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Elizabeth I. Sotto il vestito, tutto.

In prima nazionale al Teatro Elfo Puccini il testo di Ella Hickson, diretto da Cristina Crippa ed Elio De Capitani, che indaga quella sottile linea di confine tra il corpo pubblico e il corpo privato, nella vicenda della più esemplare delle regnanti europee: Elisabetta I Tudor regina d’Inghilterra.

Foto Laila Pozzo

Raro è che un preciso paese in una determinata epoca sia così profondamente esemplare per le epoche successive quanto l’Inghilterra del XVI secolo, o meglio lo sono i tumulti della casa regnante vissuti negli anni in cui al trono salì, non senza molte peripezie, Elisabetta I Tudor, figlia di Enrico VIII, il sovrano che fu responsabile di quello scisma senza precedenti, non dogmatico ma piuttosto “personale”, che portò alla costituzione della Chiesa Anglicana, nei decenni che seguirono al vento protestante dei luterani e dei calvinisti. Precisato il quadro storico, quel che maggiormente emerge dalla figura della regina è una fama capace di superare la propria epoca, segnando uno spartiacque definitivo per la successione reale e allo stesso tempo fissando un modello di potere che mai avrà eguali. Ma, più che evidenziare i lineamenti del personaggio storico, quel che sembra di maggiore interesse è comprendere gli effetti che quel modello profonde oggi sulla nostra epoca; tale è dunque l’intenzione di Ella Hickson, autrice britannica di Swiwe [Elizabeth] che ha debuttato nel 2019 e che arriva ora in prima assoluta nella versione italiana firmata dalla pulsante traduzione di Monica Capuani, I corpi di Elizabeth, sul palco del Teatro Elfo Puccini di Milano per la regia di Cristina Crippa e Elio De Capitani.

Foto Laila Pozzo

I corpi. Non “il corpo”. Già questo elemento esplicita fin dal testo una precisa domanda: esiste una linea capace di definire il confine tra corpo politico, pubblico e corpo privato? O piuttosto non è il caso di parlare, anche se attraverso una forzatura, di più corpi in luogo di un corpo soltanto? L’accesso al trono ha rappresentato per Elizabeth l’acquisizione di un potere maschile che mai – o non in questi termini così esclusivi – era stato interpretato, per così dire, da una donna; tale assoluto prese allora i caratteri di una rivoluzione mal digerita dalla classe nobiliare inglese, pur tuttavia piegata dal rispetto che si deve a una regnante, ma via via nel tempo la caratura del suo ruolo si è vorticosamente trasformata, permeando la società di una sfumatura fino ad allora sconosciuta. Ma, ancora una domanda a completare il ragionamento: quali rinunce soggiacciono alla scelta di diventare regina? O meglio: cosa resta del corpo di donna quando è il corpo di una regina a sedere sul trono?

Il dialogo tra gli splendidi abiti realizzati da Ferdinando Bruni e la scena sontuosa di Carlo Sala, che muove orizzontalmente nella penombra velature ricamate di foglie e d’oro in cui ricorrono i motivi cari alla casata Tudor, rende esplicita una scelta di raffinata eleganza che lascerebbe pensare a uno spettacolo di ambientazione storica, ma che presto rivela, in contrario, l’intenzione di utilizzare il riferimento epocale come esclusivo sfondo di una storia drammaticamente e fieramente contemporanea. Anche nella vicenda Elizabeth vivrà uno sdoppiamento corporeo: la colta fanciulla adolescente (fluttuante tra l’ingenuità e la malizia Maria Caggianelli Villani, anche brillante caratterista in altri personaggi), pura e all’oscuro degli intrighi ma allo stesso tempo attratta da tutto ciò che rende conturbante l’ambiente in cui vive, lascia il passo alla regina (Elena Russo Arman, perfettamente centrata in un ruolo complesso che interpreta con solidità) che raccoglie su di sé ogni sacrificio compiuto, ogni atto di resistenza, ogni rinuncia per un fine più alto e che segni dunque una discontinuità estrema, decisiva, nella storia futura; la ragazza Elizabeth, cresciuta dalla tutrice Catherine (ancora Arman) e dall’astuto Cecil (avvolto in una doppia responsabilità, verso la ragazza e verso il regno, Cristian Giammarini), vive lo stesso dissidio della donna di potere, ma se nella fase giovanile errare poteva manifestarsi come esercizio, pur tragico, di vita adulta, l’errore sarebbe stato inammissibile quando ormai la scelta era stata compiuta: non più Elizabeth che si turbava del corpo virile di Thomas Seymour (interprete di rara potenza, ad un tempo capace di ambiguità e dote morale Enzo Curcurù) ma Elizabeth che domina dall’alto Cecil e l’intera nobiltà e che tuttavia per farlo si costringe in un corpetto troppo stretto, di cui si lamenta solo in presenza del proprio amante Dudley (ancora Curcurù) al quale comunque dovrà rinunciare.

Foto Laila Pozzo

La regia di Crippa/De Capitani, cui si deve una cura dettagliata degli snodi tra le scene divise in quadri, si inserisce tra le maglie di un testo molto deciso, spingendo la recitazione verso l’esterno perché, nell’uso della voce come strumento di espressione corporea, sia più efficiente il riverbero contemporaneo che rivede la storia nella cronaca e viceversa; la vicenda di Elizabeth, infatti, avrebbe poco fascino come semplice rievocazione, ma ne acquista molto se condensata nell’oggi, in cui l’esercizio del potere sta modificando nel profondo le dimensioni di genere: quella stessa Elizabeth che si spoglia di tutti gli abiti che la fanno regina e cerca infine di recuperare il proprio corpo di donna, sarebbe oggi a capo del governo di uno Stato o di un’istituzione internazionale ma vivrebbe, forse in modo ancor più austero, lo stesso rischio di interpretazione del ruolo; quella privazione del femminile, una sorta di mutilazione della più intima essenza, per esempio ricorre nella scelta di Giorgia Meloni che, una volta eletta a capo del governo, ha scelto di firmare con il titolo “IL presidente” del Consiglio, ma per converso invece ha innescato riflessioni di tutt’altra natura nell’ex premier finlandese Sanna Marin a proposito della libertà e dell’emancipazione nell’esercizio del potere, così come ha colpito tutti la vigorosa immagine della ex premier neozelandese Jacinda Ardern con il neonato al collo durante un’assemblea ONU. È però proprio su questo punto che la luminosa drammaturgia lascia l’unico dubbio, perché dalla fase giovanile a quella adulta si perde un po’ l’equilibrio tra le parti e l’autrice non osa del tutto nel portare fino in fondo non tanto il corpo politico, quanto quello privato; nella nostra era in cui è pubblico anche il corpo che non esiste – l’avatar – sembra che la compromissione dell’esteriorità abbia permeato ogni strato più profondo, come se la statua eretta perché accumuli il consenso dell’opinione pubblica abbia assorbito in sé ormai la carne del corpo che ne fu modello.

Simone Nebbia

Al Teatro Elfo Puccini di Milano – Fino all’11 febbraio 2024

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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