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IL RITO (di A. Postiglione)

Questa recensione fa parte di Cordelia di febbraio 24

“IL RITO” di Ingmar Bergman; adattamento e regia di Alfonso Postiglione
Nella foto (da sx) Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer) in basso Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson). Foto di Anna Abet

Una voce in lingua svedese, fuori campo, lascia inquadrare via via la scena sopraelevata a centro palco, una stanza d’ufficio dove si svolgerà presto un interrogatorio (o, vedremo, più di uno); dà la sensazione di essere una miniatura che fuoriesce da una valigetta enorme, aperta a favore di pubblico. Così inizia Il rito, sul palco del Teatro San Ferdinando di Napoli con la regia di Alfonso Postiglione, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969, realizzato per la TV svedese. Nella stanza il giudice (Elia Schilton) si sta preparando ad accogliere tre attori, clown precisamente, per l’istruttoria a proposito di un numero che ha ricevuto una denuncia per oscenità; attorno alla scena è invece l’atonalità asettica del grigio in cui appaiono – nella musica misteriosa e tormentata di Paolo Coletta – Thea (Alice Arcuri), Sebastian (Giampiero Judica) e Hans (Antonio Zavatteri), fasciati nella profondità dell’abito bianco. Il tema della censura dell’arte, che Bergman portava addirittura in TV da noi oggi ridotta a organo di sistema, attraversa l’intera piéce con profonda inquietudine e si rivela avvolgendo l’ambiguità della relazione tra i tre personaggi, uniti da una viscerale profondità diabolica e allo stesso tempo da una pungente fragilità terrena. L’attrazione che il giudice prova nei confronti dell’arte, nel manifestare l’incongruenza dell’indagine anche al netto della sua fondatezza, rivela allo stesso tempo la pericolosità della sua brama di penetrarne il mistero, lasciando così il campo libero all’essere fatalmente colpito. La regia di Postiglione è compatta e determinata a perseguire l’obiettivo bergmaniano di rappresentare la profonda complessità umana, peccando forse solo nella gestione magniloquente e poco a fuoco delle immagini di opere d’arte, apparse grazie un proiettore luminoso da scrivania, ma insistendo con intelligenza sul conflitto trasformista dei personaggi-attori, la loro dedizione alla finzione, là dove risiede però la loro più concreta verità. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro San Ferdinando. Crediti: di Ingmar Bergman; traduzione di Gianluca Iumiento; adattamento e regia Alfonso Postiglione; con Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson) Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer) Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann); scene Roberto Crea; costumi Giuseppe Avallone; musiche Paolo Coletta; disegno luci Luigi Della Monica; partitura fisica Sara Lupoli, aiuto regia Serena Marziale; produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival

Cordelia, febbraio 2024

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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