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La frangibilità è del fiore. Sottobosco di Chiara Bersani

Al Teatro Morlacchi di Perugia, all’interno della rassegna Perché non ballate?, è andato in scena Sottobosco di Chiara Bersani. Recensione

Foto Alice Brazzit

La scena è scura, cosparsa di elementi chiari. Il fondale è segnato da un varco orizzontale, che lascerà trasparire la luce, calda e opaca, oppure affilata, fendente. Chiara Bersani è sul palco.
«Un gruppo di bambini con disabilità si perde nel bosco. O forse sono stati abbandonati. Forse inseguivano un amore. Forse il bosco, un giorno, gli è semplicemente cresciuto attorno». Come un antefatto – che riaffiora dalle profondità di un passato recente ma rimosso – le note di regia riportano al tempo della pandemia, al primo inverno della campagna vaccinale. Gli appunti di Chiara Bersani sono il referto di un sistema che non tiene più, di un’
alleanza tra i corpi saltata: la priorità assegnata a politici e giornalisti, le persone fragili a lungo in attesa di linee guida. «Sono crollate quelle strutture le cui lunghe dita accarezzavano la mia testa sussurrandomi all’orecchio che ero ben accolta, ben accettata». Sottobosco è (anche) il racconto di un “intramondo”, spinto al centro e poi ai margini del discorso pubblico, la storia di come il principio etico di accoglienza sia stato suscettibile all’imprevisto, poco resistente di fronte a un’emergenza biologica. L’allusione all’infanzia – l’etimo è chiaro e rimanda all’impossibilità di prendere la parola – custodisce, sulla scena, l’immagine di una condizione muta e fragile, sovrastata dalla crescita di un bosco, ma ancora dolce e tenacemente evolutiva.

Foto Alice Brazzit

Quando, accanto a Bersani, appare Elena Sgarbossa, l’atmosfera si addensa appena. La poetica del silenzio si sostanzia della compresenza, della scelta di abitare la prossimità tacendo. Nel quadro delicato dell’ingresso, il suo incedere e il nero del suo vestito ricordano le figure femminili del pittore danese Vilhelm Hammershøi, spesso ritratte di spalle, immerse nel crepuscolo della luce nordica e in un’atmosfera di intimità dolente.  Attorno al silenzio verbale, il bosco si espande in forma di paesaggio sonoro, fatto di crepitii come di ghiaccio o di gusci infranti, di mormorii larvali, di ronzii e soprattutto del suono familiare del vento che, amplificato, si trasforma in boato. Nel gioco di sproporzioni determinato dalla vulnerabilità, l’ordinario può manifestarsi come apocalittico e minaccioso e, dall’atto di descriverlo esattamente così come è percepito dal luogo in cui si è, si sprigiona una scelta radicale e politica.

Il sottobosco è materia organica, i corpi sono spezzati («la mutilazione è un linguaggio» scriveva Lorrie Moore), il movimento può farsi così minuto e sottile (e lo sguardo così vigile e vergine nel percepirlo) da somigliare al fremito, la luce pulsa e trema riflessa sulle colonne del proscenio, i suoni e gli ultrasuoni, governati da Lemmo, si infittiscono fino al frastuono, per poi lentamente diradarsi e, di nuovo, fluidificarsi. Il corpo di Chiara Bersani rappresenta uno dei vertici del disegno scenico, ma un vertice sul quale lo sguardo non si impiglia troppo a lungo, un elemento inscritto in un quadro più largo, vivo e denso, entro il quale si smarrisce la nozione di conformità (e dunque anche quella di “eccentricità”) e gli argini della percezione si fanno labili, disponibili al dilagare.

Foto Alice Brazzit

La poeta americana Audre Lorde utilizzava, a proposito del suo romanzo Zami. Così riscrivo il mio nome (2014), il termine bio-mitografia, intendendo la possibilità di intrecciare il racconto della propria storia, incarnato in modo imprescindibile nel corpo – in quel caso un corpo malato, nero e marginalizzato – con una narrazione mitologica. La verità sensibile della carne diventa strumento di militanza politica e di risalita fino alle origini di una memoria archetipica profonda che, come il mito insegna, si compone di molte metamorfosi. Questa idea cangiante di corpo, però, non opacizza né confonde in alcun modo quella di “disabilità”. In un’intervista del marzo 2017 di Dalila D’Amico, su Sinestesieonline, Bersani espone una posizione che appare a distanza di anni – nella progressione della sua indagine scenica e nella composizione di un panorama di ricerca sempre più approfondito che esamina i rapporti tra disability studies e performing arts – nitidamente confermata: «Io amo il termine disabile. È preciso, pulito, chiaro. Ogni tentativo di modificarlo si è rivelato goffo, una sbrodolatura lessicale irritante e perbenista […] Disabilità e handicap sono due vocaboli che considero intoccabili e difendo con fermezza». Se è vero che la nozione stessa di disabilità (in modo simile a quella di genere) si è svelata nella sua natura di costrutto sociale, determinato da una serie di palinsesti culturali, rappresentazioni e modelli storicizzabili, è altrettanto imprescindibile, in essa, un elemento di alterità. L’alveo nel quale la drammatizzazione scenica di questa alterità può realizzarsi deve, di conseguenza, implicare la relazione con il contesto, significare in termini nuovi le idee di possibilità, di somiglianza, di prossimità, ma anche di paura e di barriera. La corporeità di Chiara Bersani esprime la propria energia, la propria trascendenza rispetto al segno, nel dialogo con la totalità dell’opera, e nel sondaggio (come sempre accade, quando si tratta di corpo) del proprio limite. Nelle partiture gestuali che esplorano i gradi di avvicinamento e di tensione tra le due interpreti, sembrano essere delicatamente soppesati sentimenti di minaccia, sopraffazione, arretramento, e poi confidenza, abbandono, cura, costruzione di una possibilità di vicinanza fondata su di un alfabeto di segni intimi e nuovi, forse irripetibili, a volte minuscoli, che sbocciano, infine, in un abbraccio elettrificato e rampicante.

Foto Alice Brazzit

E l’elettricità, nel sottobosco, continua a scorrere sotto varie, e mai mentite, spoglie. Nella cura del suono, che regala una densità sintetica, un continuo palpito vitale al dispiegarsi dell’azione, nel rapporto misterioso tra la natura (il bosco) e il suo artificio (il sistema di amplificazione che rende udibile ciò che rimarrebbe celato), nell’idea di tecnologia come evoluzione dell’umano, come sua protesi e strumento di rivelazione. Qualcosa di simile a quello che sosteneva Mariangela Gualtieri in un’intervista del 2022 apparsa su queste pagine: «La tecnica mi sembra sempre più venire a far parte del ‘naturale’ dell’umano. Non abbiamo artigli, corna, denti affilati, radar, morsi velenosi… abbiamo la tecnica a nostra difesa e potenziamento. […] La barriera fra naturale e tecnologico mi sembra sempre più ingarbugliarsi».

A questa barriera ingarbugliata (e ai tanti diaframmi forse inesistenti che però, nell’esigenza-pretesa di segnare confini, ci portiamo nello sguardo) sto ancora pensando quando, come un soccorso, arriva la parola. La voce di Bersani districa, conducendolo nel regno del dicibile, cioè che poco prima era ancora battito, immagine, risonanza: «Senza contorni, tu non puoi cadere, io non mi posso fratturare. Senza contorni, tutto fluttua, niente si spezza. Senza contorni, è solo questione di intensità […] Se tutto dovesse ripartire […] da un crollo verticale sono nate le montagne. […] Vuoi sapere da dove è nato il mondo? Dalle catastrofi, dai nostri corpi rotti».

Elena Sgarbossa scende dal palcoscenico e inizia a invitare a salirvi alcune delle persone in platea. Si tratta dei partecipanti al workshop Sotto il sotto del bosco, una tre giorni gratuita, rivolta a persone con disabilità motoria, che si è conclusa poche ore prima. Questa modalità di lavoro – oltre a radicare l’opera nel tessuto cittadino che ogni volta la accoglie e a determinarne il respiro sempre nuovo – aggiunge limpidezza alla limpidezza, ristruttura l’idea di cum-fidentia, come gesto di accudimento, di abbandono profondo e di ascolto moltiplicato, in un tempo che si fa verticale, abissale ma collettivo. E allo stesso modo anche l’atto di accompagnare (quello agito dai caregiver che, in due casi, sostengono i passi degli interpreti e si posizionano accanto a loro sul palco, ma anche il nostro, di astanti) si rivela nella sua sconcertante e silente profondità. Con gradualità, la scena sembra fiorire. Gli equilibri sono delicati, seppelliti, ma presenti e scrutabili. L’altro, l’altra sono finalmente avvicinabili, e lo sono sempre stati. La frangibilità è del fiore.

Teatro Morlacchi, Perugia febbraio 2024

SOTTOBOSCO

azione, creazione, testi Chiara Bersani 
azione, performer Elena Sgarbossa 
suono e consulenza drammaturgica Lemmo 
disegno luci, scena e direzione tecnica Valeria Foti 
costumi Ettore Lombardi 
drammaturgia Chiara Bersani, Giulia Traversi 
consigli e occhio esterno Marco D’Agostin 
assistente Simone Chiacchiararelli 
cura e produzione del workshop Chiara Boitani 
promozione, cura, booking Giulia Traversi 
comunicazione e press kit Dalila D’Amico 
logistica, organizzazione, produzione Eleonora Cavallo 
amministrazione Chiara Fava 
produzione Corpoceleste C.C.0.0#  

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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