| Cordelia | ottobre 2024
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di ottobre 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#PALERMO
GUERRA E PACE (regia Luca De Fusco)
In Guerra e pace Tolstoj aveva significato, con monumentale sintesi, la coincidenza di vita individuale – il mondo interiore del singolo – e storia generale. Affresco superbo delle implicazioni politiche, culturali ed esistenziali legate alle campagne napoleoniche in Europa, il romanzo descrive il consumarsi di una parabola talmente ampia la cui riduzione teatrale non si può certo considerare un fatto di immediata attuazione. Ne abbiamo seguito a Palermo il tentativo di Luca De Fusco, che in questa produzione del Biondo inserisce la vicenda entro il quadro offerto da un suggestivo (ma appena didascalico) palazzo in rovina (di Marta Crisolini Malatesta). Lungo le scalinate si svolge la complessa trama narrativa, puntellata da soluzioni di composta estetica. L'intreccio, declinato come successione di episodi ai quali i protagonisti hanno accesso simultaneo o successivo, viene smembrato in fatti minimi che tuttavia sembrano mantenere complessiva unità. E se questa, tuttavia, poteva essere ancora più asciutta, per così dire "essenzializzata", il rischio della potenziale disgregazione viene evitato dalla scelta di mantenere un equilibrio non coraggioso ma solido, che rifiuta la ricerca di soluzioni forzatamente originali preferendovi la tutela della limpidezza narrativa. Non esalta e non dispiace, insomma: una resa democristiana e nazional-popolare (prodotta di concerto con il Teatro di Roma e lo Stabile catanese) che certo odora di naftalina, ma che si pone rispetto al dramma con una certa autorevolezza, consentendone piena leggibilità. Le interpretazioni caratterizzano i personaggi esponendoli all'empatia del pubblico; Mersila Sokoli rende credibilmente la delicata e nevrotica umoralità di Nataša e ne consente, nel dramma, lo svolgersi in un coinvolgente Bildungsroman (Tiziana Bonsignore).
Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Lev Tolstoj, adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco, regia Luca De Fusco, aiuto regia Lucia Rocco, scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, luci Gigi Saccomandi, musiche Ran Bagno, creazioni video Alessandro Papa, coreografa Monica Codena, con (in o.a.) Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri, produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania / Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Foto di Rosellina Garbo
DI GIORNO E DI NOTTE (regia Cinzia Maccagnano)
Giorno, notte, giorno è il romanzo di Beatrice Monroy (Perrone, 2022) da cui è tratto Di giorno e di notte, produzione del Teatro Biondo per la regia di Cinzia Maccagnano. Il testo in origine sembrava preludere a qualche interessante sviluppo drammaturgico, nella sua netta scansione tra i dì e le notti entro cui si svolge la vicenda delle protagoniste, due amiche legate da un misterioso fattaccio – ovviamente a sfondo mafioso. La resa teatrale riduce tuttavia il peso questa scelta, che pure poteva sembrare allettante, e in genere ne cava fuori un drammone dai toni esasperati. Siamo negli anni del boom edilizio, in quell'intrigato complesso in cui gli interessi dei palazzinari, della mafia, della nuova classe dirigente trovano coincidenza nel cemento e nel suo impiego urbanistico. Nella nuova città borghese, che accoglie come una madre il nuovo, ipertrofico ceto di dipendenti pubblici, s trovano a vivere Matilde (Simona Malato) e Carla (Luisa Lombardo). Chiuse nelle grandi scatole mobili in cui abitano (scene e costumi di Valentina Console), e da cui soltanto Matilde ha qualche sparuta possibilità di allontanamento, le due vivono in una simbiosi imposta dalla comune memoria, privata e storica. Attorno a questa fusione girano i rapporti affettivi con i rispettivi compagni (interpretati da Giuseppe Randazzo e Dario Muratore), e con la giovane domestica (Maria Chiara Pellitteri), anch'essi coinvolti dai crimini cui il dramma allude. Teso tra tentativi cinematografici e inutili dispendi energetici, perseguiti talvolta con inverosimile enfasi, il dramma risulta complessivamente articolato sul susseguirsi di temi prevedibili e stereotipati, ai quali le movimentate soluzioni sceniche adottate non riescono a fornire soluzione e bilanciamento. Simona Malato cade in piedi, e di fatto è la sua interpretazione a garantire la sostenibilità della vicenda; per il resto i moduli narrativi si inseriscono in un racconto abbastanza convenzionale del fatto di mafia, e a questi disgraziatamente il dramma soggiace. Ottimo soggetto per una fiction Mediaset (Tiziana Bonsignore).
Visto al Teatro Biondo, Palermo, in prima assoluta. Crediti: di Beatrice Monroy, libero adattamento dal romanzo Notte, giorno, notte (ed. Perrone, Roma 2023), regia Cinzia Maccagnano, scene e costumi Valentina Console, con Simona Malato, Viviana Lombardo, Dario Muratore, Giuseppe Randazzo, Maria Chiara Pellitteri, musiche e progetto sonoro Federico Pipia, riprese e montaggio video Sandy Scimeca, assistente scene e costumi Felicetta Giordano, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.
#ROMA
FONÈS (Luca Trezza e Francesca Muoio)
Le voci. Emergono dal tempo e attraverso il tempo, suoni che evocano memorie e lasciano sul presente un velo di opacità. Perché nel suono della voce c’è la lingua, quella particolare affezione del suono nel piegarsi in una riconoscibile cadenza. E mai la lingua, punteggiata dalla pronuncia che ognuno vi poggia dentro, sarà qualcosa di puro. Fonés è un calco dal greco, suoni emessi dal cavo della voce umana che rimandano a personaggi, storie, atmosfere e ambienti, un bagaglio che dal passato permea interamente il presente. È questo sentimento che Luca Trezza e Francesca Muoio, attori e autori dello spettacolo omonimo in scena allo Spazio Diamante, hanno masticato nella bocca perché nella lingua intesa come elemento corporeo dell’articolazione vocale, appunto, si creasse un certo linguaggio. Il rimando è a Napoli, l’immaginario – non troppo originale a dire il vero, a causa dell’ipertrofia dei riferimenti mediatici attuali – in cui la città prende forma, l’area identitaria in cui essa sviluppa la natura dei propri abitanti. I due ottimi attori, animati da una forza primigenia che affonda in un’esperienza di grande profondità, abitano lo spazio quasi vuoto percorrendolo in verticale, dal fondo fino al confine con la platea, ondeggiando da un estremo all’altro in cui far vivere i propri personaggi. In una Napoli talvolta ostile ma sanguigna, essi si manifestano esponendo gli eventi che li riguardano, spesso tragici, come fosse una Spoon River partenopea: donne sfruttate e uccise come cose inutili che non servono più, giovani colpiti da spari di pistola vaganti, uccisi dalla balistica e dalla sorte, criminali morti nell’esercizio del proprio disfacimento, mogli ripudiate per aver dato sfogo all’istinto d’amore, una sequenza di personaggi che hanno in comune un destino di morte e decadenza, stretto tra due emozioni mai come in certi luoghi così intrecciate: l’eccitazione e il dolore che si rincorrono, si mescolano, diventano linfa di un popolo e della sua disgraziata evoluzione. (Simone Nebbia)
Visto a Spazio Diamante. Crediti: scritto e diretto da Luca Trezza e Francesca Muoio; produzione Compagnia Formiche di Vetro Teatro. Foto Emilia Vitulano
MINE-HAHA OVVERO DELL’EDUCAZIONE FISICA DELLE FANCIULLE (Marco Corsucci)
Un’impacciatezza del corpo, teso a replicare una postura vista chissà dove, chissà da chi – forse in tv, da un genitore, dall’amic* del cuore. Eppoi i confini di un parco, casette bianche, gruppuscoli di coetane* e schiamazzi, il desiderio di essere-come, la curiosità per il corpo dell’altra, l’esposizione di sessi ancora non-schiusi. Mine-haha di Frank Wedekind è un testo che buca la sua epoca, la Bélle epoque, prestandosi a letture attualissime. Lo sguardo di Marco Corsucci e Matilde Bernardi spreme il racconto in 45’ ipnotici, dalla geometria netta, sapiente, perturbante. Il corpo di Matilde Bernardi, muto ma eloquentissimo, è inscritto in un telo bianco a terra da cui non c’è scampo, brano di luce che rende possibile, in quanto tale, la visione di ciò che vi ricade. Quel lacerto bianco steso è forse la metafora delle villette bianche del racconto di Wedekind: immerse in un parco, avviene in esse l’educazione fisica delle fanciulle di una società distopica – fanciulle destinate a un’educazione infinitamente ripetibile e omologante. Chi si sottrae alle regole è condannata a restare a vita nel parco, verde interstiziale di questa green-city penitenziale – parco a sua volta cinto da alte mura. Nel testo si affastellano argomenti singolari e urgenti: dalla profezia concentrazionaria a una robusta critica all’omologazione educativa dei corpi. Ma l’operazione di Corsucci e Bernardi, che con Mine-haha hanno vinto il Premio Silvio d’Amico alla Regia (in collaborazione con Romaeuropa), va ben oltre il riuscitissimo adattamento: la potenza del racconto è filtrata da una sapiente layerizzazione di drammaturgie, dal movimento al paesaggio sonoro, dalla parola fuori campo a dettagli visivi che ricordano un’opera analoga per straniamento e temi – Picnic ad Hanging Rock: lì, come sulla scena, siamo testimoni della sparizione magica, violenta e paradossale di un corpo femminile. L’interrogazione di quel corpo cancellato, attraverso un gioco di sguardi e nudità, evoca la nostra corresponsabilità voyeuristica, senza puntare il dito: se ne esce straniati e partecipi. (A. Zangari)
Visto a Mattatoio – Romeuropa Festival. Crediti: un progetto di Marco Corsucci e Matilde Bernardi; ideazione e regia: Marco Corsucci; con: Matilde Bernardi; spazio e luci: Flavio Pezzotti; suono: Federico Mezzana; Produzione Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival – con il sostegno di TPE – Teatro Piemonte Europa
1984 (regia di Giancarlo Nicoletti)
Anche senza cadere nella trappola dei complottisti è impossibile non trovare similitudini tra il nostro tempo e quello raccontato da George Orwell in 1984, alcuni troveranno il Big Brother negli algoritmi dei social network, altri nei regimi autoritari che fanno del controllo capillare una delle loro armi, altri ancora si ritroveranno nell’impoverimento generalizzato delle lingue nazionali, in quella tensione alla semplificazione della neolingua, oppure negli annunci dei governi e nelle leggi più assurde che sembrano saltate fuori da un romanzo distopico: la gestazione per altri come reato universale, l’Albania in cui delocalizzare i migranti… Il rilancio al presente è un merito dello spettacolo visto al Quirino. Il regista, Giancarlo Nicoletti, d'altronde si è affidato al fortunato adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan del 2013. I due autori inventano (a partire dall’appendice del romanzo) un piano narrativo ulteriore, un 2050 in cui un gruppo di persone, appartenenti a un circolo di lettura, commenta quello che accadde negli anni del Partito leggendo il diario di Winston, il protagonista del racconto. La cornice di certo aiuta a creare un ponte col presente ma allo stesso tempo rischia di spiegare troppo, di evidenziare questioni già presenti nella vicenda. Siamo di fronte a una produzione importante, per numero di attori e impianto scenografico, c’è anche una stanza con il green screen e le telecamere che riprendono Winston e Julia in clandestinità, e schermi in cui le immagini vengono proiettate, non manca la voce femminile che rimanda al controllo del Grande Fratello prima dell’inizio e il sangue durante la scena della tortura: Nicoletti vuole colpire, divertire, forse un po’ scioccare, a tratti ci riesce, ma la resa generale non è sempre credibile, sia nella scenografia futuristica che nella recitazione. Appassionano Woody Neri e Ninni Bruschetta - complici anche certe leggere coloriture dialettali -, ma il cast avrebbe bisogno di una ricerca più netta sulla verità scenica, l’alternativa è la solita recitazione un po’ stereotipata e di plastica. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Quirino. Produzione Goldenart Production Adattamento Robert Icke, Duncan MacMillan Traduzione Giancarlo Nicoletti Regia Giancarlo Nicoletti Interpreti Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri e con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues, Chiara Sacco Scene Alessandro Chiti Costumi Paola Marchesin Musiche Oragravity Disegno video Alessandro Papa Disegno luci Giuseppe Filipponio
#MILANO
MEIN KAMPF (di Stefano Massini)
“Stefano Massini porta in scena il delirio di Hitler”, “Un vaccino contro l'ideologia nazista”, “Massini ci svela il male condiviso”, “Un vaccino teatrale contro il totalitarismo”, “È orrore puro ma è necessario”: delirio, male, orrore, vaccino…sono solo alcune delle parole più ricorrenti che si ritrovano nei titoli di giornale che parlano dello spettacolo di Stefano Massini, portato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano a ottobre e praticamente sold out per due settimane. E da Mein Kampf, scritto condannato per mezzo secolo all’oblio e solo di recente recuperato da quella pericolosissima damnatio memoriae, rievoca proprio gli stadi germinali di quell’orrore, di quel delirio contagioso che diventarono parte della Storia che conosciamo. Massini ci rivela però una verità che già si spera consolidata: Hitler non è nato mostro, era un uomo qualunque, con esperienze di uomini qualunque, eppure il potere delle sue parole, di cui ancora abbiamo paura (in paesi come Austria, Israele e Cina, il libro è ancora considerato illegale e si conservano solo poche copie per lo studio universitario) cambiò il corso della Storia per sempre. Parole intrise di rabbia, frustrazione e disillusione giovanile, interpretate da un Massini che per 80 lunghi minuti di monologo è tutto pathos e troppo se stesso per essere Hitler. Su una pedana bianca, pagina ancora da scrivere, l’autore e regista fa cadere libri, vetri e valigie di chi non c’è più e rumori assordanti cercano di scuotere alcuni di noi dal torpore di una narrazione poco originale, perché reitera uno stereotipo che necessita forse di cambiare forma per arrivare davvero alle nuove generazioni. “Da dove si inizia per cambiare la Storia?” recita un titolo, ma – cosa forse ancora più urgente in questa sede critica – da dove si inizia per cambiare come la Storia viene percepita? (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler, scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda, costumi Micol Joanka Medda, ambienti sonori Andrea Baggio, produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana, Foto Masiar Pasquali
I PIANTI E I LAMENTI DEI PESCI FOSSILI (Annamaria Ajmone)
C’era un tempo in cui i pesci comunicavano parlandosi in modo gentile. Era un tempo lontano, non connotato dalla presenza umana. Ora, nel mondo che noi tutti conosciamo, quei pesci urlano per farsi sentire. Che ne è della risonanza della loro voce? Che ne è del loro lamento nello spazio-tempo dell’uomo? Annamaria Ajmone si fa interprete di questa vocalità assente, una vocalità forse solo perduta, e assieme a Veza Maria Fernandez Wenger ne ricostruisce la genealogia, avviando la performance prima con una gestualità fluida di ricerca – sono mani che fendono l’aria aprendola, cercando una dimensione propria in essa, di matrice più spaziale che sonora – poi con uno studio rigoroso basato sulla vocalità profondissima, che parte dal fondo dello stomaco per salire e passare fin su dalla gola, una vocalità su cui sembrano originarsi tutte le cose – quella negata alla natura e quella ritrovata dall’essere umano che cerca di riconnetervisi. Su un tappeto di pitture fossili a cura di Natália Trejbalová, Ajmone con precisione e cura continua a cercare i lamenti di chi non c’è più: lo fa con un’attenzione nuova, attraverso una relazione vocale ma anche uditiva con l’altro da sé. Così, le sue frequenze sonore si intrecciano con quelle di Veza Maria Fernandez Wenger, connotando lo spazio di presenze altre, che non appartengono al nostro tempo, ma che sono tracce, testimonianza di un passato che incessantemente torna a trovarci sotto mentite spoglie. La performance, nonostante dimostri la peculiarità e la precisione delle indagini sviluppate da Ajmone, sembra tuttavia rimanere imbrigliata in uno stadio embrionale di ricerca che necessita d’essere approfondita e scandagliata nelle sue possibilità rivelatorie, sia a livello drammaturgico che scenografico (Andrea Gardenghi).
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: danza e voce: Annamaria Ajmone, Veza Maria Fernandez Wenger, set e immagini: Natália Trejbalová, ricerca e collaborazione drammaturgica: Stella Succi, vestiti: Fabio Quaranta, disegno luci: Elena Vastano, consulenza set sonoro: Attila Faravelli, progetto web: Giulia Polenta, organizzazione: Francesca d'Apolito, diffusione: Alessandra Simeoni, produzione: Associazione L’altra
FINE (concept e danza di Olimpia Fortuni)
All’ultima edizione di Danae Festival ho rivisto, questa volta in uno spazio neutro e spoglio della Fabbrica del Vapore, Chamber Music di Silvia Rampelli (Habillé d’eau) che, nell’incredibile rigore con cui si dà, continua a sembrarmi un grande lavoro di liberazione delle immagini (la vita dell’altro) dalle finte e oppressive e crudeli discipline che le assumono come un mero calcolo. Ho visto anche The Second Body [unplugged version] di Ola Maciejewska, con Leah Marojević in un corpo a corpo con una scultura di ghiaccio (questo lavoro decisamente non è piaciuto ad Andrea Pocosgnich che ne ha già scritto: ma devo confessare che l’esperienza di questo vincolo sotto zero del corpo con la materia - al termine la carne sgocciola come ciò che ha liberato - ha la veemenza performativa di una trasmigrazione). Nel programma era atteso il debutto di Olimpia Fortuni con Fine. Titolo bellissimo per un assolo necessario: un archivio personale da smantellare. La scena tutta bianca infatti è uno spazio già dismesso, con tutti gli oggetti già ricoperti dai teli bianchi per imminenti traslochi. Fortuni, che è interprete straordinaria e coraggiosa, non ha timore alcuno ad aggredire l’ordine e la materialità di questi arredi, combinando la musica più nota dei Nirvana con suoni più cupi e ambientali (e bellissimi di Katatonic Silentio): è in gioco qui la memoria di figure considerate artisticamente materne, il peso forse di una legacy. E la prima apparizione video di questa memoria è bellissima, perché le due figure (Raffaella Giordano e Milena Costanzo) sono glitchate e sfumate e opacizzate in un video proiettato sul fondo, pieno di vita e pure di eleganza. Sarebbe bastato. Ma poi, la retorica dell’omaggio riconoscente e della dipendenza testimoniale sovrasta, e diluisce le azioni e il racconto. Nuovi ritorni di voci e di gesti che non sono congedo ma prigione, rivelano che la fine non è ancora iniziata. La felice forza distruttiva d’avvio si trasforma in un crepuscolo apologetico di relazioni che non finiscono mai, che sono sempre fra i piedi, certamente capaci di guida artistica, non sempre generativa. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Out-Off, Danae Festival. Crediti: concept e danza Olimpia Fortuni sound Katatonic Silentio con il contributo umano e artistico di Milena Costanzo e Raffaella Giordano apporto drammaturgico Cinzia Sità assistente di scena Elisa Spina direzione tecnica Silvia Laureti produzione Ass. Sosta Palmizi coproduzione Teatro delle Moire/Danae Festival, Fabbrica Europa con il sostegno residenziale di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, Olinda/TeatroLaCucina, Danza Urbana – Rete h(abita)t/Sementerie Artistiche ringraziamenti a Corinna Ciulli per le pratiche sciamaniche e a Pieradolfo Ciulli per l’assistenza video durante il processo creativo.
#REGGIO EMILIA
UNA STANZA TUTTA PER SÉ (visita coreografica di Camilla Monga)
C’è un’opera meravigliosa di David Tremlett (nella mostra a lui dedicata dal titolo Another Step, a cura di Marina Dacci, a Reggio Emilia, presso i Chiostri di San Pietro, fino al 9 febbraio 2025). Si tratta di My Places #14, del 2019 (pastello e polvere di grafite e collage su carta). Cuce assieme un frammento di mappa a stampa e un testo fittamente scritto a mano (ma sottosopra), creando un confine che alla vista si dissolve: uno finisce nell’altro, vicendevolmente. È forse l’opera più significativa di come Camilla Monga ha lavorato con gli interpreti della MMCD Company per comporre una visita coreografica alla mostra negli spazi e fra le opere di questa collezione, dal titolo woolfiano Una stanza tutta per sé. Divisi in piccoli gruppi, e armati di cuffie audio, abbiamo letteralmente assistito a una spazializzazione dei segni, delle architetture e dei paesaggi di Tremlett nei corpi di un duo molto complice, anche energico e assai consapevole dell’inedita situazione performativa, composto da Mario Genovese e Matilde Gherardi. Gli spazî allestiti e attraversati dai due corpi sono plurali e anche molto diversi tra loro: ma è in cuffia la più vera stanza rivendicata da Virginia Woolf. Qui, voci solo femminili, piene di sussurri di canto di suoni e rumori in una solitudine che scoppia dalle orecchie direttamente fuori nelle stanze della mostra, come una estensione fisica nei corpi dei due interpreti. È quindi in cuffia che prende luogo la più vera visita coreografica, perché spazializzata in un ascolto che è indipendente dal visivo eppure indirettamente in dialogo con le opere polimateriche di David Tremlett grazie alla presenza dei danzatori. Tali opere, non sono mai un mero sfondo alla performance danzata, ma vere partiture che generano movimento, o anche più raramente vi si oppongono, in un contrappunto però sempre questionante: quale libertà? in quali corpi? fra quali muri? in compagnia di chi? Il duo ne è già una esemplificazione, ma attraverso la presenza che più gli è propria, Monga sembra restituire una vita alle opere in alcuni casi come un riflesso, una dissolvenza parallela, un possibile ulteriore inventario del mondo ordinario. (Stefano Tomassini)
Visto ai Chiostri di San Pietro, Fondazione Palazzo Magnani, Festival Aperto, ITeatri di Reggio Emilia, visita coreografica della mostra Another step di David Tremlett, performance site specific di Camilla Monga e dei danzatori della MM Contemporary Dance Company.
#PALERMO
PERMANENT TRESPASS (Sanja Grozdanic e Bassem Saad)
Due donne sedute su un divano ricoperto da un telo bianco, tra un piccolo scrittoio antico e una scala che non porta a nulla, stanno ferme parlandosi in un gergo particolare, quello dell’elogio funebre. Dietro di loro il fondale è aperto, illuminata di un azzurro misto d’ambra appare l’altare della ex chiesa di Santa Maria Maggiore che è l’attuale Teatro Nuovo Montevergini. In questo luogo incredibile, che sembra un’oasi sospesa nel quartiere Capo di Palermo, prende forma il loro dialogo. Tra la poesia e la concretezza del lutto tutto è enigmatico, difficile da penetrare. La sostanza è che questo elogio funebre in cui il compianto non appare mai, nè mai viene nominato, è incerto, dilatato nel tempo, si forma man mano che lo spettacolo va avanti. Risulta difficile sentirsi coinvolti in questa scena, perchè non c’è una trama, i personaggi sono ambigui, per intere sequenze su di loro scende il buio e intervengono una terza voce narrante e proiezioni di immagini di guerra che invocano un’epoca, passata e presente, che viene definita “il Secolo Americano” iniziato nel 1948 e mai finito. Questo “secolo” ha visto sorgere moltissime guerre, quella in Afganistan, quella in Bosnia, quella in Siria. Le donne, in accordo a questo assunto ipotetico diventano via via più inclini a parlare di guerra, a ragionare in termini di oppressi e ribelli, di oppressori e dittature, di paesi dominanti e non, e il senso dell’elogio cambia. Chiamano in causa la relatività del tempo: esiste un tempo per i ribelli e un tempo per il lutto, non significa che non siano coincidenti nel tempo presente. Il tempo del compianto perdura come le guerre. Ma chi o cosa stanno piangendo non si saprà mai. Non c’è nemmeno nelle intenzioni di Sanja Grozdanic e Bassem Saad, autrici e attrici dell’opera, l’interesse a cadere nel tranello del pathos che evitano senza sforzo usando un linguaggio formale e monotonale. Relativizzando persino la fissità del testo, che cambia un poco ad ogni replica, lasciano aperte moltissime domande. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto da Sanja Grozdanic e Bassem Saad Suono Sandy Chamoun Realizzato grazie al supporto di The Curtis R. Priem Experimental Media and Performing Arts Center and Netwerk Aalst Presentato a Teatro Bastardo con il supporto di Goethe-Institut Palermo
LA SIGNORA PALERMO HA DUE FIGLIE (di Ernesto Tomasini)
“La Signora Palermo ha due figlie non è uno spettacolo, è una serata. La Signora Palermo non si va a vedere, si va a trovare. Come un'amica, una parente, una parte di voi che avevate sepolto.” (ndr)
E infatti la signora Palermo di Ernesto Tomasini ci accoglie in casa sua: una grande sala con file di sedie disposte a formare due corridoi/passerella, del Teatro Montevergini di Palermo in occasione della nona edizione di Teatro Bastardo. Dopo moltissimi anni di premiata carriera all’estero, Tomasini vuole parlare della sua città in un clima di totale accoglienza. È la star di Teatro Bastardo, è l’unico che può aprire le porte di questo festival che ha l’obiettivo duplice di ospitare e stravolgere le regole dell’ospitalità. Nessuno di noi si sentirà al sicuro mentre occupa la propria sedia; come pubblico di questa performance ibrida tra commedia e dramma siamo chiamati a contribuire alle funzioni domestiche della padrona di casa e delle sue figlie (interpretate dalla drag perfomer Caso X, alias Alex Incognito, e la stand up comedian Celeste Siciliano) e intanto siamo testimoni di un cambiamento in atto: le figlie della vetusta Palermo, afflitta da un’arretratezza importante, desiderano superarla e abbandonarla. Sono il simbolo dell’autodeterminazione ma anche del malessere. Tutto ciò che succede al di fuori della casa è attraente, seduce, crea dipendenza. Quello che rimane dentro sembra stancare persino la sua artefice che vive nella speranza di riscatto, nell’arrivo di un “gerontofilo”, qualcuno che si innamori della sua vecchiezza. Quest’opera allegorica riuscitissima in cui intervengono l’esperienza decennale del musical di Tomasini, il linguaggio della stand up comedy e l’esuberanza drag, oltre che i riferimenti popolari di ogni tipo, crea moltissima ilarità ma si porta dietro anche l’amarezza, specie per il pubblico palermitano: la difficoltà di interpretazione della signora Palermo e la fatica della nuova generazione di andare avanti, si insinua nella nostra coscienza politica e le risate si fanno sempre più acute perchè ricolme di disagio. fg (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto e diretto da Ernesto Tomasini Con Ernesto Tomasini, Caso-x e Celeste Siciliano Con Ryuki Costumi e scenografie Caso-x ed Ernesto Tomasini Assistente regia Sabrina Artelli coprodotto da Teatro Bastardo e Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino con la collaborazione di Goethe-Institut Palermo
ALFREDINO – L’ITALIA IN FONDO A UN POZZO (di Fabio Banfo)
In quel pozzo Alfredino era solo apparentemente solo: a circondarlo, il peggio di un'Italia sprovveduta e invadente, pronta a emergere al primo fatto di cronaca disponibile. In questo Fabio Banfo si addentra, ricostruendo la triste e nota vicenda di Alfredo Rampi, bambino morto in un pozzo artesiano, negli anni Ottanta, a svariati metri di profondità. Nel buio totale, dal quale adesso anche il dramma emerge a fatica: dalla flebile luce che attraverso un microfono, appeso in alto, scende lungo il basso, verso l'interprete rannicchiato in una posa innaturale. Un adulto piccolo piccolo è Banfo, nato nello stesso anno di Alfredo: racconta la storia sua e di lui, fisso al centro del palco, rivolgendosi al pubblico. In quel centro è lui, è l'interprete, è la narrazione di quei momenti convulsi nella sua stessa vita; ai lati della scena, per la regia essenziale di Serena Piazza, l'attore raggiunge e interpreta digressioni minime di italiani e italiane coinvolti dalla disgrazia spettacolarizzata. Davanti agli schermi della televisione, così come attorno al pozzo dove visitatori e visitatrici si ammassavano, ostacolando le già discutibili manovre di salvataggio, è un popolino cannibale che già confonde cronaca nera e cronaca rosa, attentamente caratterizzato. «Se me ne vergogno? No»: sono le parole del giornalista che per primo raggiunge il luogo dei fatti. Ma nessuno sembra vergognarsi della curiosità morbosa e dell'incompetenza che si addensava, non solo metaforicamente, intorno alla stretta voragine di Vermicino. Un fatto di cronaca che diviene fatto di storia nazionale, e infine di costume: una questione sociologica in cui si annida la casualità di un dio "contabile", come lo definisce addirittura Mazinga, nella parentesi di un inaspettato teatrino di ombre cinesi. Ma almeno sul palco, davanti e insieme a spettatori e spettatrici si consuma un dono, una struggente seconda possibilità: per Alfredo, la memoria di un dolce ricordo. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Mercurio Festival, Spazio Franco. Crediti: di Fabio Banfo, con Fabio Banfo. Regia di Serena Piazza. Uno spettacolo di Effetto Morgana. Produzione: Centro Teatrale MaMiMò. Spettacolo vincitore del Premio Fersen alla Regia 2021, XVI ed., Miglior spettacolo e miglior drammaturgia Doit Festival di Roma 2017, realizzato con il Patrocinio del Centro Alfredo Rampi Onlus. Foto di Alessandro Villa
#BOLOGNA
KASSANDRA (di S. Blanco, regia M. V. Bellingeri)
Kassandra è rimasta incastrata nel tempo, un presente infinito in cui la sua capacità divinatoria non importa a nessuno, sottovalutata dalla Storia stessa. Eschilo, Sofocle e Euripide sono accusati di non essere stati in grado di raccontare la vera storia di questo personaggio che ora si manifesta su un palcoscenico tutto suo nelle vesti di una prostituta straniera dalla sessualità ambivalente. Chiunque di noi abbia letto Le Troiane ha immaginato una donna sottomessa e delirante, isterica, fragilmente invasa da un potere troppo grande da sostenere. Il corpo della Kassandra ideata dal drammaturgo Sergio Blanco e dall’attrice Roberta Lidia De Stefano è invece vitale, non si arrende alla narrazione mitologica. Diretta da Maria Vittoria Bellingeri la performer, poliedrica e istrionica, mescola diversi linguaggi - il canto, una danza scomposta, la musica elettronica - e riferimenti che vanno dagli Abba a Bugs Bunny. Parla in un inglese esperanto malconcio, della strada, dentale che ce la fa apparire come lo stereotipo della straniera clandestina. La scena è tutta lì: una smart nera, due barre led magnetiche che all’occorrenza le illuminanano il volto truccato, un microfono e una tastiera, la latta del tabacco Marlboro tanto grande da essere usata come sgabello. In un gioco continuo di seduzione e distacco con il pubblico, Kassandra rivive la guerra di Troia, brutale e inutile come tutte le guerre, da lei prevista molti anni prima quando, inascoltata, aveva chiesto di allontanare il fratello Paride, artefice primo della guerra. Rivive la morte del padre e del fratello per mano degli Atridi, il suo arrivo presso Micene come concubina di Agamennone e le ferite mortali inflitte dalla sua assassina Clitemnestra. E lo fa grottescamente rivendicando il proprio valore, mostrandosi, usando il suo corpo per calamitare la nostra attenzione sulla sua verità. Ridiamo, soffriamo, siamo travolti da lei che, nel salutarci, si prepara a una nuova morte prevista. La sua tragedia ha subito una rivoluzione. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: di Sergio Blanco con Roberta Lidia De Stefano regia, scene e costumi Maria Vittoria Bellingeri musiche originali Roberta Lidia De Stefano luci Andrea Sansonassistente alla regia Greta Bertani produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
ECLISSI (Balletto Civile)
Parla del buio ma è una celebrazione del sole. Grida la paura e l’esclusione di una intera generazione, nella solitudine che è prigione di mille demoni. Ma è generazione che rivendica anche il diritto alla felicità, nonostante il vedersi storti, sentirsi sbagliati, additati come mancanti : perché «siamo fatti male». Eclissi di Balletto Civile, con la coreografia e la regia di Michela Lucenti, il testo scritto quasi in diretta con la creazione scenica e con vero ardore da Maurizio Camilli ed Emanuela Serra, descrive un gruppo di giovanissimi interpreti under 35 all’uscita di un rave all’alba, mentre salgono su una collina per osservare un raro fenomeno. Per un momento la luna transiterà davanti al sole, oscurando completamente la terra: è un’eclissi totale. Ed è lo scompiglio. Il tutto avviene sopra le teste di Fabio Bergaglio, Leonardo Castellani, Giovanni Fasser, Confident Frank, Michele Hu, Thybaud Monterisi e Carla Vukmirovic. Questa esperienza visiva dell’ignoto è disegnata nelle luci da Stefano Mazzanti, mentre il mondo sonoro live è dello stesso Monterisi (leader dei Mont Baud), che qui ha una presenza vibrante e anche piena di inquietudini, perfettamente sincronizzate con il mood post-apocalittico dell’intero gruppo. È una esperienza che fa scoppiare mille dinamiche, dai rischi della noia che incombe, le identità sempre in bilico, gli affondi delle paure per un futuro che si nasconde. È incredibile come, in scena, Lucenti riesca a combinare in modo alchemico presenza attoriale e intensità del movimento, sempre coreografato, sempre esigente, spesso corale, capace di dare voce e parola senza opprimere né sopraffare. Sembra un teatro danzato che nasce come da sé, nelle forme condivise di una esperienza collettiva. Una menzione a parte merita Carla Vukmirovic, che se la cava benissimo in mezzo a questa marmaglia di scioperati, all’inizio come guida per noi («La notte di cui vi parlo è stata lunga e distorta. È andata più o meno così»), poi in una versione acida e da brividi di Cry Baby, prefigurando risposta a difficile domanda: «Quando usciremo da questo buio?». (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: coreografia e regia Michela Lucenti drammaturgia Maurizio Camilli, Emanuela Serra in scena Fabio Bergaglio, Leonardo Castellani, Giovanni Fasser, Confident Frank, Michele Hu, Thybaud Monterisi, Carla Vukmirovic disegno luci Stefano Mazzanti musiche originali e disegno sonoro dal vivo Thybaud Monterisi costumi Chiara Defant assistenza alla coreografia Alessandro Pallecchi assistenza alla messa in scena Giulia Spattini produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Balletto Civile, Oriente Occidente con il sostegno di SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione – Progetto Habitat
#ROMA
TRACHINIE (regia di Walter Pagliaro)
Deianira è un personaggio in attesa, come spesso capita alle donne del mito greco. Attende il suo sposo, Eracle, il potente, l'avventuriero, quello delle fatiche, il semidio. Le Trachinie tra le tragedie di Sofocle è una delle meno rappresentate, Walter Pagliaro la illumina con passione, intelligenza e mestiere in un allestimento andato in scena al Teatro di Documenti. Talvolta gli astri si allineano: il regista è un depositario della tradizione strehleriana, ma con Giorgio Strehler lavorò anche lo scenografo Luciano Damiani prima di scavare nel Monte dei Cocci di Testaccio un teatro che è una sorta di utopia - il Teatro di Documenti, appunto, una ricerca architettonica in cui allargare in confini della ricerca teatrale. Pagliaro sfrutta due dei piani disponibili: scendiamo le scale per arrivare allo spazio scenico -1 dove troviamo un telo in plastica nero che delimita la scena e si allunga fino alle scale sul fondo, sopra le nostre teste una rete di fili rossi da cui pendono alcune lampadine, occupiamo i tre lati disponibili della platea. Qui si muoverà la Deianira di Micaela Esdra, anch'essa custodisce una tradizione che sta scomparendo, che le permette un'ampia tavolozza di colori vocali. Qui ogni parola è pesata, scelta nel suo significante recitativo, nelle sue levigature. Efficace anche Fabio Maffei nel ruolo del figlio, in grado di consegnare al pubblico una performance di rara intensità. Il coro, sempre grande interrogativo per la regia, è risolto nella bella prova, spesso all'unisono, di Cristina Maccà e Valeria Cimagli. E poi Fabrizio Amicucci ed Elisabetta Arosio, araldo e nutrice in un recitare anche in questo caso generoso e preciso. Lo spazio di Damiani qui riscopre il proprio statuto di luogo del mistero, scendiamo nella profondità del mito per ritrovarci in una piccola sala, come di fronte ad un altare catacombale, discepoli fortunati di un rito in via di estinzione. Deianira si era tolta la vita per grottesco dolore, ora di fronte a noi, con un colpo di teatro, c'è Eracle, ma sulla sgangherata sedia a rotelle il corpo e la voce trasformati di Micaela Esdra, in un suggestivo gioco del doppio tutto novecentesco. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro di Documenti. Regia Walter Pagliaro. Con Micaela Esdra, Cristina Maccà, Fabrizio Amicucci, Elisabetta Arosio, Fabio Maffei, Valeria Cimaglia. Spettacolo itinerante. foto Mattia Simoncelli
FUCKED (regia di M. Glenda)
Penelope Skinner nel 2008 si impone all’attenzione della critica e delle scene britanniche con Fucked, spettacolo proposto in versione italiana al Teatro Belli nell’ambito di Trend, longeva rassegna dedicata alla nuova drammaturgia britannica. Chiarastella Sorrentino è F. La troviamo in scena, abito celeste chiaro e capelli biondi raccolti in trecce, intenta a leggere su un diario i propri sogni di bambina, quelli in cui una principessa aspetta che l’amore di un principe azzurro venga a salvarla. Chiuso il diario, F. comincia a raccontare com’è andata in realtà: la sua vita non è stata il tentativo di ribellarsi a questo schema, ma il ritrovarcisi dentro suo malgrado, reiterando dinamiche di potere in cui i carnefici non sono mai davvero definiti tali, così come lei non si sente mai davvero vittima. Su una piattaforma quadrata campeggia una struttura in plexiglass, il camerino/ lavagna della protagonista che da un ipotetico oggi – il presente dell’autrice, 2008 - percorre a ritroso le tappe della propria vita sentimentale e sessuale. Ogni tappa è associata a una parola chiave che definisce la traiettoria della protagonista sotto quell’implacabile male gaze: la vita di F. ha una sola direzione, da vergine a puttana. Il monologo, animato da Sorrentino con freschezza e ironia, guidato in una regia essenziale e pulita da Martina Glenda, è il racconto di un’educazione sentimentale e sessuale oggi forse appesantito dai sedici anni d’età del testo. Se i condizionamenti della società patriarcale sulla donna sono ancora lontani dall’essere sradicati, questa narrazione probabilmente dirompente ed esplicita nel 2008 oggi non arriva a mettere sotto una luce nuova la questione. A partire dal titolo stesso: Fucked, aggettivo di per sé volutamente ambiguo e descrittivo della parabola del personaggio, contiene il giudizio su una donna raccontata solo sulla base delle sue relazioni eterosessuali, senza davvero fornire allo spettatore la chiave per allontanare il proprio sguardo da questa definizione. (S. Fasanella)
Visto al Teatro Belli / Trend – Nuove Frontiere della scena britannica XXIII edizione di Penelope Skinner con Chiarastella Sorrentino. Regia Martina Glenda. Traduzione Francesca Romana degl’Innocenti e Marco M. Casazza. Scene Sara Palmieri. Aiuto regia Arianna Cremona. Consulenza progetto sonoro Matteo Domenichelli. Voce fuori campo Giuseppe Brunetti. Direttore di scena Giovanni Piccirillo. Foto locandina Anita Martorana. Produzione Compagnia Mauri Sturno
VOICE NOISE (Jan Martens)
«I’m no one ‘s Little girl Oh no, I’m not / I’m not gonna be - Cause I don’t wanna be / I never shall be on your family tree - even if you ask me to / I’m gonna turn you down.» I performer di Voice Noise (sul palco dell'Argentina per Romaeuropa Festival) scandiscono queste frasi a turno, come una sorta di esergo in calce allo spettacolo, prima di iniziare, prima di far partire il jukebox pensato dal coreografo belga. Comincia con una presa di posizione, una postura verso il mondo e verso le relazioni, un no alla possessione patriarcale: non sarò tua. Jan Martens mette in fila 13 musiciste e interpreti vocali (e un gruppo), donne, dagli anni 30 ai giorni nostri e ispirato dal saggio The gender of sound di Anne Carson libera voci rimaste nell’ombra. Non c’è filtro rappresentativo, i danzatori e le danzatrici saluteranno il pubblico all’inizio e alla fine dello showcase, non c’è difatti neanche una scenografia se non quella fornita dai nudi spazi del palco de Teatro Argentina, una piattaforma perimetra l’azione dando modo ai performer non chiamati nelle singole coreografie di attendere fuori. Ma è spesso la relazione tra quello spazio e il fuori a creare suggestive tensioni di corpi in attesa o in procinto. Ogni opera vocale avrà un’interpretazione, soli passi a due o lavori di gruppo e oltre al punto politico ciò che emerge è proprio la relazione tra la musicalità e il movimento: nei corpi che seguono con gesti netti e precisi il ritmo oppure in quelli flessuosi che stanno dentro al suono senza agganciarsi al beat. Alla semplicità della confezione spettacolare corrisponde una nettezza politica e una complessità interna evidenti. Al pubblico inoltre viene consegnato un pieghevole con dei brevi riferimenti testuali su ogni artista citata, un programma attraverso il quale è possibile riscoprire l’ascolto in un secondo momento: al centro c'è sempre la condizione femminile, fino all’esplosione con Il coro delle mondine di porporana di cui ascoltiamo una versione di Bella ciao del 2019 riscritta attraverso il tema del femminicidio.
(Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival 2024.Coreografia: Jan Martens, Co-creazione e performance: Elisha Mercelina, Steven Michel, Courtney May Robertson, Mamadou Wagué, Loeka Willems, Sue-Yeon Youn e/o Pierre Adrien Touret, Zora Westbroek Musica: Direttore delle prove: Zora Westbroek Disegno luci: Jan Fedinger Costumi: Sofie Durnez Scenografia: Joris van Oosterwijk Realizzazione dei costume e della scenografia: Théâtre de Liège Internazionalizzazione: Malick Cissé Consulenza artistica: Marc Vanrunxt, Rudi Meulemans, Femke Gyselinck Trailer e Teaser: Stanislav DobákGraphic Design: Nick Mattan. Crediti completi di musiche
#GENOVA
VARIAZIONI ERNAUX (di F. Fava, regia A. P. Vellaccio)
Frutto della fusione sapiente tra tre “racconti” a carattere romanzesco e autobiografico, scritti dalla vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022, Annie Ernaux – da cui il titolo –, Variazioni Ernaux si presenta come una narrazione in sequenze alternate. I tratti che compongono la ricorrente codipendenza affettiva della protagonista, come variazioni in un tema musicale, vengono distribuiti su tre voci (Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio) che la colgono in momenti molto diversi della sua vita: dalla gioventù segnata da un matrimonio precoce e sogni rinchiusi in un cassetto, a una piena età adulta di riscoperta di una forza passionale tale da ingabbiare , fino a una maturità rifiutata nel perseguire una relazione con un uomo di trent’anni più giovane. Essenziali gli elementi che abitano la scena: un tavolino con sopra un telefono fisso che non squilla mai, funesto memento di una chiamata mai ricevuta; un letto con coperte satinate dove si consumano intensi pomeriggi di passione e si rievocano momenti di intimità passati, alla luce di un abat-jour; un tavolo da cucina plasticoso su cui sono disposti oggetti che appartengono a una vita coniugale non voluta, ma anche libri e una macchina da scrivere, che in sé costituiscono un tenace aggrapparsi ai rimasugli della propria ambizione. A fare da contraltare, una voce maschile registrata e incorporea, presenza-assenza ingombrante di un uomo, che sia un marito che non collabora in casa pur predicando la parità dei sessi, o uno straniero affascinante con cui intrecciare un rapporto clandestino, o ancora, un ragazzo sbarbato che non restituisce che la duplicità di una vita già vissuta. Ernaux non rinnega la sua esperienza passata, l’amore che si fa collana di perle stretta intorno al collo come un cappio, e il modo in cui l’ha avvicinata al limite che la separa dall’altro, ma ne fa tesoro, per “entrare nel secondo millennio da donna forte e libera”, non dalla possibilità di innamorarsi ancora, ma dalla schiavitù nei rapporti. E riappropriarsi, così, di quel collier, che torna ad essere un semplice bijoux. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Crediti: dall’opera letteraria di Annie Ernaux traduzioni Lorenzo Flabbi, Idolina Landolfi da un’idea di Francesca Fava drammaturgia Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio con Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio regia Anna Paola Vellaccio assistente alla regia Chiara Sanvitale cura di Giulia Basel costumi Miriam Di Domenico luci Andrea Micaroni fonica Globster grafica Clarice produzione Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale
#NAPOLI
NOCCIOLINE (di F. Paravidino, regia R. Carpentieri)
Siamo negli anni ’90. All’interno di una ricca abitazione essenziale nei suoi ambienti, ridotti a pochi pannelli sollevabili, decorati all’antica e curati dagli allievi dell’Accademia di belle Arti, dodici adolescenti cercano di organizzare una festa. Gli ostacoli non sono pochi: primo tra tutti, la casa non è la loro, e le differenze caratteriali li conducono spesso al litigio. Sul retro di un grosso televisore a muro, vengono scanditi i tempi di rappresentazione che si suddividono in ventitré scene in due atti; ogni scena segnala, all’interno delle relazioni, i nuovi assetti politici e sociali della globalizzazione, delle leggi di mercato e in quelle in materia di confini nazionali. Terminato il primo atto, ci si ritrova dieci anni dopo, con un semplice cambio di pannelli, in carcere. I personaggi sono gli stessi, ormai adulti, e ognuno si ritrova a essere, chi assecondando la propria indole e chi stravolgendo il proprio carattere, detenuti o carcerieri. È stata una sorpresa trovare la sala del San Ferdinando quasi vuota alla prima di Noccioline: un testo che può essere ritenuto sovversivo. Lo era già nel 2001, quando Fausto Paravidino lo scrisse sotto commissione del Royal National Theatre di Londra. È stato più volte ripetuto che Genova è stato uno spartiacque nella storia del nostro paese. Evidentemente con troppa poca energia se col nuovo Decreto Sicurezza il rischio è quello di introdurre lo stato di polizia. In scena, i dodici attori, allievi della Scuola del Teatro Nazionale di Napoli, vengono diretti da Renato Carpentieri con una regia che rispetta in maniera filologica il testo originario del drammaturgo ligure, e restituiscono una gran precisione nell’interpretazione, forse troppo sopra le righe nei suoi aspetti comici rispetto quelli drammatici, che invece hanno maggiore equilibrio ed efficacia. Questo però è un testo che ha valore se ha una sala gremita di arrabbiat*, se la regia è di un* giovan* arrabbiat*, se urla invece di compiacere pochi divertiti, se è all’interno di una manifestazione culturale che ha davvero valore per tutta la città che l’ospita. (Valentina V. Mancini)
Visto al Campania Teatro Festival. Crediti: Di Fausto Paravidino; Regia Renato Carpentieri; Con gli allievi della Scuola del Teatro di Napoli Triennio 21 – 24 Claudio Bellisario, Sabrina Bruno, Serena Cino, Nicola Conforto, Arianna Iodice, Eleonora Limongi, Claudia Moroni, Alfredo Mundo, Davide Gennaro Niglio, Gaia Piatti, Matteo Sbandi, Sharon Spasiano; Aiuto regia Antonio Marfella; Scene Arcangela Di Lorenzo; Luci Cesare Accetta; Costumi Roberta Mattera; Realizzazione scene a cura degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli; Sarta Annalisa Riviercio; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale; Spettacolo in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival.
#GORIZIA - #NOVA GORICA
ALPE ADRIA PUPPET FESTIVAL
Gorizia si sta preparando all’appuntamento del 2025, quando assieme a Nova Gorica sarà capitale europea della cultura. La Piazza transalpina, che le due città condividono e che è il simbolo di un confine poroso, attraversabile, lontano anni luce dalle frontiere rigide del Novecento, è in questi giorni un grande cantiere. L’obiettivo di “Go! 2025” è pensare le due entità, italiana e slovena, come una sola città. Ma a tradurre in pratica questo concetto ci pensa da oltre trent’anni un festival che ha scelto il teatro di figura come linguaggio centrale, proprio per superare le barriere linguistiche. L’Alpe Adria Puppet festival apre i battenti nel 1992, mentre in ex Jugoslavia infuria la guerra, e certamente questa manifestazione rappresenta una forma utopica, perché non solo immagina il teatro come una forma di attraversamento dei confini (linguistici e geografici), ma lo pratica come forma di dialogo in anni in cui sembra il dialogo tra le diversità culturali e linguistiche sembra essere impraticabile. Oggi Nova Goriza e Gorizia si pensano già come una sola città, anche grazie a progetti come quello delle piste ciclabili (raccontate dall’assessora goriziana durante l’inaugurazione del festival) che si snodano lungo i territori italiano e sloveno senza limitazioni. Ma grazie a una delle passeggiate teatrali immersive, dedicata all’architettura, scopriamo che in realtà le due città si sono sempre “pensate” come una sola. “Come due sorelle”, con i testi e la regia sonora di Claudio Parrino, ripercorre la storia la storia di Gorizia a partire dalla sua ricostruzione, dopo la Grande Guerra, e la fondazione di Nova Gorica come baricentro amministrativo sloveno: nonostante la nascita “oltre confine” la nuova città venne pensata già come estensione di quella storica. La passeggiata vera e propria non ha avuto luogo per via di un nubifragio, ma le storie sono state comunque ascoltate al chiuso, ripercorrendo le vie attraverso sequenze fotografiche. Non solo piazze ed edifici però, perché al centro dell’ascolto ci sono le storie delle persone, memorie che restituiscono le tante fratture che hanno caratterizzato questi territori (come la vicenda di una donna, moglie di un irredentista sloveno, che racconta gli anni di persecuzione subiti dalla sua famiglia). Semplici, efficaci e coinvolgenti, le passeggiate sonore sono uno strumento prezioso per attraversare la complessità storica, politica e linguistica di questo territorio. (Graziano Graziani)
LOUIS (Carola Maternini) / KIDRIČEVA 29C (Martin Mlakar)
C’è un filo rosso che lega alcuni degli spettacoli in programma: la fragilità. Il teatro di figura conosce molte forme – pupazzi da tavolo, marionette, oggetti animati – accomunate dal rapporto che la figura intrattiene con l’animatore, assente dalla narrazione ma presente con il corpo: un rapporto che alle volte sembra quasi di accudimento. Nello spettacolo Luis, di Caterina Materinini, questa relazione diventa elemento drammaturgico: Luis si sveglia nel cuore della notte e si accorge che gli manca un braccio; per fare i conti con questa amputazione intreccia un dialogo a volte malinconico e a volte comico con il dottore e con la madre, figure fantasmatiche, forse immaginarie. Metafora raffinata del lutto, lo spettacolo scioglie nella comicità la fragilità del pupazzo-personaggio e rende più “pronunciabile” il dolore dell’assenza. In Kidričeva 29c (uno dei lavori più interessanti) Martin Mlakar dà appuntamento al pubblico a casa di suo nonno, in un appartamento di Nova Gorica, dove recita in sloveno un monologo che ne racconta la storia. Anche in questo caso, più ancora che la vicenda raccontata, è la presenza-assenza la protagonista del racconto: ogni oggetto animato evoca la figura assente, dai libri del salotto alla statua del partigiano, fino a che questa si materializza davvero grazie a una giacca e un bastone, mossi e adagiati tra la poltrona e il divano. Il giovane nipote in carne e ossa, che si muove in uno spazio della memoria familiare, finisce per accudire la figura assente del nonno come se si trattasse di un bambino (e in fondo questa inversione dei ruoli è quanto il tempo ci consegna ogni volta che un corpo invecchia e si palesa la sua fragilità). L’appartamento di edilizia socialista offre allo sguardo uno spaccato reale e un piccolo viaggio nel tempo: l’atmosfera che si respira tra gli arredi e gli oggetti finisce per costituire uno degli elementi più affascinanti e coinvolgenti dell’opera e dell’intero festival. (Graziano Graziani)
Crediti e cast completi: https://puppetfestival.it/
CONTIMI, CRASIGNE… (S. di Blasio e C.Tolazzi) / SCHATTENWERFER (Tangram Kollektiv)
L’Alpe Adria Puppet festival prende il nome dall’omonima comunità sovranazionale che riuniva un’ideale arco alpino mitteleuropeo dalla Lombardia all’Ungheria. Oggi la comunità non esiste più, ma il concetto di una regione plurilinguistica è tuttora stimolante, perché ci interroga su come rapportarci alle radici in un contesto di mutate relazioni tra i popoli, che vivono spazio globale, con confini meno rigidi e integrati nel comune spazio europeo. Proprio per questo il lavoro Contimi, Crassigne…, prodotto dal Teatri Stabil Furlan, lo stabile del Friuli, ha posizionato un ulteriore interessante tassello nel panorama offerto dal festival. Lo spettacolo scritto da Serena di Blasio e Carlo Tolazzi vede in scena due pupazzi, Gaia, una bambina curiosa che si è persa nel bosco, e l’anziano e scorbutico nonno Iaroni (animati da Giulia Consolo e Daniele Fior). La lingua friulana gioca un ruolo fondamentale nel rapporto tra le due generazioni, poiché se la bambina usa maggiormente l’italiano il nonno Iaroni si esprime solo nella lingua locale per raccontare le sue storie. Tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, le storie nascono di volta in volta dall’animazione degli oggetti contenuti nella “crassigne” di nonno, e cioè la gerla tipica dei “cramârs”, i commercianti ambulanti di queste zone. Il panorama poi si allarga oltre il confine italo-sloveno, arrivando in Germania con la compagnia Tangram Kollektiv: lo spettacolo Schattenwerfer – sicuramente uno dei più compiuti tra quelli in programma – è un raffinato, divertente ed estremamente dinamico teatro d’ombre, dove le due animatrici costruiscono una serie di relazioni impreviste tra corpo e ombra, alterando dimensioni e forme per risignificare costantemente le sagome proiettate. A ogni nuova soluzione si apre un elemento che sorprende e diverte, ma che costituisce anche uno scarto drammaturgico, in grado di portare lo spettatore all’interno di relazioni corpo-ombra inedite e impreviste. Grazie all’attraversamento di spazi diversi – dal Kulturni Dom al Kulturni Center, i teatri della minoranza slovena a Gorizia, passando per il circolo arci Gong – e alle passeggiate teatrali, il Puppet festival si rivela anche un’occasione per conoscere Gorizia e la sua storia, che ci parla delle tragedie del Novecento, è vero, ma è ricca di interrogativi centrali anche per il nostro presente. (Graziano Graziani)
Crediti e cast completi: https://puppetfestival.it/
#PRATO
LA FORESTA TRABOCCA (Antonio Tagliarini)
Siamo disposti sui quattro lati del perimetro dello Spazio K di Prato, il lavoro che ci accingiamo a vedere di Antonio Tagliarini chiude la densa serata di Contemporanea Festival cominciata con El Conde de Torrefiel. Qui il passaggio è in un uno stato morbido, la postura è diversa, non siamo chiamati a tenere il filo della narrazione, a interpretare gli incastri, ma siamo spettatori, prima di tutto, della fragilità umana. È il primo progetto di Tagliarini a cui mi capita di assistere dopo lo scioglimento del sodalizio artistico con Daria Deflorian: Antonio è in scena insieme a Gaia Ginevra Giorgi che dal vivo cura le atmosfere sonore della scena, entrambi hanno una presenza - in modo diverso - magnetica. Il pubblico può lasciare dei foglietti, contenenti delle frasi, che sono stati distribuiti all’entrata, sono come le tracce, «devo rispondere con assoluta sincerità» mi spiegherà più tardi. Le domande attivano il dato performativo: nel corpo, con la danza che si modifica nettamente generando dunque una risposta fisica o narrativa. il movimento leggero ma preciso, si alterna a piccoli brani recitati, che disegnano minute possibilità narrative, frammenti di vita che rimangono appesi a mezz'aria, come nel primo racconto: ci sono delle analisi mediche e un dottore che vorrebbe parlare con Antonio, c’è la tensione nell’attesa allo studio medico e poi la musica che si sovrappone proprio nel momento in cui si sta per svelare la questione, forse dolorosa, quasi a voler chiudere alla vita, alla realtà personale, per pudore. E poi un sogno kafkiano in cui la depressione diventa un buco nel pavimento di casa, dal quale non si riesce ad uscire: Tagliarini apre una feritoia nel tappeto bianco e ci si nasconde. Ma quest’opera, influenzata dai pensieri di Jack Halberstam sul concetto di fallimento, è la vivida testimonianza di una rinascita: Antonio salterà da una parte all’altra della scena, come in una danza di riattivazione vitale, prima di lasciare lo spazio a disposizione di un ultimo sussulto poetico, forse troppo slegato dal resto, un ricordo d’infanzia soffiato al microfono da Gaia Ginevra Giorgi. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Spazio K, Contemporanea Festival un progetto di Antonio Tagliarini con Gaia Ginevra Giorgi e Antonio Tagliarini collaborazione artistica Gaia Ginevra Giorgi cura del suono Emanuele Pontecorvo disegno luci e direzione tecnica Elena Vastano abiti Matteo Brizio coproduzione INDEX, Triennale Milano Teatro, Ass. Cult. A.D. residenze di creazione Triennale Milano Teatro, Spazio Matta, Casa degli Artisti per INDEX Valentina Bertolino, Francesco Di Stefano, Silvia Parlanicon il supporto del MiC – Ministero della Cultura
LA LUZ DE UN LAGO (El Conde de Torrefiel)
La compagnia formata da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert continua il proprio percorso incentrato sulle possibilità della parola narrativa a teatro. A Contemporanea Festival ha debuttato in Italia (e poi sarà al Festival delle colline torinesi) il nuovo La luz nel lago che riprende proprio i meccanismi indagati in Ultraficción n1 e ben spiegati da Bayler in questa intervista. L’obiettivo è dunque sempre quello di creare un teatro della mente a partire dalla proiezione del testo su un fondale. Ma in questo nuovo progetto El Conde vuole lavorare anche sulla materialità della scena. Mentre una squadra di tre performer/tecnici muove pannelli, svela fondali o - addirittura - dipinge di nero proprio uno degli schermi cancellandolo, dopo che lo spazio di proiezioni era stato colpito anche da immagini sgranate e colori molto vividi, noi entriamo nelle tre storie attraverso la lettura. Una voce registrata ci avverte, ci troviamo di fronte a una storia d’amore. In realtà le storie sono almeno tre e come in una struttura a matrioska, in ognuna delle storie, i protagonisti saranno spettatori di quella precedente. Tutto comincia negli anni ‘90, durante un concerto dei Massive Attack a Manchester (ma tutta la colonna sonora è imperdibile), due ragazzi si conoscono, passano la serata insieme. Nella storia successiva, in cui due uomini si incontrano in un cinema, sapremo che i due ragazzi della prima narrazione (protagonisti del film che i due amanti stanno vedendo in sala), si sono lasciati dopo aver passato parte della vita insieme. Le storie, come l’ultima su una biologa marina transgender, hanno tutte un piccolo risvolto politico, sono storie della minoranza, di controcultura o di lotta, esplicita come nel caso degli attivisti per il clima nel finale, oppure legata alle scelte dei singol*. Per chi è abituato al linguaggio del Conde in questo caso non si stupirà per la riflessione su narratività e spettatorialità. Forse la macchina teatrale viene penalizzata dai troppi elementi (gli schermi in movimento, la voce fuori campo, i video, ecc.) rispetto al compatto minimalismo di Ultraficción n1, ma le storie continuano ad essere il cuore della questione. (Andrea Pocosgnich)
Prossime date in Italia
12,13 ottobre Teatro Astra, Torino, Festival delle Colline Torinesi
Visto al Teatro Metastasio, Contemporanea Festival idea e creazione El Conde de Torrefiel regia, testo e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert scene La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel scultura Mireia Donat Melús direzione e coordinamento tecnico Isaac Torres disegno sonoro Rebecca Praga, Uriel Ireland disegno luci Manoly Rubio García creazione video Carlos Pardo e María Antón Cabot
#ROMA
JOANNA KAROL PAUL (di Giulia Massimini)
Stanno subito in scena i tre attori, con la luce accesa; sono in posizione aggressiva e disposti in un triangolo con il vertice rivolto verso la platea. Joanna Karol Paul: sono tre adolescenti la cui sequenza dei nomi diviene, al pronunciarli, una musica via via indistinguibile, tanto da non rendersi più conto quale ne sia l’ordine. Joanna (Giovanna Giardina) ha scelto il nero, dei capelli e degli abiti, tiene un diario di tutto, la sua vita non è ancora del tutto sbocciata e, forse per capirla, la affronta con la scrittura e scattando delle foto; Karol (Ilaria Ballantini) è invece dinamica, ha i capelli colorati e un’energia più esplosiva, fa esperienza diretta delle cose fino a prendersene tutti i pericoli; Paul (Andrea Triaca) è l’altro, l’elemento detonante che romperà l’equilibrio delle due amiche ma anche l’effetto tempestoso che le farà crescere, eppure allo stesso tempo un ragazzo fragile che vuole inserirsi in quel legame, perché di legame, d’amore, ha bisogno. Nel testo di Giulia Massimini, che ne cura anche la messa in scena allo Spazio Diamante, emerge fortemente il desiderio di cogliere questi tre adolescenti, privi della quotidianità e delineati attraverso caratteri stilizzati, in un punto di svolta che li porterà a una fase di adultizzazione forse traumatica ma decisa. La scena è vuota, se si eccettua la loro presenza e alcuni elementi modulari di geometrie e tessuti, agiti dagli attori per proporre delle variazioni utili all’evoluzione drammaturgica; solo un microfono, talvolta, si impossessa delle loro voci per amplificarle. L’assunto di partenza di Massimini è un preciso indicatore: il triangolo instabile muta continuamente il proprio vertice, stringe e allarga i propri lati come pareti fluttuanti, come elastici che tracciano le distanze tra un personaggio e l’altro; soltanto, con l’andare della storia, alcuni elementi diventano meno utili – la droga, la minaccia della maternità precoce, ad esempio – sembra si perda il fuoco di quella relazione conturbante e distruttiva, si confonde appena l’obiettivo ultimo del loro incontinente ingenuo amore. (Simone Nebbia)
Visto allo Spazio Diamante. Crediti: Testo e regia di Giulia Massimini; con Ilaria Ballantini, Giovanna Giardina, Andrea Triaca; disegno luci di Alessia Giglio | musiche a cura di Maria Chiara Massimini; produzione Piracanta Teatro e lacasadargilla
QUI SOM? (Baro d’evel)
Gentili Baro d’evel, vi parlo a nome della città di Roma, in cui avete appena portato Qui som?, precisamente al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. Ecco, vedete, vorremmo chiedervi una cosa: non è che potreste ricominciare da capo? No perché l’energia trascinante, l’intelligenza e la sapienza tecnica che avete riversato sul palco, in mezzo alla platea, fuori dal teatro, sono qualcosa di così raro e soprattutto, sapete, finiti questi mesi festivalieri ci aspetta ben poco con cui misurare le nostre urgenze di grandiosità artistica. Tredici attori, ma anche danzatori, cantanti, musicisti, performer, insomma tredici a fare di uno spettacolo (in – almeno – quattro lingue) la materia viva per riempire ogni angolo del teatro (con qualche uscita dai margini, sulla strada di fronte). C’è un elemento che sopra ogni altro sembra prendere corpo nella creazione di Baro d’evel: gli avvenimenti, ossia il tempo e lo spazio in cui si manifesta la relazione tra cose e persone, sembrano come cambiare di stato e gli oggetti tramutarsi in corpi vivi, o l’inverso; ne è un esempio tra tanti la scena di una danza nel fango, in cui sembra che sia proprio il fango stesso a divenire danza, oppure un Leviatano peloso che danza a modo suo ondeggiando su sé stesso, che occupa tutto il fondale, diventa un mare che restituisce indietro i rifiuti di plastica (ah, se davvero potesse!), sembra insomma che l’informe e dinamico infinito possa fare il percorso inverso e farsi misura del finito, ossia che renda pensabile l’impensabile. E non è per questo che l’essere umano ha in dotazione l’arte? Per un atto di superbia, forse. Sostituirsi a un’entità creatrice. Ma nel passaggio di stato c’è un altro elemento ricorrente: la situazione nasce da una buffoneria, un meccanismo comico lascia via via crescere una imprevedibile e radicale profondità; in tal modo si riesce a parlare di guerra a partire da quella danza del fango in cui si scivola e si fa scivolare qualcuno, raggiungendo poi una compattezza tribale che ordina i moduli coreografici nel nitore arioso del canto. L’ultima frase del testo recita: “Non è il pieno, è il vuoto, è quel che resta dopo che è difficile”. Ecco, appunto, non potreste rifarlo da capo? (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argentina. Crediti: Autori: Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias; Con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias o Claudio Stellato, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert; Collaborazione alla regia: Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo; Collaborazione alla drammaturgia: Barbara Métais-Chastanier; Scenografia e costumi: Lluc Castells; Disegno luci: Cube / María de la Cámara et Gabriel Pari; Collaborazione musicale e creazione del suono: Fanny Thollot; Collaborazione musicale e composizione: Pierre-François Dufour
OTELLO (Regia di Luigi Siracusa)
All’entrata del Cometa Off c’è il capannello nutrito, quello dei sold-out. Volti giovanissimi in platea e giovani in scena: c’è un Otello, Shakespeare per 6 attori e attrici, cosa rara in città, nei piccoli teatri (ma talvolta anche nei grandi). Lo dirige Luigi Siracusa, regista diplomato alla D’Amico con attori provenienti dallo stesso percorso. Una scenografia costituita da alti e bianchi pannelli di legno chiude la scena su tre lati (dove verrà proiettato il volto di Desdemoma), una sola entrata su quello di sinistra che non verrà mai usata, anche perché gli attori, secondo l’usanza registica ormai maggiormente in voga (e dunque a rischio cliché), non escono mai. Nel piccolo spazio della sala testaccina il palco è in gran parte occupato da un letto matrimoniale lasciato in disordine, ai piedi del quale si trovano vestiti, effetti personali, biancheria intima e perfino un pallone da basket. D’altronde l’ambientazione è contemporanea, gli attori vestono eleganti completi blu con tanto di fascia e un gilet per Otello; un vestito azzurro con ampia gonna in tulle per Desdemona e un blu scuro aderente per Emilia, come fossero appena usciti dalla festa di matrimonio del generale e della giovane veneziana. Lo spettacolo comincia con una sorta di coreografia: Desdemona trascina Otello sul letto, il quale scende e si allontana per poi ritornare, negli occhi e in quel rifiuto c’è già il finale della tragedia. Gli interpreti sono bravi a tessere la trama invisibile di gesti, stati d’animo e presenze emotive proprio quando i loro personaggi dovrebbero essere assenti dalla scena, come nel caso di Desdemona bendata o dei piccoli canti di Emilia e di quel ritmo frenetico a suon di dita schioccate. Siracusa manovra bene questo dispositivo, in alcuni casi con interessanti trovate sceniche, i tentennamenti sono però visibili quando testo e recitazione rischiano di appiattirsi troppo sul quotidiano perdendo la strada della poesia shakespeariana. Credibile e realistico il finale violento, con le mani di Otello che sul letto strangolano Desdemona a favore di platea, non si può non pensare ai femminicidi in Italia (già 65 nel 2024). (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Cometa Off. Crediti di William Shakespeare Regia e adattamento di Luigi Siracusa Con Francesco Sferrazza Papa (IAGO) Zoe Zolferino (DESDEMONA) Gianluigi Rodrigues (OTELLO) Laurence Mazzoni (CASSIO) Luca Carbone (RODERIGO) Eleonora Pace (EMILIA) Scena Francesco Esposito e Luigi Siracusa Costumi Francesco Esposito Luci Pasquale Mari produzione Goldenart Production e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Foto Manuela Giusto
AGE (2024) (CollettivO CineticO/Francesca Pennini)
Dodici anni sono passati dallo studio di CollettivO CineticO, Francesca Pennini, che per il Progetto Speciale 2012. Ripensando Cage presentava un primordiale embrione di una ricerca che in questi anni abbiamo visto mutare, interrogarsi, ibridarsi e che, all’epoca, trovava nella casualità di Cage un preciso “disordine ordinato”, volto a delineare pratiche, pensieri e successive creazioni. In questa edizione di REF24, incontriamo nuovamente quelle semantiche, stavolta al Teatro India: tra il rigore di una sequenzialità scientifica e l’impostazione ludica, prima si presentano gli elementi scenici inanimati: computer, gong piccolo e grande, panche, bottigliette d’acqua, un tavolo e una sedia – poi i 9 «giovani esemplari di esseri umani tra i 15 e i 19 anni», all’interno di una struttura drammaturgica suddivisa in quadri/tavole. Ognuna di esse, proiettate in ordine casuale sullo schermo, pone dei quesiti agli esemplari che in base alla loro volontà definitoria si alzeranno dalle panche e, con la loro presenza, si rappresenteranno alla platea. Il pubblico potrà allora iniziare a conoscerli immaginando biografie parziali e potenziali. L’impronta autoriale data al progetto è decisiva e quasi ingombrante, sopratutto quando gli esemplari sono chiamati a imitare Pennini, e diventa escludente quando si cita il lavoro di Marco D’Agostin: boutade colta solo da coloro che hanno visto lo spettacolo dell’artista performer e/o conoscono la sua poetica. Se la parte iniziale è molto lenta, i successivi 40/45 minuti diventano un divertente album fotografico di una generazione, non solo di adolescenti però: nel fissare quei corpi – senza escludere una certa componente di morbosità nostalgica – potremo pensare a come eravamo noi, come siamo, cosa avremmo voluto, o cosa siamo ancora in tempo, di voler essere. La scena sembra infatti un grande tavolo da still life sul quale si presenta una giovinezza fuggevole, caduca: una sequenza di scatti che imprimono la vitalità di quell’attimo e lo consegnano già al passato. (Lucia Medri)
Visto al Romaeuropa Festival Teatro India: regia e coreografia: Francesca Pennini; drammaturgia: Angelo Pedroni, Francesca Pennini; azione e creazione: Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri; cura e organizzazione: Matilde Buzzoni, Carmine Parise. Foto di Pietro Tauro
STORYGRAM (Collettivo Socrates)
Storygram è lo spettacolo concerto che apre la stagione del Teatrosophia, un teatro off – per quanto questa definizione possa essere ancora valida nel 2024 - di professionisti e amatori incastonato nel centro, più centro, di Roma, in una viuzza dietro Piazza Navona. Il Collettivo Socrates, che firma i testi, è un gruppo di appassionati che elabora agili e divertenti drammaturgie di intrattenimento che approfondiscono aspetti di cultura generale e legati all’immaginario collettivo, spesso dati per scontati. In Storygram, l’attrice Giulia Bornacin e il musicista Simone Martino, ricorrendo ad aneddoti, partiture musicali originali, pantomime, battute e sketch invitano il pubblico a riflettere su alcune fotografie passate alla Storia per conoscere le storie che si nascondono dietro scatti come Formigine. Ingresso Casa Colonica di Luigi Ghirri, V-J day in Times Square di Alfred Eisenstaedt, o meno note come La Lunga Notte del Dottor Religa di James Stanfield o come la misteriosa foto delle fate di Cottingley. Il pubblico partecipa, risponde alle domande, è in silenzio quando ci si prende il tempo di ragionare insieme, e con maggiore scrupolo, su ciò che vediamo: basti pensare alle ultime polemiche relative proprio alla foto del bacio in Times Square. Con leggerezza e semplicità, Storygram risponde senza boria concettuale al modo in cui ci relazioniamo con le immagini: se la realtà esiste solo quando viene fissata in una foto e postata sui social network e se l’eventualità del fake è il nostro corrispettivo di significato, e di interpretazione, potremmo mai affermare di aver visto? Quando vediamo una foto, la stiamo davvero osservando? Conosciamo quello che vediamo? (Lucia Medri)
Visto a Teatrosophia: Testi: Collettivo Socrates; Ideazione scenica: Alberto Bellandi, Giulia Bornacin, Emanuele Di Giacomo; Voci e percussioni: Giulia Bornacin; Voci e strumenti: Simone Martino - Amedeo Monda. Foto di Federica Milia
LA TRAIETTORIA CALANTE (Pietro Giannini)
La storia del crollo del ponte Morandi a Genova è cronaca di una tragedia annunciata fin dalla costruzione del ponte stesso, nella triste tradizione tutta italiana di incuria, malaffare, capitalismo violento, leggi ad personam. Un groviglio di concause, di personaggi grandi e piccoli, di dettagli minimi eppure fondamentali. Pietro Giannini si mette davanti alla matassa e inizia a sbrogliare il filo, dapprima da lontanissimo, rievocando una leggenda popolare genovese che gli dà modo di sfoggiare la sua freschissima formazione accademica. La storia poco edificante del contadino vittima del potere, persino di quello spirituale, ha la funzione di introdurre due personaggi, un civile e un prelato, la testa all’insù e gli stivali di gomma immersi nel letto del Polcevera negli anni 60, quando si cominciava a immaginare questo viadotto tra la Genova industriale e quella borghese. Il racconto procede rimbalzando tra la platea e l’eloquio incalzante di Giannini mentre alle sue spalle scorrono le immagini in soggettiva di un’automobile in viaggio verso Genova. L’attore e drammaturgo 24enne, ampiamente padrone del palcoscenico, ricostruisce la vicenda del ponte dalla nascita al tragico epilogo, inanellandone abilmente i complessi passaggi e inglobando lo spettatore nel suo gioco frenetico più vicino all’inchiesta e alla stand up satirica che alla ricostruzione drammaturgica tipica del cosiddetto teatro civile. Giannini è molto a suo agio nel chiamare in causa il pubblico, col risultato di instaurare a tratti uno stato d’animo confuso nella platea: il gioco a volte prende il sopravvento, mentre sfilano i soggetti e i dettagli terribili di quella traiettoria calante, ovvero l’esito fallimentare di un’impresa costata la vita a 43 persone, sacrificate da chi sapeva e ha taciuto in nome del profitto. L’ultima immagine proiettata dallo schermo è quella disarmante del gruppo di familiari delle vittime: lo sguardo dritto piantato sullo spettatore e su tutti i personaggi che tramite Giannini hanno attraversato quel palcoscenico vuoto. (Sabrina Fasanella)
Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival. Anni Luce. Di e con Pietro Giannini. Produzione Teatro Nazionale di Genova
#NAPOLI
LA PRIMA LUCE DI NERUDA (di R. Cappuccio, regia César Brie)
Come un macroalveare di più asteroidi, una massa di destini letterari, poetici, musicali e scenici, e di accostamenti umani, storici, genealogici e politici, convergono in uno spettacolo con trasposizione e regia d’un artista migrante, il bonaerense César Brie, un argentino di casa in Italia, in Bolivia, nell’Europa dell’Odin o (qui diremmo) un sudamericano che è stato anche di stanza a Santiago del Cile. Ha un senso molto legato alle sue radici, il fatto che ora si sia ben prestato ad adattare per la ribalta il romanzo “La prima luce di Neruda” di Ruggero Cappuccio, lavoro che ha avviato il Campania Teatro Festival diretto dall’autore di quel volume. Ma la sintonia geoculturale tra Brie e Neruda non è l’unica che sovviene, in questa impresa. Risale a un’amicizia fraterna nei centri sociali milanesi degli anni ‘60, il rapporto tra il regista e Elio De Capitani e Cristina Crippa, due dei coprotagonisti della messinscena, un legame sviluppatosi col Teatro dell’Elfo, qui coproduttore col Festival. Un assetto sinergico della compagnia fa poi sì che a impersonare Pablo Neruda e la sua amata ultima moglie da giovani siano Umberto Terruso e Silvia Ferretti, due attori di Brie, e a dar vita alla coppia (per 27 anni) del poeta e della sua donna in età matura si siano prestati De Capitani e Crippa, duetto d’arte e nella vita, in dialogo da anni con Cappuccio e con la manifestazione campana. Naturalmente il testo di Brie è un bellissimo referto poetico della letteratura intima e diaristica (e cronologico-diacronica) del libro partigiano, schierato e drammatico di Cappuccio. Con un impianto frugalmente costituito solo da due letti singoli e panche per lo scrittore e la sua amata incontratisi a 48 anni lui e a 39 anni lei. Col fascino d’un decreto d’espulsione da Napoli cui alla stazione Termini s’oppone una folla d’intellettuali, col buen retiro a Capri dei due bravi attori giovani, finché la staffetta è conclusa in Cile (Neruda muore di cancro e di assassinio del regime di Pinochet) dai due generosi campioni dell’Elfo. Tra i canti incantevoli di Francesca Breschi. Con bei video. Dalle Ande agli Appennini. (Rodolfo di Giammarco)
Visto al Campania Teatro Festival. Crediti: di Ruggero Cappuccio regia e adattamento di César Brie con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Silvia Ferretti, Umberto Terruso musiche eseguite dal vivo da Francesca Breschi luci e scena di Nando Frigerio video di Umberto Terruso costumi di Alessia Lattanzio produzione di Teatro dell’Elfo e del Campania Teatro Festival