Nel dibattito culturale contemporaneo si fa largo una pressante ricorrenza dell’attitudine woke, intesa come consapevolezza rispetto alle discriminazioni nella società. Ma è così facilmente applicabile all’arte scenica? Da Antonin Artaud a Ricky Gervais, un’indagine sulla crudeltà nell’arte.
A voler definire in modo sbrigativo, non è scorretto dire che il teatro, l’arte della rappresentazione in genere, fonda la propria più radicata matrice sulla messa in scena, ossia portare di fronte a un pubblico, in qualche modo, il pubblico stesso. La realtà, ciò che è offerto dallo spazio contemporaneo, è un campo di indagine privilegiato che, una volta trasformato attraverso un passaggio nella sensibilità d’artista, permette di raggiungere uno spunto di discussione tale da amplificare il senso profondo della verità. Eppure, in questi ultimi anni, il dibattito sull’arte sembra si stia stringendo attorno a un concetto cardine nella società attuale, ma che espresso nell’arte ne esemplifica forse troppo gli strumenti e, in conseguenza, limita l’opportunità di indagine della complessità umana: in area anglofona prende storicamente il nome di “woke”, che in italiano non è possibile tradurre se non con una locuzione più o meno aderente, ma che appunto si potrebbe restringere alla “consapevolezza” delle forme di discriminazione presenti nella società, considerandone dunque gli effetti nelle opere artistiche. Ma tale postura, necessaria per riequilibrare le infinite disparità sociali, misurata all’arte mette in mostra dei limiti notevoli che rischiano di inficiare la benefica applicazione di questi principi.
Durante il primo Novecento, lungo tutto l’arco della propria riflessione sull’arte scenica, Antonin Artaud aveva teorizzato il ricorso alla crudeltà come àncora di salvezza rispetto all’omologazione del teatro ai mezzi di intrattenimento, principalmente un certo cinema o in generale l’impero dell’immagine che sarebbe diventato la TV, per meglio dire aveva compreso come la crudeltà permetta la creazione naturale del conflitto, senza il quale l’arte smette di pungere in profondità gli spettatori, che Artaud vede come parte della rappresentazione e non come semplici fruitori esterni. Trasferendo ai nostri giorni questo ragionamento, si potrebbe dire che se il teatro mette in scena l’essere umano, dovrà farlo prendendo in esame ogni sua caratteristica, ogni virtù come ogni nefandezza, inquadrare cioè nello stesso esame della realtà sia il modello esemplare – che farebbe inorridire Artaud chiamare “morale” – sia dal lato opposto la cattiveria su cui ricade invece lo stigma dei critici del buon senso comune.
Attorno al termine “woke” ruota l’intero ultimo spettacolo firmato, per il pubblico anglosassone dal vivo e per quello di Netflix senza limitazioni testuali, dal comico inglese Ricky Gervais, dal titolo emblematico Armageddon. La volontà di Gervais è fin dall’inizio e dichiaratamente quella di mettere in discussione, fingendo di fare la massima attenzione a gesti e parole perché non siano “scorrette”, la proliferazione di pregiudizi e tabù che affliggono a suo dire il contesto contemporaneo. Si dichiara woke, appunto, sfidando questa proprio come etichetta che ha l’ardire di certificare – a credere che basti definirsi tale – le intenzioni di chi se la mette addosso, ma poi si susseguono racconti o scene di particolare “crudeltà” attorno a temi come omofobia, razzismo, pedofilia, religione, che ne evidenziano l’inconsistenza: dal salvataggio mancato del bambino disabile che annegava in mare, perché chiamato “handicappato”, cioè con un termine non politicamente corretto, fino all’atto masturbatorio di un bambino nei confronti di un adulto, in cambio di una serie di promesse, per evidenziare l’inadeguata comunicazione verso i minori dei pericoli cui si va incontro nel mondo reale. Ogni scena che prende vita dalle sue parole ha come spinta motrice la scelta più difficile di tutte: caricare su di sé le conseguenze più estreme delle proprie battute, per mettere in crisi proprio l’intero sistema di codifica di ciò che si può o meno fare o dire sul palco, al fine di evidenziare come l’atto di credere a ciò che dice e criticarlo abbia come causa, esclusivamente, la sua bravura nell’essere convincente.
Se dunque Gervais (che – è bene dirlo – lavora con la Make a Wish Foundation e dunque concretamente nel proprio privato si occupa dei disagi dell’infanzia) fa propria la lezione artaudiana e vivifica le possibilità dell’arte teatrale senza porsi limiti di autocensura, nel nostro paese in cui bisogna andare in TV a giustificarsi per aver chiesto la fine di un genocidio – Ghali dal palco di Sanremo, stigmatizzato in diretta RAI il giorno successivo – la prospettiva della creatività artistica vive una fase di regressione e, anche negli ambienti culturalmente più vivi, prolifera una tensione fluttuante tra chi da un lato monitora parole e gesti perché siano nell’alveo dell’ammissibilità e chi dall’altro si affretta a risciacquare la propria libertà espressiva, perché sia conforme alla vulgata pubblica del nuovo progressismo. È questo il teatro che vogliamo? O non si sta forse spezzando le lame alla capacità dissacrante o corrosiva dell’arte scenica in nome di un puritanesimo di ritorno in cui si annida una malcelata spinta normalizzatrice?
Eppure molti artisti continuano la loro personale riflessione sul meccanismo teatrale, focalizzando proprio quella terra di nessuno che è il fossato oltre la quarta parete, il punto di contatto tra palco e platea. Tra tanti, due nomi probabilmente antitetici ci fanno parlare di due modalità differenti con però simili finalità: Antonio Rezza, al centro di molte polemiche come apparso dal recente dibattito attorno alla ripresa di Fotofinish, non smette di tormentare il pubblico dentro e fuori le scene previste nei propri spettacoli, ampliando e restringendo a piacimento quella distanza perché probabilmente, con Artaud, ne disapprova la natura; Ascanio Celestini, in modo quasi segreto, da molti anni ha spostato nei propri monologhi l’ago di questa particolare bilancia, costruendo le espressioni di molti suoi personaggi attraverso il negativo; ne è un esempio il recente Rumba che, narrando per voce degli strati più bassi della società la vicenda di Francesco d’Assisi e del presepe di Greccio, inquadra lo strato nebuloso tra i pensieri dell’autore e quelli del personaggio, quindi tra i materiali della creatività e la trasposizione narrativa, facendo esprimere a certe voci del popolo giudizi terribili e scorretti che gelano il pubblico presente, confuso nel cogliere la differenza tra realtà e finzione. In modalità dunque differenti i due artisti, senza dichiararsi “woke”, permettono qualcosa che a seguire l’onda conformista della lotta risulta al contrario impossibile: non mettono in scena la rappresentazione di ciò che siamo, ma la rappresentazione di ciò che, nascosto dentro di noi, nei punti più oscuri, rifiutiamo e non accettiamo di essere. Ossia, per eccesso di contraddizione, umani. «Fa ridere perché è vero», dice Gervais dopo aver insistito pesantemente e con successo sull’AIDS infantile che opprime la popolazione africana: “fa ridere”, come meccanismo che difende da quanto faccia male e ci riguardi, la verità.
Simone Nebbia