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Perché De Fusco al Teatro di Roma non è la scelta giusta

La nomina di Luca De Fusco alla direzione del Teatro di Roma ha generato diverse discussioni, alzato un polverone partendo o investendo recriminazioni politiche da parti differenti: una polemica che ha interessato il dibattito anche fuori dall’universo strettamente teatrale. Dopo la direzione del Teatro Stabile di Napoli (2011-2019), De Fusco era approdato a Catania. Le prospettive di futuro più sensate sono, sempre o molto spesso, quelle che tengono conto dei pregressi “storici” e, di certo, Roma e Napoli si configurano come due realtà con maggiori affinità per un parallelismo. Per tentare dunque di focalizzare quanto accade oggi, abbiamo sentito Alessandro Toppi, cronista teatrale de la Repubblica Napoli, già critico per il web, direttore de La Falena. La sua conoscenza territoriale e l’impegno costante nell’osservazione della scena (non solo) partenopea ne fanno l’interlocutore migliore possibile per la composizione di un percorso di scambio e analisi concreto.  

Foto da www.teatrostabilecatania.it

Ogni entità o cellula artistica vive all’interno di un contesto. Questa nomina è allora sicuramente un tassello fra altri, difficile dire adesso quanto emblematico, e si inserisce in un processo di configurazione quantomeno culturale di una città come Roma.

In premessa: bisognerebbe innanzitutto aprire un discorso serio sul modo in cui i processi di nomina avvengono in questo paese. Devo essere sincero: non trovo corretto metterne in discussione una e tralasciare le altre semplicemente perché un profilo lo sentiamo più o meno vicino o gradito. Parliamo di Roma, d’accordo, ma in quanto micro-comunità che polemizza e si mette in discussione avremmo dovuto parlare (o dovremo parlare) anche dell’Emilia, di Milano, del Veneto. Perché sia stato scelto proprio Roberto Andò a Napoli io mica l’ho capito, per non dire della Toscana. E certi festival guidati da Fondazioni in house alle Regioni e i Circuiti, che sono un grande tema strutturale e mai affrontato veramente. E poi, nel contempo: trovo fuorviante dover risentire frasi come «i partiti restino fuori dalle nomine» giacché parliamo di teatri pubblici, che hanno soci pubblici, ricevono finanziamenti pubblici e assolvono a funzioni e a responsabilità pubbliche. Ti dirò di più: partiti e istituzioni, attraverso chi li rappresenta in un CdA, devono assolvere invece fino in fondo il proprio compito (compreso quello delle nomine), ma ogni decisione presa dev’essere leggibile e dunque valutabile da chi osserva. Insomma: il teatro dovrebbe diventare in momenti come questi un edificio trasparente affinché sia possibile comprendere perché De Fusco, o chiunque altro, sia stato scelto, quali sono stati i criteri di valutazione e i ragionamenti fatti, che tipo di programma ha esposto e quale identità vuol dare al teatro che si propone di dirigere. Invece, nel caso di Roma, ad esempio, ciò che davvero mi ha colpito è un passaggio della conferenza stampa del Presidente Siciliano in cui parlando della formazione della terna finale (Cutaia, De Fusco, Giorgetti) ha spiegato che sono arrivate quarantadue candidature – «donne e uomini che hanno dedicato la loro vita al teatro» – ma che il processo di comparazione e selezione sarebbe stato istantaneo: mentre anni prima diciannove tra candidati e candidate furono oggetto di analisi e confronto per due settimane stavolta «la commissione si è riunita e in mezza mattinata ha scelto tre nomi». Se ciò fosse vero – e non ho motivo di dubitarne – inficerebbe l’intero processo, rendendolo disonesto nella sostanza prima ancora che sul piano formale o legale. Come si valutano infatti quarantadue candidature in mezza giornata? Che tipo di approfondimento è stato fatto? Quali parametri sono stati utilizzati? Mi viene da pensare che vi sia stata una scrematura nominale o che era stato già deciso chi dovesse contendersi la direzione. Ecco, rispetto a questo pretendo di sapere: non soltanto come giornalista ma in quanto cittadino. Invece ci sono tre membri del Consiglio di Amministrazione (Danilo Del Gaizo, Marco Prosperini, Daniela Traldi) che, generando una frattura, hanno scelto di nominare qualcuno, evidentemente perché credono che quella persona sia la migliore di tutte. E allora mi viene da dirgli: esponetevi e diteci le ragioni artistiche e manageriali. È un vostro dovere.

Se dovessimo cercare delle parole per tracciare una sorta di profilo della direzione artistica di De Fusco allo Stabile di Napoli quali potrebbero essere?

Mi chiedi un ritratto di De Fusco… Potrei dirti che lo considero privo di talento, che la sua carriera da decenni mi pare dipenda dalla possibilità che ha (in quanto direttore e regista) di autoprodursi spettacoli attraverso l’impiego di finanziamenti pubblici e che le sue messinscene, secondo me, non lasceranno alcun ricordo: che ciò cui sta dando vita, insomma, non avrà memoria, permanenza. Ma che importa? È il parere fallibile di un singolo (spettatore) rispetto a un singolo (regista). Qui stiamo discutendo altro: non della qualità creativa di un individuo, ma della sua capacità di dirigere un grande teatro, che vuol dire saper coordinare e valorizzare le professionalità di alto livello che la struttura contiene e, nel contempo, essere in grado di mettersi in ascolto di una complessità (territoriale, sociale, politica e artistica) affinché questa complessità abbia voce, forma, spazio e diritto di parola e di rappresentazione di sé. Insomma, non parlo del regista, ma di chi dirigerà il Nazionale della capitale. E, sulla base di quel che ho visto a Napoli, capisco le preoccupazioni. Perché – ad esempio – le regie firmate da donne durante la sua direzione sono state meno del 10%; perché la danza è stata un accidente, il sostegno alla nuova drammaturgia poco meno che episodico e la relazione con la teatralità europea ed extra-europea rara e spesso legata a interessi di curriculum anche personale. O perché, per dirne ancora una, gli spettacoli firmati dagli under 40 (tra produzioni e ospitalità) sono stati poco meno della metà di quelli firmati dagli over 75. Il modo in cui ha gestito le tournée; la qualità complessiva della proposta; l’assenza di iniziative dedicate alla formazione del pubblico; l’uso dei classici di cassetta («facciamo sempre gli stessi titoli» gli ho sentito dire, come fosse normale); strategie di vendita di biglietti e abbonamenti da terziario commerciale o da compagnia aerea low-cost (prima fai l’abbonamento e meno paghi); il distacco percepibile tra il teatro inteso in quanto arte e istituzione e il contesto di cui fa parte; la funzione data alle sale dello Stabile, col Mercadante destinato prettamente agli scambi nazionali e il San Ferdinando e il Ridotto usati soprattutto per distribuire opportunità istantanee agli artisti locali, così da affievolirne nel tempo il dissenso, l’opposizione (rimasta vigorosa nei singoli: penso, solo per fare degli esempi, a Orlando Cinque e Sara Sole Notarbartolo, Alessandra Asuni e Carlo Cerciello, Mimmo Borrelli e certi giovanissimi della mia città). Sia chiaro: scambi effettuati senza alcuna ragione qualitativa, disparità di genere, scarsa valorizzazione di teatranti under 35 e disinteresse per le nuove scritture di scena non sono una prerogativa di De Fusco, caratterizzano invece una parte rilevante delle istituzioni pubbliche teatrali: diciamo tuttavia che De Fusco a Napoli non si è dimostrato un direttore che lavora in controtendenza rispetto alle dinamiche appena descritte.  È di questo che hanno bisogno le lavoratrici e i lavoratori del Teatro di Roma? E la comunità di artiste e artisti romani (a cominciare da chi ancora non è emerso) è di questo che ha bisogno? Soprattutto: è di questo che ha bisogno la città? Detto ciò, il mio ritratto non potrebbe essere completo se tacessi alcuni risultati raggiunti (penso a Pompeii Teatrum Mundi) e se non dicessi la sua abilità nel governare il dissenso attraverso un’accorta politica di concessioni. Non è un caso che, nell’intervista rilasciata alle pagine romane de la Repubblica il 21 gennaio, abbia dichiarato: «fidatevi, metterò pace». Come a dire: troveremo un accordo che vada bene sia a me che a voi. E penso sia convinto di riuscirci.

Credi davvero che tutto questo prescinda dal percorso e dall’identità artistica di De Fusco?

Naturalmente no. E vale per lui così come per qualsiasi altro direttore o direttrice. La scelta viene fatta anche sulla base del percorso compiuto. Storia, identità, convinzioni, cultura del direttore (della direttrice) condizionano l’organizzazione del lavoro, l’impiego delle risorse, la natura dei progetti e degli investimenti. Ma su questo non devo esprimermi io bensì Danilo Del Gaizo, Marco Prosperini e Daniela Traldi che, forzando fino allo scontro la decisione, lo hanno scelto. A loro tocca dare spiegazioni. Ribadisco però l’ovvio: dev’essere chiaro che, proiettando per i prossimi cinque anni quanto fatto a Napoli, gli spettacoli di De Fusco saranno l’immagine primaria che il Teatro di Roma darà di sé in città, in regione e nel paese. Tanto quanto lo sono stati per Napoli a suo tempo. Le produzioni principali saranno le sue, a girare saranno soprattutto i suoi lavori.

La nomina di un direttore ha a che vedere molto con il contesto all’interno della quale essa si inserisce, o da parte delle istituzioni scrive e si inscrive – almeno idealmente – in un progetto di visione, costruzione o ricostruzione di una città, intesa non solo in senso letterale, ma anche come comunità ed entità sociale e culturale, quindi una città teatrale in tutti i sensi. Napoli, come Roma è una città con un carattere definito: nonostante i termini di più o meno apparente e ciclica adattabilità tendono a conservare una “refratterietà” o meglio una sorta di resistenza identitaria.

Nel caso di Napoli, io e te sappiamo benissimo che è una città teatrale capace di rendersi impermeabile alle mode del momento. C’è una tradizione che non di rado scade in convenzione, tanto quanto c’è una quota crescente di commercialità ospitata anche in contesti che dovrebbero essere finalizzati al rischio artistico e all’innovazione (pensa alla decadenza progressiva del Campania Teatro Festival); c’è tuttavia anche una Storia (fatta di donne e uomini, famiglie sceniche e compagnie e di lingua, prassi, segni e gesti, abitudini e tendenze) che continua a preservare l’essenziale. Se, riferendoti a De Fusco, mi stai chiedendo quanto la sua direzione abbia inciso culturalmente sulla scena campana, mi viene da dirti che ha contato soprattutto in termini di assenza e di ritardo. Le opportunità reali che chi fa teatro qui meritava e non ha avuto e gli spettacoli che noi del pubblico non abbiamo visto, gli artisti e le artiste che non abbiamo conosciuto, quel che non è successo, ciò che non abbiamo mai incontrato. Quando uno Stabile non svolge la sua funzione appieno quel che capita – mi sembra – è innanzitutto che le cose che potrebbero accadere non accadono: la crescita di una compagnia che abbia un rilievo nazionale; l’emersione di una nuova voce drammaturgica; l’attrice o l’attore che non conoscevamo e che ci resterà negli occhi per chissà quanto; il testo che ci sconvolgerà o quella parte di mondo che ignoravamo e che abbiamo compreso finalmente per mezzo di una trama, la recita, gli interpreti. Spesso mi capita di mettere in fila i numeri per cercare di capire cos’è accaduto. Lo faccio e nel frattempo penso a quel che mi è mancato, alle occasioni perse, al vuoto che è stato prodotto.

La nomina di De Fusco ha generato una grande polemica tra gli artisti romani. Prima accennavi a dei nomi… Che tipo di relazione c’è stata tra De Fusco e la comunità artistica napoletana ai tempi della sua direzione?

Al momento della sua nomina ci fu uno strappo forte a Napoli: Andrea De Rosa avrebbe dovuto dirigere lo Stabile ancora per due anni. Ma in Regione arrivarono la destra, Stefano Caldoro e Caterina Miraglia e si pretese un cambio. Meglio: un’appropriazione istituzionale. De Rosa alle pagine napoletane de la Repubblica giustamente parlò di assenza «di coerenza e limpidezza», di mancanza di rispetto per il suo lavoro e di «atto lesivo» della dignità. Le lettere collettive di protesta, la raccolta di firme, lo scontro nel CdA, le dimissioni di un suo membro (Anna Maria Azzaro) e – di contro – i manifesti del centrodestra che tappezzavano il centro storico avvertendoci: la musica è cambiata. «È prassi che quando mutano gli azionisti cambino anche i vertici di un’azienda, pure se si tratta di un teatro» ci spiegavano e d’altronde «lo Stabile naviga in cattive acque», «le casse sono vuote», «gli abbonamenti sono scesi a duemila» ripeteva chi giustificava l’atto: «Il nuovo direttore Luca De Fusco viene dalla lunga e positiva esperienza del Teatro Stabile del Veneto, in cui è riuscito a condurre il teatro a importanti riconoscimenti nazionali e internazionali, il tutto con un grande equilibrio tra sovvenzioni e autofinanziamento» si leggeva in una nota ufficiale emessa dal teatro. De Fusco farà meglio, spendendo meno e mettendo i conti in ordine. Questo assicuravano Caldoro e Miraglia in conferenza stampa. Fu una scelta partitica, a mio parere, addobbata da urgenze economiche. Che c’erano ma che, distinguendo i bilanci dalla cassa, sono rimaste: chiedete pure a scritturati e tecnici del ritardo con cui sono stati pagati negli anni (ritardo dovuto anche al cronico sfasamento dei tempi di riscossione delle quote emesse dai soci dello Stabile: Comune e Regione). I teatranti e le teatranti dunque reagirono costruttivamente, tracce si trovano ancora online: petizioni, documenti, verbali di assemblea, video che rimandano a incontri pubblici (quelli avvenuti al Palazzo delle Arti di Napoli, per esempio). Poi la necessità di sopravvivere, il bisogno di riprendere con la vita e il lavoro, la ricattabilità implicita o esplicita determinata dalle condizioni economiche e contrattuali del settore, una propensione individuale al compromesso o all’accettazione e l’inscalfibilità del potente, la diserzione delle istituzioni, il tempo che passa, la fatica che si accumula, il «chi me lo fa fare?», «a che serve?», «a cosa mi oppongo infine?». Sarebbero venute le regie costosissime, la direzione anche del Napoli Teatro Festival Italia, le polemiche legate al concorso per l’assunzione e la contrattualizzazione a tempo indeterminato di lavoratori e lavoratrici allo Stabile, i sigilli posti al Mercadante per l’inadeguatezza del sistema anti-incendio nel 2017, la compagnia de La grande magia che nel 2019 all’Argentina di Roma legge un comunicato con cui denuncia l’insolvenza dello Stabile: «Non siamo giullari, ci fermiamo qui». Ogni volta un fuoco, un dibattito, poi il silenzio, la cenere. È rimasta, come ti ho detto indicando alcuni nomi, una resistenza individuale più che collettiva. E d’altro canto: non so quanto sia giusto che ad opporsi siano gli artisti. Soltanto loro o soprattutto loro. Toccherebbe vigilare innanzitutto ai rappresentanti delle istituzioni (sindaco, presidente di Regione e assessori competenti), toccherebbe a noi giornalisti essere feroci nell’analisi, sempre, e forse toccherebbe alla collettività interrogarsi su quel che accade in un teatro pubblico giacché è sostenuto col nostro denaro: sono soldi che investiamo perché ci vengano restituiti in termini di slancio creativo e ambizione alla bellezza. Ma qui in Campania non c’è un assessore alla Cultura in Regione e al Comune, né esiste un Osservatorio: chi monitora, analizza a approfondisce dunque quel che accade? O, se vuoi: chi dirige un teatro pubblico – che si chiami De Fusco o in un altro modo – a chi risponde del proprio operato veramente? Al pubblico? Ai soci del teatro? All’opinione pubblica? Alla critica? Al Ministero? O soltanto a chi lo ha nominato?

Dicevi poco fa che la valutazione di una direzione non può esaurirsi solo sui dati di bilancio e sui numeri. Tuttavia sono un elemento. Perciò guardando ai numeri della direzione De Fusco a Napoli che cosa viene fuori?

Ti faccio un esempio. Nell’intervista rilasciata alle pagine romane de la Repubblica De Fusco sottolinea l’aumento di abbonamenti, passati da 2300 a 7000: più 204% dunque. Non posso verificare oggettivamente il dato poiché il bilancio non riporta il numero di tessere sottoscritte. C’è però la voce che riguarda i ricavi derivati dal botteghino. Ebbene, confrontando il bilancio d’esercizio dell’anno in cui avviene il passaggio da De Rosa a De Fusco, il 2011, con quello del 2019, quando De Fusco viene sostituito da Andò, passiamo da 596.290 euro a 841.607 euro (più 255.317 euro; l’aumento è del 43%). Inoltre, i ricavi derivanti da produzioni e coproduzioni: 1.414.291 euro nel 2011, 1.347.771 euro nel 2019. A fronte di un ampliamento delle attività e delle teniture in sede, dovuto al Decreto Ministeriale del 2014. Questo per ribadire che i numeri non basta dichiararli («ho preso lo Stabile di Napoli che aveva 2.300 abbonati, l’ho lasciato che ne aveva 7.000») ma vanno interpretati. In quei 7.000 suppongo ci siano biglietti singoli trasformati negli anni in pacchetti-convenienza, offerte natalizie e pasquali, promozioni sotto-costo. È capitato a Napoli tanto quanto è capitato altrove. Questo suggerisce altro: il modo in cui cerchi di riempire una sala, che tipo di relazione stabilisci col pubblico (potenziale ed effettivo), che valore dai alla proposta, non solo in termini economici. La formula, dal secondo dopoguerra, è sempre la stessa: un teatro popolare d’arte. È il compito di uno Stabile, per dirlo in una frase. È bene che la platea sia piena, ma a quella platea piena va dato un alto tentativo d’arte, un azzardo, l’opportunità del confronto con l’inedito: che può avvenire attraverso Shakespeare tanto quanto con la compagnia o la regista sconosciuta.

Scivoloso insomma ragionare in termini di classifiche…

A De Fusco piace fare classifiche («era al 16esimo posto su 17 nella classifica ministeriale degli Stabili e l’ho lasciato tra i primi sei» dichiara ancora in riferimento a Napoli) ma si tratta di una frase che non ha senso perché dal 2014 c’è un altro assetto teatrale in Italia, mutano i criteri di utilizzo e distribuzione del FUS, vengono modificati i volumi di attività che si richiedono agli Stabili, nascono i Nazionali, i TRIC, i Centri di Produzione. Come si fa a comparare il 2011 col 2019 in maniera tanto superficiale? E tuttavia, se proprio volesse ragionare per posizioni raggiunte in classifica, gli chiederei della Qualità della Proposta Artistica. Su questo dovrebbe rispondere giacché ha a che fare con il valore riconosciuto negli anni dalle Commissioni Prosa alla sua direzione, al personale scritturato e al progetto; ha a che fare con la capacità di assunzione di rischio culturale e – cito dalle schede di valutazione ministeriale – con la «riconoscibilità, coerenza, continuità e autorevolezza nel proporre e valorizzare il repertorio, la drammaturgia contemporanea, i nuovi talenti della scena», con la «capacità di assicurare una proposta di alto livello, differenziata, plurale e innovativa, anche a carattere multidisciplinare e internazionale», con gli «interventi di educazione e promozione presso il pubblico a carattere continuativo realizzati anche attraverso rapporti con università e scuole per l’avvicinamento dei giovani». Ebbene, lo Stabile di Napoli sotto la sua direzione risultava penultimo o ultimo, da solo o in compagnia, tra i Nazionali. Tant’è, mi verrebbe da domandare ai membri del CdA che lo hanno appena eletto: siete proprio sicuri di aver fatto la scelta giusta?

Il direttore che hai avuto modo di conoscere e osservare a Napoli sarebbe, secondo te, in grado di corrispondere alle attuali istanze e linguaggi della scena?

Sappiamo entrambi che a Napoli non è successo. Ma questo è il passato, non conta più. E invece mi viene da chiedere: quando davvero il neo-direttore conosce la città in cui abita? In quali quartieri si muove, che pezzi di territorio attraversa abitualmente? E quali sale teatrali frequenta, chi va a vedere, che nuove drammaturgie legge, in quali gruppi (romani e non) si è imbattuto di recente? Conosce gli spazi di periferia? Si è seduto, in questi anni, sugli scaloni di quello che ancora chiamiamo “off”? Ha spiato con curiosità ciò che sta nascendo adesso? Si è messo in ascolto delle reti, formali ed informali, che animano la capitale? E ancora: che sa del panorama creativo complessivo di Roma (cinema, musica, fotografia, arti visive, letteratura)? Che sensibilità ha per i temi e le urgenze dei più giovani? È in grado di svolgere quel doveroso lavoro di comprensione del presente che ci si attende da chi dirige un teatro Stabile? Sono solo alcune delle domande che mi pongo, disordinatamente, mentre parliamo. Poi in aggiunta ti confesso: tremo al pensiero che tra dieci anni a dirigere i Nazionali ci siano gli stessi che li dirigono oggi o che oggi hanno già ruoli di potere. La rendita di un privilegio, l’autoconservazione perenne di una élite. Per cui gli ultimi interrogativi che mi vengono, non per De Fusco ma in generale, sono: possibile che in Italia il ricambio dei ruoli apicali sia ridotto a un nugolo di nomi che migra di poltrona in poltrona? Che la direzione degli Stabili avanzi soprattutto per conservazione, spostamento e conferma più che per innovazione? Che la leadership nel settore teatrale pubblico debba essere tanto più anziana rispetto all’età media del paese? Che non ci sia nessun altro o nessun’altra, nel settore, in grado di fare meglio, con più energia e più futuro nel corpo e nelle idee? Possibile che il nuovo direttore del Nazionale di Roma, ad esempio, sia stato già direttore dello Stabile del Veneto, di Napoli e Catania? E quando termina questo suo passare – a spese nostre –  di carica in carica, di impiego in impiego?  Per quanto ancora ci tocca? Già, per quanto?

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

1 COMMENT

  1. Giusto. Pur tuttavia, non si può evitare di sottolineare che: A) l’antagonista – chiamarlo così è triste ma lo è nei fatti – è Cutaia e non mi sembra poi diverso da De Fusco. B) Il confronto andrebbe fatto (anche se appare prematuro ma non è così) pure sul dopo De Fusco allo Stabile partenopeo, perché Andò non si sta rivelando migliore. C) Siamo poi sicuri che la 40na di candidature sia così differente dal nominato? L’articolo intervista un “conoscitore” del teatro partenopeo e non solo: gli va dato atto di aver sottolineato che il Campania Festival sta messo persino peggio ma ciò non aiuta il futuro: in pratica, si chiede molto ad under 40 – che invece non sono pronti – e non si chiarisce chi potrebbe dirigere un teatro. Manager e direttore artistico dovrebbero essere due ruoli completamente differenti. Ma il primo dovrebbe almeno conoscere un po’ la scena nazionale…

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