Durante queste settimane di proteste ha debuttato in prima nazionale al Teatro di Roma L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij nell’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi per la regia di Massimo Popolizio, che dopo l’ultima replica di domenica 3 andrà in scena dal 7 al 28 marzo al Piccolo Teatro di Milano. Recensione
Domenica prossima, il 3 marzo, si concluderà al Teatro Argentina la lunga tenitura del dramma L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij nell’adattamento diretto da Massimo Popolizio, affiancato da Tommaso Capodanno assistente alla regia. Da quando ha debuttato in prima nazionale agli inizi di febbraio, sono successi molti fatti, culturali e sociali, attorno e per il Teatro di Roma, prima del debutto dello spettacolo come fatto artistico, durante le sue repliche, e ne continueranno ad accadere anche dopo, quando dalla prossima settimana L’albergo dei poveri andrà al Piccolo Teatro di Milano, dove rimarrà anche lì in programmazione per circa un mese. Da fine gennaio, la comunità artistica che manifestava fuori dal Teatro Argentina ha cercato più volte un’interlocuzione con la comunità artistica che lavorava dentro al teatro, che stava provando e che sarebbe andata in scena. Nessuna risposta, nessun dialogo. Le due comunità non si sono parlate, l’una è rimasta fuori, l’altra dentro; il fatto culturale e sociale in piazza è stato separato nettamente da quello artistico sul palco, nonostante l’inchiesta apparsa su fanpage.it relativa alle accuse di mobbing e sessismo. A dispetto dell’incomunicabilità, “i due fatti” hanno però in comune un altro fatto, quello politico. Sono due fatti politici, e questo è innegabile.
Lo diremmo con la stessa cristallina severità che si deve a Gor’kij quando nei Bassifondi – altro titolo del dramma dei primi del Novecento insieme anche a Il dormitorio, Il fondo, Senza sole – ammette che «tutti gli esseri umani hanno piccole anime grigie… e tutti se le vogliono imbellettare». Simbolica espressione di un’opera in cui la spietatezza della miseria è esposta e invereconda, aperta dinanzi al pubblico come la bocca dalla fame o le gambe dalla lussuria, ma la magniloquente bellezza di queste anime fiaccate, la loro umanità mutevole, è tale che a prevalere è piuttosto un desiderio inestinguibile di pericolosa libertà. La stessa alla quale pensiamo quando nel 1947 Strehler decise di inaugurare il Piccolo Teatro – un teatro pubblico a servizio della città, quello che oggi si chiama Teatro Nazionale e che è formalmente il Teatro di Roma – proprio con questo testo da lui diretto, in una Milano, e in un’Italia, che si era da poco liberata dalla guerra della violenza nazifascista, portando in scena uno spettacolo che parlava di disgrazia a un popolo disgraziato, non dimenticando però, e da qui la grandezza del testo, la lotta contro la prevaricazione, l’ingiustizia, l’infamia, la schiavitù per emanciparsi dalla povertà senza sentirsene in colpa. Non c’è colpa nella povertà, solo volontà di riscatto, anche e, soprattutto, quando il riscatto fallisce, e sarà proprio il personaggio dell’attore a renderlo tristemente evidente.
In questa dimensione liminale, livida negli angoli ombrati dagli altissimi muri e illuminata da Luigi Biondi con colori realistici, quasi a ricordare certi quadri di Gustave Courbet, si montano e smontano gli alti e i bassi, i sopra e i sotto nelle scene di Marco Rossi e Francesca Sgariboldi: camminamenti, passerelle, tavoli, materassi, panche, fessure e poi porte, porte che si aprono e sbattono. Ad abitarla, una massa di sedici personaggi, ognuno con la sua storia che riguarda la vita prima dell’ingresso in questa sorta di purgatorio, per un copione per il quale, come affermato nelle note dall’autore Emanuele Trevi che ne cura il nitore drammaturgico, «il volume non è di certo determinato dalla quantità di parole, ma dalla densità e Gor’kij è un caso esemplare: per dargli più volume devi togliere molte parole». E ne sono state sacrificate molte, Popolizio aggiunge infatti che «del copione abbiamo fatto otto o nove versioni; quella di settembre era di 78 pagine ed era fantastica. Ma in scena non funzionava». E a togliere è stato consegnato un testo che è diventato agile scrittura, una fluidità corale caratterizzata da cambi di scena organicamente plastici e commoventi, cioè che muovono insieme animo e corpo dell’ensemble, curati dalla cifra poetica e dalla scrittura coreografica di Michele Abbondanza e inscritti nei disegni sonori di Alessandro Saviozzi.
Le donne sono delle idiote (NASTJA, Carolina Ellero) e delle ex prostitute (KVASNJA, Silvia Pietta), delle mogli malate (ANNA, moglie di Klesc Zoe Zolferino), o delle avide (VASILISA, moglie di Kostylev Sandra Toffolatti), sono anche, e ancora, innamorate (NATASA, sorella di Vasilisa Diamara Ferrero) e vorrebbero davvero, nonostante la rigida consapevolezza, un futuro fuori da questo posto sporco e impolverato ma che nessuno pulisce: ogni tanto viene presa in mano la scopa ma più per fare qualcosa o distrarsi da ciò che accade intorno. E poi gli uomini, che sono proprietari (KOSTYLEV, gestore del dormitorio Francesco Giordano), poliziotti (MEDVEDEV, Marco Mavaracchio), fabbri (KLESC, Michele Nani), giocatori d’azzardo (SATIN Aldo Ottobrino), attori (Luca Carbone), principi (Martin Chishimba), baroni (Giovanni Battaglia), cappellai (BUBNOV, Giampiero Cicciò) e poi giovani suonatori (ALESKA, Gabriele Brunelli) e ladri innamorati (PEPEL Raffaele Esposito). Sono questi i ruoli ma rappresentano molto di più, in maniera cangiante e stratificata; i sotto e i sopra, non sono solo quelli fisici e visibili della scenografia, sono anche quelli dei sentimenti; quello che queste persone senza misericordia dicono è spesso diverso da quello che sentono nel profondo, spicca tra tutti la presunta isteria di Nastja, il rancore di Bubnov, il menefreghismo di Klesc. Le psicologie dei personaggi sono infatti approfondite da come questi agiscono in scena e dicono le battute, da come guardano e si guardano tra di loro, e da come sono abbigliati coi costumi di Gianluca Sbicca, la cui riconosciuta maestria dimostra ancora una volta come gli abiti costituiscano l’identità dei caratteri, ne plasmino postura e corporatura. Il ruolo “altro” del pellegrino LUKA, una presenza tra il messianico e il farabutto, che sembra volersi porre al di sopra di questa massa derelitta, è in realtà un’interpretazione del regista Popolizio che si fonde e confonde, che quasi supporta, attraversandola, la prova eccelsa di un cast che fa convergere tutto il portato di sofferenza nelle loro invettive, meschinità, dolori, follie, ultime speranze.
C’è un mondo di eterogenee umanità ne L’albergo dei poveri, e c’è un mondo che ci dice non solo della Russia dei primi del Novecento, in anticipo della Rivoluzione, ma ci parla al presente, delle nuove, e in aumento, condizioni di povertà attuali, chiamate proprio “povertà grigia”, come le “anime grigie” di Gor’kij , o i cosiddetti “nuovi poveri” tra i quali vi sono anche alti tassi di povertà infantile. Non è un caso storico che la messinscena fu proibita nei teatri imperiali di Mosca e San Pietroburgo e debuttò con successo nel 1902 al Teatro d’arte diretta da Stanislavskij e Dančenko: erano liberi loro? No. Si sentivano liberi? Sì. Pericolosamente liberi.
Lucia Medri
visto al Teatro Argentina, Roma – febbraio 2024
Date in calendario tournée:
Roma: Teatro Argentina – 9 febbraio – 3 marzo 2024
Milano: Piccolo Teatro Strehler – 7 marzo – 28 marzo 2024
Napoli: Teatro Mercadante – 4 aprile – 14 aprile 2024
Bergamo: Teatro Donizetti – 17 aprile – 23 aprile 2024
Torino: Teatro Carignano – 29 aprile – 5 maggio 2024
Genova: Teatro Duse – 10 maggio – 16 maggio 2024
Bologna: Teatro Duse – 22 maggio – 28 maggio 2024
Firenze: Teatro della Pergola – 31 maggio – 6 giugno 2024
L’ALBERGO DEI POVERI
uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi
con Massimo Popolizio
e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito, Michele Nani, Giovanni Battaglia
Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Francesco Giordano, Martin Chishimba, Silvia Pietta, Gabriele Brunelli
Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio, Luca Carbone, Carolina Ellero, Zoe Zolferino
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Saviozzi
movimenti scenici Michele Abbondanza
assistente alla regia Tommaso Capodanno
foto di Claudia Pajewski