie iniziate ad ululare e strillare in assetto di guerra. È stato emozionante, quella visione ha mosso nella massa un arcaico ritorno alle origini in difesa del territorio. Davvero anche visivamente che siamo delle scimmie è diventato improvvisamente evidente. Il robot è uno specchio, hai ragione. È per questo che riusciamo a vedere in lui solo sopraffazione, timore di perdere il potere, paura della schiavitù. Vediamo in lui lo specchio dei più istintivi rapporti di relazione che come specie siamo capaci di concepire: quelli fondati sulla violenza e il predominio. Temiamo di perdere “la guerra” o di diventare loro schiavi, loro sudditi. L’era robotica non cambia nulla se non la forma dell’estensione dei nostri avatar: abbiamo trattato animali e persone come robot per millenni. Cos’è una mucca da latte prosciugata in un’industria, che cos’è una bambina thailandese prostituta, cos’è un ragazzo addestrato a farsi saltare in aria se non un robot vivo?
Usiamo da millenni esseri viventi e pensanti come robot, come pure macchine, e non ci sconvolgiamo, e poi abbiamo paura di quelli che non sono vivi? Io preferirei mille volte essere uccisa da un robot che da un essere umano, fare sesso con una macchina piuttosto che con un ragazzo costretto.

Andrea Zangari

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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