Zio Vanja di Leonardo Lidi, secondo capitolo della trilogia Progetto Čechov – prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria – è stato finalista Ubu 2023 per la migliore regia. Tra qualche mese debutterà a Spoleto Il giardino dei ciliegi. Abbiamo intervistato il regista.
Nel saggio The Russian Point of View (1925), Virginia Woolf scrive che a interessare Čechov più di tutto sembra essere più la relazione dell’anima con la salute, con la bontà: «L’anima è malata; l’anima è guarita; l’anima non è guarita […] Una volta che l’occhio si è abituato a queste sfumature, la metà dei «finali» della letteratura d’immaginazione svanisce nel nulla; diventano schermi trasparenti con una luce dietro: vistosi, ovvi, superficiali. […] Sentiamo che niente è stato risolto; che nulla è rimasto saldamente sistemato».
A questa qualità sottile e imperturbabile, mai clamorosa però così evidente, della poetica čechoviana sembra rinviare anche il lavoro condotto da Leonardo Lidi che, nel panorama del teatro italiano, ha conquistato una propria voce e un proprio spazio, come dichiara lui stesso, «avanzando attraverso i classici». Dopo Strindberg, D’Annunzio, Ibsen, Garcia Lorca, nel 2022 è misurato con Čechov – che definisce suo autore preferito e sua scuola – realizzando un applaudito adattamento de Il gabbiano, che ha debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Si è trattato del primo capitolo di una trilogia dal titolo eloquente e sintetico, Progetto Čechov, prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria (in coproduzione con ERT Emilia Romagna Teatro, Teatro Stabile di Torino e Spoleto Festival), composta di Zio Vanja (che ha debuttato nel 2023, finalista ai premi Ubu 2023 per la migliore regia) e Il giardino dei ciliegi, atteso per l’estate 2024. Nel frattempo, Lidi sta lavorando come vicedirettore e coordinatore didattico presso la scuola del Teatro Stabile di Torino, al fianco di Valerio Binasco, è direttore del Ginesio Fest e, in questi mesi, sta preparando un adattamento di Medea – protagonista Orietta Notari, produzione Teatro Stabile di Torino – che andrà in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri in aprile.
La sua voce, al telefono, conserva un tratto di frenesia, l’indizio di un pensiero che tiene insieme molti impegni e responsabilità, eppure, nel racconto di questo periodo della sua vita, riesco a cogliere anche una distensione: il dialogo profondo tra le attività, una concezione forte, disciplinata e politica della funzione del teatro e dell’attore, che infonde nelle sue regie quanto nei suoi incarichi di carattere didattico e di direzione artistica.
In un’intervista del dicembre 2020 a Rolling Stone definisci il teatro «una sorta di “storico” delle emozioni». Il tuo lavoro su Čechov, in effetti, è attraversato da questa cognizione del fatto che i grandi pensatori di varie epoche si siano trovati al cospetto di alcune questioni comuni…
Il teatro per me è stato un vero percorso formativo e di emancipazione, come persona prima ancora che come artista. Provengo da una realtà praticamente priva di teatro – la mia è una famiglia operaia della provincia piacentina – e imbattermi in esso è stato l’innesco di una possibilità nuova e imprevista. È per questo che lavoro, giorno dopo giorno, cercando sempre di tenere presente quel ragazzo, quella ragazza molto giovane che entra in sala per la prima volta e si può trovare, come è stato per me, al cospetto di qualcosa che non lo esclude, che anzi diventa motivo di un confronto di pensiero. Come è ovvio, alcuni autori mi hanno parlato con più immediatezza di altri e tra questi c’è il filo rosso tracciato da Tennessee Williams e, prima ancora, da Čechov. Tendo a legarli perché, anche storicamente, esiste una profonda congiunzione tra loro, ovvero, come è noto, Williams è stato un grande lettore di Čechov, tanto da chiudere la propria carriera (e la propria vita) con The Notebook of Trigorin, una libera riscrittura de Il gabbiano nel quale viene centralizzata la figura di Trigorin, e il ruolo giocato dal suo taccuino. Mi piace poi pensare che questo filo rosso ci conduca dritti dritti a Woody Allen che, praticamente in ogni sua opera, cita o allude a Čechov o a Williams. Questi testi mi hanno aiutato a comprendere la materia, e mi hanno permesso di appassionarmi a essa. Il gabbiano è stata la prima opera čechoviana a parlare in modo così diretto all’adolescente che ero, e anche a determinarne il destino.
E infatti è proprio da lì – da Il gabbiano – che si origina Progetto Čechov, una trilogia prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria, che ha segnato questi tuoi ultimi anni di lavoro e che vedrà la sua ultima tappa con il debutto, l’estate prossima a Spoleto, de Il giardino dei ciliegi.
Tutto nasce nel periodo della pandemia e da un rapporto professionale già instaurato con il direttore del Teatro Stabile dell’Umbria, Nino Marino: si parlava di ripartenza, avevamo in lavorazione La signorina Giulia di Strindberg e si immaginava di poter avviare insieme un progetto più strutturato e lungo. Negli stessi giorni, l’allora premier Giuseppe Conte se ne uscì con l’affermazione, poi divenuta celebre nei nostri circuiti: «Sosteniamo gli artisti che tanto ci fanno divertire».
In un periodo che era già di enorme complessità per tutti – ma forse un po’ di più per quei lavoratori dello spettacolo che si trovavano senza ammortizzatori economici, né prospettive chiare – quella frase generò un certo scompiglio, molte reazioni. C’era un grande fiorire di associazioni, piattaforme e luoghi virtuali dove discutere, spesso dove scandalizzarsi tutti insieme. Io non sono fatto così, la mia attitudine naturale mi porta a vivere il teatro in modo più “intimo”, a volte rischiando di apparire, se non burbero, introverso. La questione quindi, per me, è stata reagire con il mio lavoro. La scelta di Čechov, di attraversare la sua opera con una trilogia, è stata determinata dal fatto che nessuno come lui riesce a infondere nello spettacolo un così profondo amore per l’attore, e per il ruolo dell’attore. Se non ci fosse stato questo intersecarsi di esigenze e urgenze, avrei forse aspettato ancora qualche anno prima di avvicinarmi a Čechov, continuando nel frattempo a studiarlo. Guardandomi ora indietro, penso che il tempo della pandemia – che poteva essere uno spazio profondo, sensibile, di cura, di lettura – sia diventato spesso un tempo confusionario e non costruttivo, perché angosciato dal pensiero che forse non saremmo tornati a lavorare. Questo progetto mi ha dato modo di mettere al centro un gruppo di attori, selezionati con cura, di tutte le generazioni, provenienti da percorsi molto differenti tra di loro. Volevo comporre una compagnia che fosse, in qualche modo, “metafora” del teatro italiano, facendo lavorare insieme attori con percorsi indipendenti e attori con percorsi più “classici”, tutti però caratterizzati da un’esperienza diretta con la lezione dei grandi maestri italiani di fine Novecento. Ci sono quelli della mia generazione, nati nel totale precariato, e quelli ancora più giovani, che stanno iniziando adesso, ci sono quelli “di compagnia” e quelli che si sono formati in luoghi più periferici: una visuale a 360 gradi, anche in senso geografico. La scelta, poi, di stabilire questa “cronologia” – Il gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi – che vede l’esclusione di Tre sorelle, oltre a essere legata a ragioni di cast, vuole configurare una precisa riflessione sul “fare teatro”. Il gabbiano segna la possibilità di ritrovare lo spettatore dopo le chiusure ed è un’interrogazione sulla forma, cioè sul come proporci al pubblico dopo questa specie di “peste shakespeariana” che ci ha sconvolti. Questo richiede anche la complessità della macchina teatrale: sul palcoscenico quindi abbiamo drammaturghi, registi e spettatori, e ci si domanda se andare avanti sulla via di Trigorin o sulla via di Kostja, muovendoci nel realismo della tradizione oppure nell’astrattismo giovanile di simboli e ricerca. Dopo aver trovato la forma (e averla rintracciata nella storia, quindi nella “volatilizzazione” dell’astrattismo di Kostja, simbolizzata nel volo del gabbiano), si avanza nel tempo, perché la dimensione della temporalità in un lavoro come questo è essenziale, come lo era per Čechov. E quindi in Vanja l’interrogazione intima si sposta sul tema, doloroso per chi fa il nostro lavoro, dell’ininfluenza: quanto riusciamo a essere “significativi” per il nostro pubblico e per la società? È una domanda che genera frustrazione, incomprensione e spesso anche tante criticità personali, difficoltà a situarsi nella rete sociale in modo chiaro. Poi si arriva al Giardino, e al centro poniamo un luogo – una casa, un giardino – che deve essere venduto, abbattuto perché non è più utile. Raccontiamo di un percorso verso la privatizzazione, ed è un percorso preciso, che richiede sincerità d’animo, il coraggio di non nascondersi e di ridiscutere in profondità i nostri ruoli. In questo inizio secolo, che è anche inizio millennio, è necessario, dopo aver guardato al secolo scorso con nostalgia, porci domande su come andare avanti tutti insieme. Quando vado in alcuni teatri tedeschi, da spettatore, noto subito le foto degli attori appese alle pareti: mi ricordano che quella è casa dell’attore e che il legame tra lui e il suo pubblico è naturale e familiare, ormai appreso, inscritto nel luogo che li ospita. In Italia è più faticoso (e lo dico da regista che ha smesso di recitare in teatro) e organizzare il “movimento” su diversi ruoli di questa compagnia è stato anche un modo per studiare l’articolata progettualità che la governa. Una progettualità che guardo con molto affetto. È un momento importante, delle nostre vite e non solo del nostro lavoro, e il fatto di aver accettato il ruolo di coordinatore didattico presso la scuola del Teatro Stabile di Torino mi riporta quotidianamente al pensiero che il sistema teatrale deve prendersi cura delle vite dei propri attori, preservandoli. Il rapporto con gli attori in formazione consente anche di dettare una linea nella cura della persona, a partire dalle stesse domande: cosa è un attore nel 2023? Cosa è un attore nel nuovo millennio e in un sistema produttivo che evolve? Non abbiamo ancora le risposte, ma dobbiamo porci le domande. Il primo spettacolo che ho fatto quando ho avuto una reale possibilità produttiva è stato Spettri e non si è trattato di un caso. Avvertivo e avverto ancora l’idea di società prospettata da Ibsen come molto simile alla nostra: spaventata dai propri spettri, ma nascosta dietro di essi, priva della forza di combatterli. I concetti nostalgico-museali che troviamo in teatro sono poi gli stessi che ingombrano la politica e la società: serve la forza di creare un dialogo sincero, non ci può essere uno stacco classista e inutile tra il mondo iper-finanziato della televisione e quello così difficile del palcoscenico. Io credo (perché la pratico) nella possibilità di contatto tra i mondi del cinema, della tv e del teatro e non sono nessuno per puntare il dito. Però, proprio perché mi appartiene questa difficoltà generazionale, voglio creare un movimento che abbia una struttura e, grazie alle possibilità che mi sono messe a disposizione, un ambiente nel quale credere, in cui ci sia spazio per un pensiero collettivo. Altrimenti è solo una corsa a tirare in salvo la propria scialuppa.
Sempre in riferimento a questo pensiero allargato alla società, dal tuo “osservatorio europeo”, come ti appare, da un punto di vista produttivo ma anche “di pensiero”, la dimensione teatrale italiana, rispetto a quella estera?
Come scrivevo l’estate scorsa nel mio intervento su La Lettura del Corriere della Sera, a partire dal dibattito di Franco Cordelli, non credo che questo sia un periodo negativo. Si sta muovendo qualcosa, mi sembra ci sia un gruppo di direttori artistici che sta lavorando con sincerità, cercando di fare sempre meglio. Non mi sento critico rispetto all’operato generale, la mia storia almeno mi testimonia questo: che una persona senza santi in Paradiso e senza parenti illustri può ricevere la possibilità di lavorare in modo continuativo, e anche di ricoprire ruoli politici. La questione politica più urgente, per me, è quella di mettere l’attore al centro: si tratta di una necessità che ho elaborato e approfondito anche grazie alla lezione e al lavoro condiviso con Antonio Latella, da sempre molto sensibile all’esigenza di creare spazi che consentano agli attori teatrali di fare bene il proprio lavoro, senza doversi per forza rifugiare, per ragioni di sicurezza e sostentamento, nel mondo della televisione o in quello del cinema. In questo, il sistema tedesco (e, per alcuni aspetti, anche quello francese) offre un pensiero operativo molto valido e, secondo me, applicabile anche da noi, con i necessari accorgimenti. Non si può immaginare che i neodiplomati delle scuole, dopo aver superato una selezione di ingresso severa e dopo tre anni di studio, siano “foglie al vento” e trovo che si stiano introducendo, sempre di più, degli interventi che creano continuità. Penso al mio lavoro con Valerio Binasco alla scuola di Torino, ma anche, ad esempio, a Carmelo Rifici che sta portando avanti una bellissima progettualità con i ragazzi del Piccolo, e come noi altri. La questione è complessa, ma è fondamentale che ci si inizi a porre le domande in modo serio e sistematico. Anche perché, come sappiamo dalla fine del Novecento, dove c’è un sistema forte e stabile si possono creare anche delle riflessioni alternative, dei luoghi di indipendenza altrettanto forti.
Nel tuo modo di immaginare la scena, come è ovvio, ma anche nel tuo modo di inquadrare verbalmente le questioni tecniche e politiche – il teatro come «casa dell’attore», «porre al centro», «creare luoghi di indipendenza» – mi sembra attiva una poetica dello spazio molto precisa (per citare Gaston Bachelard), un pensiero costante alla “spazializzazione” dell’evento…
La mia immaginazione visiva e spaziale non funziona mai come un’immaginazione “a lampo”, non è mai una sorta di «Eureka, ho trovato la scena!», ma si compone per gradi, in relazione alla drammaturgia, perché per me il testo è punto di partenza e punto di arrivo. In media, la preparazione di uno spettacolo mi richiede circa un anno e si tratta di un percorso di studio molto approfondito, che si avvia dal testo, immette elementi nuovi e poi, progressivamente, li cede, per tornare a un punto originario, con una consapevolezza aumentata. Anche il lavoro sulle scene e sui costumi è orientato in un modo analogo. Nella trilogia, siamo partiti da uno spazio vuoto e spaesante, ne Il gabbiano, per poi restringerlo fino all’asfissia, fino a un punto oltre il quale non si può andare, per Zio Vanja. Ora vedremo quale sarà la “formula”, la configurazione del paesaggio esteriore e interiore de Il giardino dei ciliegi. Ho dei collaboratori molto validi che ragionano con me quotidianamente, sempre in un corpo a corpo ineludibile con la parola scritta. Questo mi dà l’occasione di aggiungere un tassello importantissimo: l’altro aspetto essenziale da curare, all’interno di un ragionamento ampio sul sistema teatro, è l’investimento sulla nuova drammaturgia. Per guardare in avanti, è necessario scrivere drammaturgia contemporanea, e te lo dico da innamorato dei classici. Però credo che dobbiamo assolutamente trovare anche parole nuove per riflettere sulla nostra condizione, facendo di questa scrittura una “materia esportabile” fuori dall’Italia. Di nuovo: con la paura non si crea nulla, in un mondo di precariato mancherà sempre lo spazio, appunto, per inventare, perché la sensazione rimarrà sempre quella di dover “trovare una soluzione”, a livello drammaturgico, registico e anche recitativo. Invece il punto non è risolvere, ma cercare. Mi hai chiesto un “pensiero visivo” sul teatro. Ecco, io vedo un teatro che si divide in due strade: una è la strada dei classici, dei quali dobbiamo impossessarci, usarli come cassa di risonanza delle domande, perché dalle domande del passato si sollevano risposte sul presente; l’altra è quella delle nuove scritture. È forse la strada più misteriosa e più ambiziosa e, per questo, la meno pigra. È indispensabile percorrerla.
Ilaria Rossini