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L’ETERNO MARITO (regia Claudio Autelli)

Questa recensione fa parte di Cordelia di febbraio 24

Scorre veloce un paesaggio dal finestrino di un treno. Lo vediamo proiettato su un muro di fondo, mentre davanti si delinea a poco a poco, con una luce languida e soffusa (nel disegno di Omar Scala), la scena di un salotto borghese. Lì, l’incontro casuale tra due personaggi dostoevskijani detterà lo sviluppo narrativo, nel libero adattamento di Davide Carnevali che si immerge nella pericolosa ambiguità di certi sentimenti umani per estrarne delle tracce e distillarle con verve ironica lungo la trama. A partire da questo cesellato meccanismo di scrittura, il testo L’eterno marito dell’autore russo viene intrecciato ad alcuni elementi biografici degli attori (vividi e meschini nelle beffarde interpretazioni di Ciro Masella e Francesco Villano), ripercorrendo una stratificazione di significati, di storie, di rappresentazioni che portano lo spettatore ad abitare una dimensione sempre messa in dubbio, perché di continuo spaesamento. Francesco e Ciro danno voce ad un’irrisolta dualità: Francesco è Aleksej, l’eterno amante, Ciro è Pavel, l’eterno marito. Tra i due una costante tensione psicologica, agita dall’elemento video che nella regia di Claudio Autelli ha un affilato taglio indagatore, rivela l’infimità di ciò che è tenuto nascosto, il segreto omesso nel retro di un palco, i pensieri taciuti dietro le fattezze di un volto. Poi, lo spettro di una donna che non c’è più, il fantasma di una figlia. I personaggi, che nel dramma russo continuano a vivere in un’eterna ripetizione, vengono così scossi da queste riprese video, vibrano negli attori che li interpretano, scivolano gli uni sugli altri, fino a giungere ad una rottura: è una voce che proviene dalla platea – in un continuo sconfinamento delle barriere, della quarta parete, della storia stessa. È una voce del presente che cerca risposte per questi personaggi ancora ingabbiati nell’illusione dei loro vuoti ideali. Sono questi i modelli di riferimento da stimare? E riprendendo Dostoevskij “Siamo ancora in grado di esercitare la cura? Di essere padri, maestri, guide?” (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: da Fëdor Dostoevskij, libero adattamento Davide Carnevali, regia Claudio Autelli, con Ciro Masella e Francesco Villano, in video Sofija Zobina e Lia Fedetto, scene Maddalena Oriani, disegno luci Omar Scala, musiche originali e sound design Gianluca Agostini, costumi Margherita Platé, film-making Alberto Sansone, responsabile tecnico Emanuele Cavalcanti, assistente alla regia Valeria Fornoni, organizzazione Daniele Filosi e Dalila Sena, ufficio stampa Cristina Pileggi, produzione Teatro Franco Parenti / LAB121 / TrentoSpettacoli. Ph Francesca Ferrai

Cordelia, febbraio 2024

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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