| Cordelia | gennaio 2024
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di gennaio 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#PALERMO
IPERDARK (di Dario Muratore)
Un vociare indistinto e concitato, nel buio, si riversa su un corpo tagliato in silhouette dalla luce retrostante, come un grumo di ombra. «Prova? Prova? Provo a ricordare»: è l'avvio del racconto, ma anche un mantra che il protagonista si trascina fin dentro il mondo di scatole che riempiono, come gusci vuoti, lo scantinato in cui, ancora ragazzino, si trova. Con Iperdark, di e con Dario Muratore, aiutoregia di Gisella Vitrano, lo Spazio Franco di Palermo inaugura la nuova edizione della rassegna Scena Nostra, dal significativo titolo Se fosse l'ultimo? In un mondo al collasso questa domanda è certamente appropriata, così come inevitabile appare chiedersi cosa potrebbe accadere oltre la fine. Nel momento di transizione in atto, il dramma di Muratore affonda il coltello nel problematico atteggiamento di una generazione presa alla sprovvista, schiacciata dal cieco ottimismo di chi l'ha preceduta e dall'incertezza che le si offre in prospettiva. Tra la scatola del dondolo e l'ipermercato in cui il protagonista, Davide Geometra, si trova a consumare i suoi trentatré anni, si svolge un allucinato rito di passaggio. Luogo e tempo si spezzano, si incuneano l'uno nell'altro, restituiscono una visione onirica sostenuta dalla versatile capacità di caratterizzazione dell'interprete. Su di lui scorre di tutto: le labirintiche corsie del Gigante, i dialoghi dei familiari, le stanze in cui il ragazzo fluttua sospeso, dopo la morte del padre. Un genitore difficile a uccidersi, rispetto al quale non sembra possibile altra ribellione se non nell'assimilazione. L'atto di rivolta, ammesso che di questo si tratti, è il frutto di un lapsus accidentale, di un'inettitudine sfociante nell'Armageddon dove tutto il mondo brucia a prezzi stracciati. Il "labirinto liberale" è attraversato da Davide nell'accurata sospensione di comico e tragico, tra luci calde e fredde (eleganti ed essenziali, di Gabriele Gugliara), lungo un percorso che può, e deve, permettersi il ricorso alla crudeltà. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: di e con Dario Muratore, Suono Giovanni Magaglio, Disegno Luci Gabriele Gugliara, Allestimento e costumi Fulvia Bernacca, AiutoRegia Gisella Vitrano, Produzione FrazioniResidue, con Babel, In collaborazione con Spazio Franco e Piccolo Teatro Patafisico. Foto di Fulvia Bernacca
#NAPOLI
LE TROIANE (Regia Carlo Cerciello)
Si va all’Elicantropo perché si sceglie un discorso complesso di teatro; di un teatro che cerca tra le sue varie formulazioni per raccontare ciò che lo anima. Anche la terribilità del mondo. Lì vivono quelle vecchie storie che non smentiscono il presente. E i quattro meravigliosi volti di donne funestate nel loro femminile, di attrici solide e acute e brillanti nel restituire la dignità dei pianti, sono antichi e presenti, sono assoluti. Sedute abbandonate su una spiaggia, vestite di nero e simili a statue di sale, le troiane Ecuba (Imma Villa), Andromaca (Serena Mazzei), e Cassandra (Mariachiara Falcone) guardano il mare da cui arrivano gli ultimi echi del disastro che le ha fatte orfane e vedove, sole. Sempre dal mare, una voce metallica ribadisce il dominio feroce della Grecia, di quell’Europa barbara che non ha alcun riguardo delle esangui vittime. Poco distante da loro, esposta da sola e vestita di bianco, Elena (Cecilia Lupoli) sonnecchia sotto un ombrellone; accanto a lei c’è un vecchio cavallino a dondolo di legno. Elena, col suo insopportabile e vezzoso esprimersi, è l’egemonia europea e occidentale tutta, dominante persino negli interessi e nelle narrazioni dei conflitti. Eppure, non è di certo per la “puttana” spartana che la guerra ha avuto inizio, quantunque quel terribile pretesto serve a mascherare ragioni anche più terribili. Le ragioni si riversano nella follia distruttrice di Cassandra, galvanizzata dalla vendetta, nell’algido tormento di Andromaca, astiosa nei confronti della vecchia Ecuba che, da madre di Paride, ha in sé la colpa. Le ragioni sono anche nei lamenti di Elena, venduta dagli dei come schiava per gli appetiti di Paride e, per puro inganno, diventata la causa di tanti dolori. Euripide e Seneca, poi Sartre, nel maneggiare il mito per attribuirgli la profondità della Storia, hanno restituito le parole alle durezze del reale. Carlo Cerciello accoglie con sensibilità l’ispirazione. Oltre il mito, viene esibita con fraterna devozione la bandiera della Palestina.
Visto a Teatro Elicantropo; Crediti: Da Euripide, Sartre, Giraudoux, Seneca; Regia Carlo Cerciello; Con Ima Villa, Mariachiare Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei; Aiuto regia Aniello Mallardo.
#Roma
SUPER SANTOS (di Donato Paternoster)
Donato Paternoster ha voce precisa e calma, siamo una manciata di spettatori e spettatrici in questo freddo giovedì di gennaio. L’autore e interprete entra dal piccolo corridoio che divide in due la platea di Fortezza Est.Ha una tuta della nazionale e un borsone da calcio, in entrambi i casi i colori e i segni sono quelli degli anni Novanta, quelli delle Notti magiche di Nannini e Bennato. Paternoster lo ammette subito: ognuno ha il proprio credo, la propria fede, io ho il calcio. Di spettacoli, soprattutto nella forma monologante, sul mondo del calcio se ne sono visti. L'epica del pallone ha i propri miti che si sono fatti palcoscenico (basti pensare all’opera di Davide Enia). In questo caso Paternoster prende una storia apparentemente piccola, ma curiosa e in grado di farci entrare proprio nel mezzo della questione calcio e fede. Il protagonista è Graziano Lorusso, pugliese (come l’attore) che prima di prendere i voti e diventare frate francescano fu una promessa del calcio; da qui il titolo del monologo: Super Santos (uno che ce l’ha fatto). Da Gravina di Puglia Graziano si sposta a Bologna. Ha 12 anni e viene selezionato dai Rossoblu. Il ragazzo arriva fino a vestire la maglia della nazionale under 17, in squadra con Del Piero, per dirne uno. Poi la discesa improvvisa e amara, la retrocessione del Bologna in C e il prestito a squadre sempre più piccole. A 22 anni Graziano torna in Puglia per trovare la fede religiosa e la via di San Francesco. Racconta con garbo Paternoster, con una prima persona quasi invisibile, dimostrando la naturalezza degli interpreti esperti, è la prima volta che mi capita di vederlo da solo in scena, senza quel formidabile clan guidato da Michele Sinisi nelle produzione Elsinor. Lentamente lo spettacolo lascia i tranquilli binari della narrazione, i segni si mescolano, il palco accoglie un mash-up di narrazioni, riflessioni e folgorazioni; la tuta lascia il posto alla camicia del parroco. Sulla stola bianca appare “cosa vi siete persi”. Non manca un passaggio sulla storica semifinale a Napoli, quell'Italia Argentina in cui proprio Maradona doveva scegliere tra fede e amore.
Visto al Fortezza Est. Crediti: Di e con Donato Paternoster Dramaturg Simone Faloppa Assistente Barbara Scarciolla Consulenza scenica Federico Biancalani Disegno Luci Martin Emanuel Palma Una produzione Pagina40 e IAC Centro Arti Integrate Con il sostegno di Fortezza Est Partner Cortile Teatro Festival, Festival Castel dei Mondi, Matera Sport Film Festival
VOLANO ALBERI SPOGLI COME RADICI (di Beatrice Mitruccio)
Su femminicidioitalia.info è possibile avere il conteggio delle donne uccise, di giorno in giorno, nel 2023 sono state 43, nel 2024 siamo già a 5. Cosa ancora più importante, in quell’elenco oltre ai numeri ci sono i nomi. Morte per femminicidio. Di fronte a noi abbiamo una giovane donna, che è stata vittima di una relazione abusante, e che forse - è lei stessa ad ammetterlo - in quella lista avrebbe potuto finirci. Beatrice Mitruccio però è una forza della natura, artistica; e come artista è in grado di tenerci con lei per un’ora, nell’accogliente spazio di Fortezza Est, mentre con i mezzi del teatro fa rivivere fantasmi e dolori. In primis ci sono il corpo, la voce e un microfono, come fossimo a una serata di stand-up: la scrittura, efficace, nella forma e nella trama, comincia con leggerezza, si parla dei paradossi creati dalla storia patriarcale, fin dalla Bibbia, passando poi per l’orgasmo femminile e l’invidia del pene. Scaldato il pubblico Mitruccio può affondare. È un viaggio a ritroso che riparte anche in questo caso da un sentimento di gioia: Beatrice arriva a Roma e qui, con parole chiarissime, spiega di aver trovato la libertà di crearsi il proprio mondo, di scegliersi amicizie e frequentazioni. La relazione abusante con un uomo violento non viene percepita immediatamente come una negazione di quella libertà, ci vorrà un tempo lunghissimo, le violenze psicologiche, quelle fisiche e poi un risveglio improvviso. Arriverà anche la paura, la famiglia a fare da scudo e fortunatamente la vita che prosegue. Mitruccio spezza la narrazione, di cui cura anche la regia, con poesie al microfono, video proiezioni e canzoni. Sono momenti estetizzanti, aggiungono pathos a un racconto che non ne ha bisogno, di certo dimostrano i talenti di questa giovane autrice. Avrebbero forse bisogno di una semplificazione che possa avvicinarli alla temperatura scenica di questo racconto intimo in cui non c’è quarta parete e nel quale il teatro è il mezzo con cui urlare una verità personale che si fa collettiva.
Visto al Fortezza Est. Crediti: di e con Beatrice Mitruccio/Collettivo Est Aiuto regia Ludovico Cinalli e Paolo Perrone Voci Martina Tirone e Paolo Perrone Ambienti scenici Beatrice Mitruccio e Mila Damato Vocal coach Martina Bonati Tecnico Yonas Aregay Foto Luca Brunetti Produzione Collettivo Est Produzione esecutiva Progetto Goldstein
I TRENI DELLA FELICITÀ (di Laura Sicignano)
Ci sono storie che nella storia non ci finiscono, nascoste in un silenzio attraverso il tempo senza mai finire nei libri che la storia la raccontano, dimostrando quanto essa proprio di questi episodi – storie – sia composta. Perciò, quando partirono I treni della felicità, stracolmi di bambini e alimentati da una virtù solidale, fu un piccolo grande gesto di rivoluzione gentile che oggi, per mano e idee di Laura Sicignano, alla drammaturgia insieme a Alessandra Vannucci, raggiunge il palco del Teatro Basilica di Roma con Fiammetta Bellone, Federica Carrubba Toscano, Egle Doria. Siamo nel dopoguerra, tempo in cui la parola “treno” si associava alla morte, alla dispersione, all’esilio, mentre proprio attraverso i treni si affaccia alla cronaca una vicenda edificante che, in un’epoca di eserciti schierati e lotte di potere, è fatta invece dal popolo per il popolo. Sono le donne comuniste del Nord, precisamente dalla Lombardia e dall’Emilia, a immaginare un viaggio che trasportasse bambini di zone rese inospitali dalla guerra, costrette alla fame e in lotta per la sopravvivenza, in luoghi e famiglie in grado di accoglierli, anche solo per un tempo di riassestamento, quando a guerra finita sarebbero tornati nella loro famiglia d’origine. Lo spettacolo, che si avvale delle vibranti musiche in scena di Edmondo Romano, nasce da un’intenzione civile, quella di dar voce a una vicenda rimossa, quasi dimenticata, ma allo stesso tempo ha l’obiettivo di esprimere il carattere esemplare che queste donne hanno impresso all’Italia postbellica, veicolando il loro messaggio attraverso non solo l’interpretazione delle attrici ma per la loro propria esistenza umana. La nobile causa, insieme di coraggio e vergogna, di miseria e dignità, resa efficiente da interpretazioni solide, solo in parte raggiunge l’obiettivo, reso fosco da scelte di regia a tratti didascaliche e non in perfetto equilibrio tra il fatto storico e certe ricorrenze che paiono occasionali, tra la condizione femminile dell’epoca e il più recente e profondo dibattito sulla maternità. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica: Drammaturgia Laura Sicignano e Alessandra Vannucci; con Fiammetta Bellone, Federica Carrubba Toscano, Egle Doria; musiche di scena eseguite dal vivo Edmondo Romano; scena Francesca Marsella; costumi Daniela De Blasio; luci, video e foto Luca Serra; tecnica Francesca Mazzarello
#Venezia
LES SAISONS (coreografie di Thierry Malandain)
Due ore scarse di danza per cinque repliche (a teatro sempre pieno): è tutto quanto previsto dall’intera stagione «di Lirica e Balletto» (sic!) del Teatro La Fenice di Venezia. È troppo poco. In attesa di tempi con più doveri, ho quindi visto Malandain Ballet Biarritz con Les Saisons. Una intera serata del coreografo Thierry Malandain, ma a doppio titolo: Nocturnes (del 2014), su musica di Frédéric Chopin e Les saisons (nuova produzione del 2023), sulle quattro stagioni di Vivaldi integrate da quelle meno note del coevo Giovan Antonio Guido. I brani di Chopin sono restituiti (live da Thomas Valverde) secondo una prassi esecutiva molto lirica e aproblematica. I 20 interpreti agiscono e scorrono tutto il tempo in linea, appena dietro il proscenio ma davanti al pianoforte sul palco, secondo un incedere quasi sempre uguale, da destra a sinistra, in una vera apoteosi del tempo cronologico. Vi è un intenso duo maschile e un bellissimo assolo femminile ma la linea di movimento orizzontale non si interrompe mai, anche in momenti più accesi, o con gestualità più trattenute. Il movimento, nelle intenzioni del coreografo, ha un effetto d’altorilievo vagamente medioevaleggiante. Tutto è molto terreno, e la virtù sembra essere qui la costanza. Questa apoteosi della continuità, dell’irreversibile, della impossibilità del ritorno fa un po’ effetto catena di montaggio: non ci sono idee sceniche (né scenotecniche), solo abbracci sporadici ed esibiti come suggerire a sottotesto i conflitti del cuore. E vi è un sentore di malinconia, però compiaciuta e in fondo inefficace: in termini coreografici tutto è coerente e riuscito nelle intenzioni, che sono anche pochissime. Les Saisons purtroppo ha risentito della serata infelicissima (quella del 12 gennaio) del violinista e direttore d’orchestra, Stefan Plewniak, da dimenticare. In scena, la scansione stagionale alterna differenti stati d’animo, e i gruppi sono davvero molto ben disegnati. Dall’esile drammaturgia soprattutto emerge, potente, Hugo Layer: sempre nel posto giusto, nel momento giusto, a fare la cosa più giusta. Insieme a Claire Lonchampt, étonnante. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro La Fenice di Venezia; Crediti Malandain Ballet Biarritz, Nocturnes e Les saisons, coreografie di Thierry Malandain, Orchestra del Teatro La Fenice, pianoforte Thomas Valverde, direttore e violino Stefan Plewniak.
#Torino
WONDER WOMAN (di Antonio Latella e Federico Bellini)
Se un utile compendio è l’ intervista rilasciata qui, è difficile ricondurre Wonder Woman di Antonio Latella ad altri modelli del nostro teatro. Si respira sì un’aria non italiana, ma la vis post-drammatica di questo esperimento è quasi totalmente dedicata alla produzione del dato, più che del segno; proposta al pubblico è un’organizzazione semantica, mentre la sintassi resta nuda e graffiante.
Il palco scarnificato accoglie, condotte da una marcia che solca la platea illuminata a giorno, Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti, quattro giovani attrici che, programmaticamente, non portano (ancora) un nome di richiamo. In nero, con scarpe col tacco rosse, in una schiera rotta soltanto da sintetici movimenti espressivi e reciproco scambio di sguardi e assensi, il gruppo scandisce, in un rigoroso coro dall’alto volume e dal ritmo incalzante, la sentenza delle giudici che hanno assolto il branco di strupratori ai danni di “Nina”, ritenuta “troppo mascolina” per subire violenza sessuale. Si passa poi al kafkiano interrogatorio della giovane peruviana, per tornare sulla replica delle giudici alle proteste seguite. Nel quadro finale la tensione è montata da una svolta performativa, tra simulazioni di sfilate in simbolici costumi tradizionali e una danza tribale che sfocia negli slogan delle manifestazioni femministe, in cui si punta il dito contro la responsabilità dello script sociale, che è di tutte e tutti noi.
Fatto di Eumenidi che diventano Erinni, il nòmos distorto di questa polis contemporanea, che ha ormai stuprato il concetto di giustizia, genera una nuova Wonder Woman, amazzone che è tutte le amazzoni, supereroina il cui lazo della verità strangola un’umanità che continua a mentire a se stessa. Nel testo lirico di Federico Bellini, sciolto in agili versi che sono insieme rap e sputi, non c’è grottesco, ché «non è più tempo di andare per il sottile». E nella prova di quattro infaticabili testimoni, per il potere della sineddoche, ci raggiunge un urlo, un insulto, una fiera bestemmia. Non è uno spettacolo, è la sineddoche di un’infuriata manifestazione di preghiera umanitaria. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Astra Crediti: Crediti di Antonio Latella e Federico Bellini regia Antonio Latella con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti costumi Simona D’Amico musiche e suono Franco Visioli movimenti Francesco Manetti, Isacco Venturini produzione TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Stabilemobile
#Roma
IO & TU (regia di Gianluca Merolli)
Crediamo nella poesia perché attraverso di essa riusciamo ad andare oltre il reale, oltre la materialità dei corpi e la loro precaria esistenza, fatta di fragilità e accidenti; la poesia ci connette ad altre dimensioni del tempo e dello spazio, possiede una tensione virtuale, ci spinge fuori dalle nostre immanenti convinzioni e pregiudizi. Quella di Walt Whitman, il poeta del barbarico e ribelle «yawp!», del mistero dell’io e del tu, dell’io e me stesso, un noi che ci comprende, è la poesia riascoltata l’altra sera, allo Spazio Diamante, per merito di Io&Tu diretto da Gianluca Merolli nell’adattamento del testo originale di Lauren Gounderson (I and You). Quei versi, nel gioco interpretativo di Aurora Spreafico (Caroline) e Derli Do Rosario Soares (Anthony) si rinnovano brillanti e ammantati di luce ma senza sacralità, possiedono invece un’aura “teen”, romantica, nella cameretta di Caroline tra glitter, Pringles e tartarughe luminose. La raccolta di Whitman, Foglie d’erba, è presa in mano, stropicciata, piegata, sfogliata per declamare i versi preferiti scoperti tra una risata, l’imbarazzo, le prime adolescenziali scoperte. La poesia è il linguaggio che mette in contatto Anthony, appassionato anche di basket, con Caroline, sua compagna di classe costretta a casa da sempre per una patologia genetica. La regia è sensibile a insistere, senza imbrigliare, sulle sfumature dei caratteri, a spingerli verso la spontaneità dell’essere più che del dire, il quale anche se sporcato da qualche increspatura convince per estroversione e genuinità. Le scene semplici e essenziali sono per questo agili nel restituire l’idea di una scatola scenica che si apre verso mondi sconosciuti. Quel luogo dell’attesa, in cui andare quando non ci si trova, in cui avere fiducia, è la metafora di questo incontro poetico, e salvifico, tra i due adolescenti, vite predestinate: finisce il tempo di vita terreno per uno e inizia quello dell’altra. (Lucia Medri)
Visto a Spazio Diamante: regia di Gianluca Merolli, con Aurora Spreafico e Derli Do Rosario Soares, con la voce di Paola Sambo, traduzione Andrea Paolotti e Chiara Loria, scene Paola Castrignanò, costumi Domitilla Giuliano, musiche Luca Longobardi, luci Pietro Sperduti, assistente alla regia Iulia Bonagura, foto Pino Le Pera, grafica Fabio Rea, produzione Viola Produzioni - Centro di Produzione Teatrale
IL LATTE DELL’UMANA TENEREZZA (di Umberto Marino)
Il titolo, ahinoi, tratto dalla battuta della prima entrata in scena di Lady Macbeth non rende giustizia al presente della commedia in due atti scritta e diretta da Umberto Marino. Un titolo che colloca lo spettacolo in un tempo lontano, diciamolo, vetusto. La pièce, nonostante rispetti una convenzionalità nella forma, nella direzione degli attori e dell’attrice, nella suddivisione in atti, è però agitata da una scrittura attualissima e sferzante. Tra un cambio di scena e l’altro, al buio, si passa da Coez, Gazzelle a Mina e Antonella Ruggiero, canzoni d’amore, complicato, irraggiungibile, passionale. Come quello di Massimo (Alessandro Fontana) per la sua storica fiamma, e per quella presente, Daniele (Guglielmo Poggi). Massimo, omosessuale e noto avvocato di destra, è costretto da una grave forma di meningite a dipendere dalle cure di Simona (Cristina Chinaglia) collega consacrata alla sua amicizia quasi fosse un palliativo per un amore impossibile, e da quelle del badante giovane attivista di Ultima Generazione, Daniele. La storia del personaggio Massimo coincide con quella di Alessandro, la persona la cui vita cambia nel 1999 a causa di una meningite che ha leso la vista e compromesso parzialmente la deambulazione. L’accidente determina l’accettazione di una quotidianità bisognosa dell’aiuto altrui, resa da una drammaturgia corposa di sfumature, di tempo e di umanità che spiega senza morbosità come ci si sente quando l’unica opportunità sembra quella di suicidarsi e lasciarsi andare. E invece no. Questa svolta è resa scenicamente da un ensemble unito tanto nella rappresentazione del dolore, dell’incomprensione, della differenza generazionale quanto nella possibilità di un’alternativa, dell’ascolto premuroso e infaticabile. La disabilità positiva non è allora un’etichetta al perbenismo delle definizioni edulcorate, è la reazione, verissima, di chi continua ad andare in tribunale, come Massimo, e a calcare la scena, come Alessandro, anche quando è possibile farlo aiutati dal deambulatore, insegnando che di quei passi un po' rallentati non si deve aver pudore perché in essi non vi è affatto sconfitta ma accettazione e riscatto. (Lucia Medri)
Visto al Cometa Off: Commedia in due atti scritta e diretta da Umberto Marino con Alessandro Fontana, Cristina Chinaglia, Guglielmo Poggi, Angelo Sorini e Romolo Passini, scenografia Enrico Serafini con il patrocinio di Rete Italiana Disabili e con il contributo di NUOVOIMAIE