HomeArticoli«Tutta colpa di Wallace». Una conversazione con Liv Ferracchiati

«Tutta colpa di Wallace». Una conversazione con Liv Ferracchiati

Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka) di Liv Ferracchiati debutterà il 27 gennaio al Teatro Studio Melato di Milano, dove rimarrà in scena fino al 25 febbraio. Una produzione targata Piccolo, a partire da Il gabbiano di Anton Čechov. Ma il titolo viene da David Foster Wallace. Abbiamo intervistato il regista.

«Se noi avessimo una visione e una percezione acuta di ogni vita umana comune, sarebbe come udire l’erba mentre cresce e il cuore che batte dentro lo scoiattolo, e moriremmo di quel frastuono che si trova dall’altro lato del silenzio». Questa citazione di George Eliot, sotto il velo della benevolenza, mi ha sempre fatta pensare al lato oscuro, quasi nauseabondo, di questo brulichio, a come si deformano gli oggetti – e gli esseri umani – quando li osserviamo troppo a lungo, o troppo a fondo. Se la grazia è cogliere in una sola occhiata, la condanna opposta è quella alla vertigine. Per Liv Ferracchiati, le cose riflesse nell’acqua tremano, come da titolo della sua nuova produzione, targata Piccolo, che debutterà il 27 gennaio al Teatro Studio Melato e rimarrà in scena fino al 25 febbraio. Si tratta di una “sovrascrittura” de Il gabbiano di Anton Čechov, come si intuisce dal sottotitolo čajka.  Anche qui c’è un giovane scrittore, chiamato semplicemente il Figlio, che cerca l’ispirazione per un nuovo testo, richiuso in una casa sulle rive di un lago. Attorno a lui, due figure femminili, entrambe attrici – la Madre e Nina, della quale è innamorato – e altri personaggi (lo Zio, il Dottore, il Romanziere, la Vicina e il Maestro), tutti attratti dal magnetismo stagnante del lago, dalle sue profondità, tutti in qualche modo delusi, nessuno (ancora) arreso, tutti sulla sponda.

 Il titolo, invece, è un frammento del racconto di David Foster Wallace, Caro vecchio neon, contenuto nella raccolta Oblio: la cronaca dei momenti che precedono un suicidio, dettato dalla consapevolezza (non soltanto della propria inautenticità ma anche) dell’inesistenza dell’autenticità. Pagine di stordimento e paradossi della logica, il mondo materiale fluttua e si increspa come se si specchiasse sulla superficie di un elemento instabile, una forma che somiglia alla spirale, più che all’abisso. «Ma un pomello ce l’ha, la porta si può aprire», scrive Wallace. E Ferracchiati pare, negli ultimi anni, interessato al tema del passo di uscita, e a quello alle armi da fuoco. Come una pistola carica, recitava il sottotitolo di Hedda. Gabler., altra produzione del Piccolo dello scorso anno. D’altra parte – e questo lo scrive invece Čechov – se sulla scena compare una pistola, prima o poi sparerà. 

Foto Masiar Pasquali

Čechov muore nel luglio del 1904, appena sei mesi prima dello scoppio della Rivoluzione Russa del 1905. Mi  sembra che la sua opera registri un senso di latenza e di vigilia: l’inquietudine che pervade il preludio di un grande cambiamento. Concordi sul fatto che la sua scrittura sia una specie di “metronomo” dei tempi? 

Metronomo non so, di sicuro Čechov prendeva dal suo presente, ma anche dal suo passato, dalla letteratura che lo ha preceduto. Nel Platonov, per esempio, si avverte chiaramente l’influsso di Anna Karenina di Tolstoj ma anche quello di Padri e figli Turgenev: l’ambizione a rovesciare l’assolutismo zarista, la gioventù intellettuale che cerca di spiegare la rivoluzione ai contadini nelle campagne, i contadini che non possono comprendere di cosa si stia parlando. C’è un sentore di rivoluzione, un’atmosfera, ma anche una profonda incapacità di agire: l’immobilità degli esseri umani è anche l’immobilità di una nazione. Le lettere di Čechov raccontano di questo conflitto, e anche del conflitto tra la carriera letteraria e quella di medico, una professione che garantisce, almeno, un senso di utilità, la possibilità di occuparsi delle persone e del miglioramento delle loro vite. La scrittura, invece, è il luogo del dubbio: a cosa servo? Ci sono lettere avvelenate, indirizzate ai contemporanei, sia critici che colleghi. Da una abbiamo prelevato un passaggio che, rimodulato, è diventato un monologo dello Zio: un lamento sull’inconsistenza, sul non desiderare nulla e – a fronte di questa indistinzione – sul non temere nulla, neppure la morte. Il pensiero sulla possibilità di operare una distinzione, a garanzia del fatto che non tutto è uguale a tutto, è anche il pensiero sulle “forme nuove” in letteratura, al centro del rovello del Figlio. Fino a che esiste questa tensione, c’è fiducia, e dunque non c’è resa. Si tratta di una tensione dolorosa, e forse illusoria, dello sforzo di essere capiti. Eppure la forza della scrittura risiede proprio nel suo essere così nuova da ferire il sistema, nel suo rimanere non compresa. Dopo la comprensione, arriva il canone, e poi l’intoccabilità. È stato anche il destino di Čechov. 

Torniamo all’utilità. Con la tua compagnia The Baby Walk, qualche anno fa, avete lavorato a una Trilogia sull’identità, un’indagine sulla costruzione dell’identità di genere, intesa come processo formativo (e di relazione) comune a tutti. Credo che abbiate sperimentato un forte senso di utilità, nel parlare di un tema a lungo silenziato, poi iper-discusso e spesso frainteso. E ora?

Ci piace ricordare la Trilogia come un’operazione per rinnovare l’immaginario e, sì, per noi è stato un momento epocale proprio perché avevamo la sensazione di fare qualcosa di enorme, qualcosa di necessario, che si spingeva al di là del fatto teatrale. Poi c’è stato questo salto inaspettato e ci siamo ritrovati, nel 2017, sul palco di Biennale e, all’improvviso, al centro di un’attenzione diversa. Alla Trilogia sono state dedicate tesi di laurea, ancora ricevo messaggi o incontro persone che mi dicono: «aver visto quel tuo spettacolo, mi ha cambiato». Io credo che il punto sia stato crederci con così tanta forza, nella possibilità di raccontare l’ordinarietà (dell’infanzia, dell’amore, della paura) dentro la condizione, percepita come extra-ordinaria, di una persona transgender. Se quello che mi chiedi è se questo adesso ha lasciato il posto a un dispiacere, a una difficoltà di ritrovare la stessa urgenza, posso risponderti che ciò che tanto mi colpisce in Čechov, il motivo per il quale lo studio e continuerò a studiarlo, è il suo modo di interrogarsi profondamente e continuamente. È una sorta di crisi che non finisce mai, che spalanca sempre nuove domande su chi si è, e dove ci si colloca nel mondo. In questo lavoro – pur senza il “clamore” della Trilogia, e senza quell’esigenza divulgativa – il sentimento della necessità è affine. Io sono veloce nella scrittura, ma devo avere una spinta, una connessione profonda a quello che sto facendo, altrimenti il fatto stesso di scrivere diventa una grande sofferenza e, per certi versi, anche un fallimento. Non sto dicendo che possa essere sempre così, però produrre un lavoro, magari anche funzionante e bello, che non ha impatto su chi lo guarda, che non cambia chi lo guarda, secondo me è un’occasione persa. Perché il nostro è davvero uno di quei mestieri che ti danno la possibilità di intervenire nella vita delle persone. A patto di essere sinceri.

Dalle prove.Foto Masiar Pasquali

In un’intervista di un paio di anni fa a Rolling Stone, dici: «parto sempre da una domanda che può dare le vertigini». Quale è stavolta?

In Come tremano le cose riflesse nell’acqua direi che ce ne sono più di una. Un nucleo tematico fortissimo è il rapporto madre-figlio ma, al di sotto di questo livello, c’è il tema del bisogno di essere riconosciuti. È come se il protagonista chiedesse di continuo un “patentino per esistere”. Lo chiede alla madre, a Nina, alla società. Il punto non è solo esistere in termini artistici, trovare il proprio spazio e la propria voce, ma esistere come essere umano. Io credo che, in questo caso, la costruzione dell’identità artistica sia lo specchio della propria costruzione come individuo, e che le due cose a volte coincidano. Per il Figlio il fatto che venga rifiutato un suo testo equivale a un rifiuto di lui, e così anche il fraintendimento, l’orrore di non essere capito. Quando Nina gli dice che i racconti del Romanziere sono meravigliosi, lui sperimenta un tradimento più profondo di quello che avrebbe provato se l’avesse vista baciarlo. C’è qualcosa di tragico, e di inevitabile, in questa coincidenza perché tutti abbiamo bisogno di identificarci con qualcosa, di definirci per adesione o per polemica a una tradizione, o a un immaginario. È impossibile capire chi si è, perché ogni strato che siamo abituati a chiamare “io” – che si tratti di un taglio di capelli, o di un posizionamento morale, o artistico – a ben guardare, proviene da qualcosa che ci precede, qualcosa al quale la società ha assegnato un significato, un’immagine sempre riflessa, mutuata. Svincolarsi è impossibile, abbiamo bisogno di questi codici (di queste censure) per esistere, per muoverci nel mondo. Questo rende la domanda «chi sono davvero?» vertiginosa, se ti soffermi a chiedertelo.

Il tema materno, già esplorato in Stabat Mater, torna con forza in Come tremano le cose riflesse nell’acqua. Alcune immagini indicano una tensione fusionale, a un “ritorno nell’utero”. Si tratta di un argomento freudiano ma, ancora di più, di Otto Rank che, ne Il tema dell’incesto (1912), individua nel trauma della separazione del bambino dalla madre la prima esperienza di angoscia, la “protoangoscia”. Tutta la vita psichica e la formazione identitaria si originano da lì, come una risposta reattiva…

Credo che il lavoro che tutti facciamo sulla nostra identità – artistica, umana, di genere, sociale – consista in una sequenza di tentativi, più o meno consapevoli, più o meno felici, di posizionarci rispetto allo sguardo altrui. Sono tentativi che rivaleggiano con una tensione all’indistinto, alla pace, anche a un’autenticità che, per le ragioni che dicevamo, è sempre irraggiungibile. Questa tensione può manifestarsi come un desiderio “regressivo” (il ritorno nell’utero, appunto) che, in qualche modo, può arrivare a somigliare a un anelito suicidario. Forse siamo autenticamente solo chi eravamo nel grembo materno, dunque prima di essere, nella protezione profonda e armonica offerta da un organismo più grande, nella verità del corpo. Nel monologo finale del Dottore, si può cogliere qualcosa di questa concezione: lascia intuire di aver fatto esperienze di edonismo, di essersi forse affacciato su di un abisso, di aver toccato un limite. Poi però si è ricordato di poter respirare, che il suo corpo poteva muoversi, e questa consapevolezza, così semplice, lo ha calmato. L’autenticità si situa nel corpo, nella materia organica che siamo, prima di sviluppare la consapevolezza di noi stessi attraverso delle strutture date. In tutti i personaggi di questo spettacolo, sotto diversissime forme, scorre la stessa domanda, la stessa angoscia del collocarsi, e anche la stessa tensione a sparire, per non avere più il problema della collocazione e del riconoscimento. 

Dalle prove.Foto Masiar Pasquali

Jean-Paul Sartre pone la reificazione (intesa come percezione deformata dell’altro) a fondamento di tutti gli atti di riconoscimento, e dunque dell’intersoggettività umana. In una battuta del Figlio, l’atto di ritrarre in una sola forma è assimilato all’impagliatura di un uccello morto…

Lo scontro sugli intenti letterari (realismo contro simbolismo in Čechov) è uno scontro molto intimo, e alla fine non ci sono una ragione e un torto – o forse ci sono in relazione alle fasi della vita – perché si tratta soltanto di modi diversi per provare a esistere. Nina è il prototipo dell’attrice, un personaggio nel quale è racchiuso il tentativo di astrarre l’idea di Teatro, e la crisi che porta con sé, il costante sforzo di stare e starsi in ascolto. Per questo è identificata, a differenza di tutti gli altri, con il nome proprio, come un assoluto, e non con un nome comune che indichi relazione o ruolo (Figlio, Madre, Dottore, Romanziere…). Il fatto che venga ritratta in forma di gabbiano, di čajka, che interiorizzi quella forma di sé, scelta da un altro, è ciò che la distrugge. Nel dialogo finale con il Figlio, sembra affiorare alla sua coscienza, oltre la sua volontà, la definizione nella quale è stata imprigionata: «io sono un gabbiano». Le abbiamo concepite come “intermittenze” čechoviane, la parola originale (studiata a fondo, grazie alla consulenza e al lavoro di traduzione di Fausto Malcovati) è fondamentale, vive nelle profondità del testo. In queste battute di Nina, preme sotto la superficie, sotto le intenzioni, simile a un rimosso. C’è una brutalità insita nell’atto del definire, chiudere in una forma vuol dire uccidere la mutevolezza delle possibilità altrui: l’animale impagliato è a tutti gli effetti se stesso, poi però ti accorgi che è morto. Nella concretezza dell’azione, è lo stesso processo che imponiamo a noi stessi ogni giorno, al quale non possiamo sfuggire perché, per comunicare, dobbiamo scegliere un codice e darci una forma. Però, tra le due, io preferisco scegliere per me stesso, è un piccolo passo in più (forse l’unico possibile) verso un’utopia di libertà. Mi ricordo che in Accademia spesso si parlava de Il gabbiano come di un’opera sul talento. Per me, il tema non è il talento, è la libertà. La sua ricerca impossibile e la frizione tragica tra questa ricerca e le forme che organizzano il mondo, che il nostro pensiero non può trascendere. Questo conflitto è comune a tutti e, sulla scena, prende la forma della coralità.

A proposito di scena, come funziona la tua immaginazione visiva?

Scrivendo, ho fatto lavorare le immagini insieme. Quelle della memoria, già raccolte sulla scena, in prova (a partire dalle improvvisazioni degli attori su Il gabbiano), e quelle di fantasia, comunque modellate sui corpi degli interpreti e, più ancora, sul loro respiro e sul loro modo di occupare lo spazio. Penso spesso alle persone sul palco in termini di “fatti fisici”. Mi interessa molto la dialettica tra il ritmo interno dell’attore e il ritmo interno del personaggio, quanto ciascuno di loro debba avvicinarsi o allontanarsi da se stesso per essere chi gli è chiesto di essere. Così si apre quello spazio di libertà in cui, sapendo il punto dal quale parto e quello dove voglio arrivare, posso lasciare che i personaggi siano vivi. E, di nuovo, è una vitalità che si radica nelle possibilità dei loro corpi.

Dalle prove.Foto Masiar Pasquali

Vuoi parlare con me di scrittura autobiografica? È una categoria che è stata spesso chiamata in causa, parlando dei tuoi lavori, e so che il piano è inclinato e sdrucciolevole. Ti leggo una nota di Dino Buzzati: «[…] tutti i romanzi scritti in sincerità d’animo sono autobiografici. […] Non autobiografiche possono essere soltanto le cose fatte a freddo, sia pure sulla base del talento, cioè le cose, di un artista, non completamente sue». Che ne pensi?

Se la questione fosse stata presentata in questi termini, e con la raffinatezza di pensiero di Buzzati, la mia risposta a questa domanda sarebbe stata sempre: ovviamente sì, quello che scrivo è autobiografico. Credo che valga per chiunque scriva. Si capta dal reale e si accetta di venire attraversati da ciò che accade nel reale, ci si pone al servizio: poi questi elementi vengono filtrati, scomposti, ricombinati con altri, precipitati e trasfigurati in una forma nuova. Ho tenuto per diverso tempo un laboratorio intitolato Mi fa male l’autofiction. Male in due accezioni: perché è ombelicale, poco interessante, ma anche perché guardarsi dentro dà dolore. Durante queste lezioni citavo Le confessioni di Rousseau, forse una delle opere autobiografiche più emblematiche della storia, partendo dalla pagina in cui ammette che, anche in presenza di un intento programmatico, la descrizione della realtà, delle cose per come sono accadute davvero, è impossibile, perché i filtri del ricordo e della percezione non possono mai essere rimossi. Il principio di selezione (come nel funzionamento della memoria, e come nel montaggio del film Strade perdute di Lynch) deformerà sempre questa operazione. Per paradosso, l’autobiografia, anche volendola fare, è impossibile. Ai tempi della Trilogia, poi, era fastidioso che si alludesse a una sovrapponibilità tra il vissuto del protagonista e il mio, per ragioni di identità di genere. Sempre per paradosso, sarebbe come dire che qualsiasi storia scritta da una persona cisgender, con protagonista una persona cisgender, sia la storia della sua vita. Nell’altro senso, invece, se domani scrivessi una storia sugli alieni, anche quella sarebbe autobiografica, perché l’immaginario dentro il quale gli alieni si muoverebbero sarebbe il mio. La scrittura è un processo, per certi versi, misterioso e popolato di fantasmi e di frammenti così trasfigurati da essere irriconoscibili, a volte, anche a chi scrive.  Inoltre, ribaltando la questione: perché è così interessante intercettare i “prelievi” dal reale in un’opera di finzione? Dimmi piuttosto se quello che vedi è bello, se è organico, se è funzionale, se tocca delle corde in te. Dimmi se è scritto male. 

C’è questa lettera di Čechov, in cui racconta di una battuta di caccia insieme al pittore Isaak Levitan. Levitan spara a un beccaccino, il beccaccino cade a terra ma non è morto, Levitan non ha il coraggio di finirlo e chiede a Čechov di farlo. Čechov esita, poi guarda la bestia, così sofferente e così bella, e lo fa. In qualche modo, ho pensato che ci fosse una consonanza di sensazioni con la morte del gabbiano nel dramma, un’atmosfera simile, oziosa e cupa. Non ho controllato se la lettera fosse precedente alla stesura de Il gabbiano. Il punto è sempre il sentire, l’uso che ne fai, quello che puoi evocare, non l’aneddoto.

Dalle prove.Foto Masiar Pasquali

Čechov intercetta il passato attraverso l’influsso della letteratura che lo ha preceduto. Nel tuo testo – a partire dal titolo e, soprattutto, dentro l’inquietudine esistenziale e creativa del protagonista – si annida il fantasma di David Foster Wallace…

Nell’atto terzo del testo di Čechov, c’è questa scena, in cui la Madre slega la bendatura del Figlio, per medicarlo. È un passaggio che mi ha colpito subito e poi, via via, quasi ossessionato. Sentivo che da lì si sarebbe originato qualcosa, continuavo a ripensarci. La mia scrittura però si è attivata quando mi sono ricordato di Caro vecchio neon – stavo conducendo una rasserenante ricerca sui letterati suicidi, quindi Sylvia Plath, Sarah Kane, Wallace – e me lo sono andato a rileggere: qualcosa ha fatto contatto. Il protagonista di Wallace sceglie di uccidersi perché non riesce a essere se stesso: ogni volta che si relaziona a qualcuno, attiva una strategia, per ottenere qualcosa, per essere riconosciuto, per piacere. La sua analisi approfondita rivela che il meccanismo è impossibile da scavallare, imprescindibile, che sollevando uno strato di mistificazione, se ne svela un altro, il fondo non esiste. Decide di compiere il gesto e, nell’istante in cui realizza che la sua epifania è del tutto inutile, che ogni cosa nel mondo gli sopravviverà perfettamente invariata, quello che gli sta intorno inizia a tremare, come tremano le cose riflesse nell’acqua. Il Figlio lo legge perché è un modello di scrittura: la sua pagina è viva e avvolgente, ha la qualità mobile dell’elemento acquatico, e anche le sue profondità spaventose. E poi perché è trasformativa, tocca qualcosa, incide sulla realtà. La scrittura può farlo. Insomma, ecco, alla fine è tutta colpa di Wallace.

Ilaria Rossini

Piccolo Teatro di Milano, Teatro Studio Melato, in scena dal 27 gennaio – 25 febbraio 2024

COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA 
(čajka)

di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
regia Liv Ferracchiati
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella 
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa


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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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