Recensione. Trilogia della Città di K., prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, è un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander che affronta la più celebre opera di Ágota Kristóf in un lungo e angoscioso viaggio nella coscienza.
La Trilogia della Città di K. non è una trilogia; è un racconto unico ma fratturato e contuso da una grafia sofferta e maniacale. Tornando sullo stesso modello, per un’intera vita di scrittrice l’ungherese/svizzera Ágota Kristóf inseguirà sé stessa e i propri traumi (che poi sono quelli di tutta un’Europa) in un labirinto di rimandi, allusioni, nascondimenti e voragini. La Trilogia non è un’epopea, ma un’elegia, un incubo a occhi aperti in cui si affastellano i più profondi sensi di colpa dell’essere umano. La Trilogia è un irrisolvibile anagramma logico, una sciarada narrativa che non concede mai la speranza di assumere davvero un punto di vista altro che non sia quello dell’autrice, impegnata a sgattaiolare via attraverso insospettabili cunicoli scavati dentro a una struttura del discorso labirintica e, in definitiva, indecifrabile.
Se possiamo dire questo è perché abbiamo assistito all’omonimo progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander prodotto dal Piccolo Teatro di Milano. Si tratta di un’imponente operazione che, nelle mani di Chiara Lagani, non abita neppure più il reame dell’adattamento, ma espugna quello della possessione, del mesmerismo drammaturgico e della macabra creazione e uccisione di doppi. Quella dei gemelli Lucas e Klaus – separati dallo scoppio della guerra nel 1939 (forse flash della rivoluzione antisovietica ungherese vissuta dall’autrice nel 1956) e poi riuniti e sovrapposti in una sorta di altrove della memoria che si mescola al delirio onirico – è una vicenda che disegna un contorno alla violenza, alla guerra, alla brutalità dell’infanzia, alla lacerazione emotiva dell’età adulta.
Perfettamente adatta è la scelta dell’agorà scura del Teatro Studio Mariangela Melato, dove la regia di Luigi De Angelis (leggi anche l’intervista a cura di Simone Nebbia) può davvero radunare trent’anni di ricerca scenica di questo sorprendente duo e catturare il pubblico in un sortilegio collettivo cui è impossibile sottrarsi. In una profondità di palco oceanica, squarciata a metà da una sottile striscia di led luminosa, si accendono quadrati di luce sagomata che all’occorrenza mutano gradiente, agendo sulla temperatura della scena e della sala. Lo spazio è aperto e non tollera pareti, ospita pochi mobili strappati al proprio abituale fondale, abbandonati a fare da fredda sineddoche di piccole vite nelle scene d’interno, mentre dall’alto piove giù e monta una ventina di schermi, mostrando ora una scenografia virtuale, ora icone incorniciate in “stanze digitali”, segni di una storia che non può rispettare nessi cronologici. In questo ineffabile gioco di specchi sta il senso di una narrazione solo apparentemente frammentata, e che piuttosto tiene in equilibrio le diverse sfaccettature di un unico sguardo – disperato – sulla realtà, fatto di promesse non mantenute, tradimenti, abusi ingiustificabili, morti improvvise e improvvise resurrezioni di un personaggio dentro l’altro.
Il sound design di Mirto Baliani ed Emanuele Wiltsch Barberio è spazializzato a 360 gradi, diffonde ovunque la chirurgica eterodirezione – da tempo un’arte e una regola nelle mani di De Angelis e Lagani – che comanda un cast camaleontico (anche grazie ai costumi di Gianluca Sbicca) di cinque interpreti che danno vita a venticinque personaggi: severamente bonario è Andrea Argentieri, agile nel melò come nell’invettiva Consuelo Battiston, granitico e tagliente Lorenzo Gleijeses, tutti in perfetto asse ritmico e padroni dello spazio, mentre l’attore-autore Alessandro Berti viene finalmente liberato come interprete nella propria maestria di corpo, gesto e sfumature vocali. E poi Federica Fracassi, una sorta di spirito ancestrale irrefrenabile e cangiante che abita quasi tutte le dolenti figure materne convocate dall’autrice, oltre che l’autrice stessa, quest’ultima in un’evocazione quasi negromantica che cita il percorso dei ritratti mimetici già tratteggiato altrove da Fanny & Alexander.
Montata su un ascensore che lentissimamente sale da sotto a una botola è poi la scultura gigante di Mathias, il bambino-martire che funge, per la storia e così per la lettura del regista, come capro espiatorio di una vicenda che lascia tutti sconfitti. Con questo macrocefalo simulacro di quell’adolescenza divorata dalla guerra – che davvero racchiude il senso di Kristóf per l’innocenza – l’artista Nicola Fagnani reinterpreta un’opera iperrealista di Ron Mueck: prende vita in una gelida immobilità, spandendo nello spazio la voce infantile prestata dalla poetessa Chandra Livia Candiani. Il gusto per il macabro e per il posticcio, unito a un sottile lavoro sul doppio, ritorna poi nell’ultimo atto, quando i due gemelli si riuniscono in un inquietante doppelgänger, la cui potenza metafisica si traduce nella straniante vestizione di una maschera: i tratti somatici di Berti sono animati dal corpo e dal labiale di Gleijeses, la voce di Lucas/Klaus è ormai una traccia registrata di frequenze medie come quelle delle chiamate interurbane. Somiglia un po’ a quel pianoforte automatico relegato a fondo palco, sul quale qualche fantasma interviene a tratti a ticchettare.
Di là dai fasti di una sontuosa produzione che – e troppo spesso capita di rammaricarsene – difficilmente potrà attraversare il Paese, quel che sorprende di questa operazione è l’apparenza di un totale controllo della pur intricata trama, trattata come una crudele pagina di diario interiore che, non fosse accartocciata da una paradossale grafia, potrebbe portare la firma di chiunque di noi.
Se pur non risparmia ampi scivoli e spericolate sinusoidi nel ritmo scenico e nella durata, La Trilogia della Città di K. di Federica Fracassi e Fanny & Alexander lo fa in maniera calcolata e volutamente ruvida: non è un esercizio intellettuale, ma una sfida alle possibilità fisiche del teatro. Essa chiede molto all’occhio che guarda e all’orecchio che ascolta, risultando a volte irritante per la caparbietà con cui manipola il tentativo che tutte e tutti abbiamo ad assegnare significato univoco alle storie di vita. Il punto, forse, sta proprio qui: non importa quanto sgradevole possa risultare, il teatro può rendere spazio, corpo e durata un viaggio emotivo e insieme intimamente politico. E il senso di fastidio è lo stesso provato da Kristóf mentre, tessendo la trama di un simile ordito, si rendeva conto che un’identità univoca noi umani non siamo fatti per averla. Come in una lezione di responsabilità, quest’opera sembra dirci che sta a noi definire e comprendere la Storia, così esplosa in un palindromo di eventi dove, d’improvviso, il senso precipita e scompare.
Sergio Lo Gatto
Piccolo Teatro di Milano – Studio Melato – dicembre 2023
TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K.
un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander
tratto dal romanzo omonimo di Ágota Kristóf
adattamento e drammaturgia Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis
scene, luci, video Luigi De Angelis
costumi Gianluca Sbicca
musiche e sound design Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio
allestimento multimediale Michele Mescalchin
scultura di scena Nicola Fagnani
con Federica Fracassi Agota Kristof, Clara, Madre vecchia, Madre del sogno
e con (in ordine alfabetico)
Andrea Argentieri Sottoposto, Peter, Joseph l’ortolano, Vecchio curato, Uomo dell’ambasciata, Uomo del sogno, Medico, Disertore, Padre del sogno
Consuelo Battiston Yasmine, Sophie, Signorina dell’albergo, Infermiera, Antonia, Donna incinta
Alessandro Berti Lucas, Claus
Lorenzo Gleijeses Ufficiale, Victor, Michael l’insonne, Klaus
con la partecipazione in video di
gemelli bambini Leone Maria Baiocco
gemelli adolescenti Yari Montemagno
madre Marta Malvestiti
padre Fausto Cabra
nonna Anna Coppola
Libraio/calzolaio Giovanni Franzoni
Labbro Leporino Cloe Romano
Curato Renato Sarti
Ufficiale Mauro Milone
Attendente Alfonso De Vreese
Bambini Vittorio Consoli, Domenico Iodice, Nicolò Latte Bovio
Ragazzi Andrea Bezziccheri, Ion Donà, Edoardo Sabato*
Soldato Lorenzo Vio*
Cugina, infermiera Giada Ciabini*
Madre internata Federica Fracassi
Sarah Nina Romano
Suora Chiara Lagani
e le voci di
gemelli bambini Vittorio Consoli
Labbro Leporino Virginia Consoli
Fantesca Chiara Lagani
Padre Jasmine Woody Neri
Klaus Renzo Martinelli
Si ringrazia Chandra Livia Candiani per aver prestato la sua voce per il personaggio di Mathias
*allievi del corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano
assistente alla regia Filippo Trevisan
assistente ai costumi Marta Solari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
sovratitoli a cura Prescott Studio
supporto multimediale sovratitoli Lyri