HomeArticoliReportage di fine anno. La danza al bivio. #1

Reportage di fine anno. La danza al bivio. #1

Un viaggio di fine anno per la penisola, isole comprese, inseguendo repliche mancate, imminenti debutti e nuovi progetti di danza. In questa prima parte, tanto MK ma non senza uno Schiaccianoci d’obbligo: raccontano una ricchezza della danza in Italia incredibilmente incapace di fare sistema, oltre l’ovvio e il faceto.

leggi il secondo dei due articoli

Sfera – Foto Claudia Pajewski

Giorni fa leggevo una recensione di danza scritta da un critico di teatro assai di lungo corso. Esaltava la comicità (per lui) finalmente riuscita, e l’intrattenimento che (per lui) ne conseguiva, di quella performance alla quale aveva giubilante assistito, senza però risparmiarsi una tirata contro le astrusità troppo spesso (a lui, così scriveva) inaccessibili, dunque rattristevoli, di tanta danza contemporanea.

Insomma: il critico teatrale in gita per terreni non suoi, esige intrattenimento e clarté. Se fuori sede, non vuole pensare. È una malinconica colonizzazione che richiederebbe più facili pensionamenti, non solo più agili aggiornamenti. Eppure, io son certo non si tratti di insipienza, ma solo di un pregiudizio di lunga durata: sulla danza ognuno può dire e scrivere quel che più gli va. E questi nostri tempi maldestri che rifuggono la complessità, tanto quanto i tempi lunghi dell’analisi e della riflessione, non aiutano di certo. Con buona pace di tante identità e comunità che del preteso inintellegibile contemporaneo, invece, si nutrono.

Dunque che fare? Mi son detto: bisognerà ripartire, riguardare tutto, rifare di nuovo tutti i ponti. Allora ho girato in lungo e in largo la penisola, isole comprese, per testimoniare questa (presunta) oscura vitalità che non riesce proprio (e incredibilmente) a fare sistema. Cosa emerge? Un largo patrimonio del vivente, sparpagliato anche fra inutili barriere, che non ha bisogno soltanto di spettatori sapienti (leggi preparati), ma capaci almeno di disubbidienza al consueto, al tutelato e al prevedibile (tanto caro agli incompetenti) che tutti sovrasta.

Maquam – Foto Andrea Macchia

In Triennale a Milano ho raggiunto, così, una replica di Sfera # uno stato eternamente nascente di Michele Di Stefano per la sua straordinaria compagnia mk. A parte le musiche modulari live di Biagio Caravano, non sempre utili, in scena Di Stefano azzarda modalità compositive mai provate prima. (Da registrare il recente felice debutto, su commissione per il Ballet de Lorraine, di Sierras. Danse atmosphériques, all’Opéra national de Lorraine di Nancy: e Scala?). Il dispositivo di Sfera, che allude al rito del Kecac della tradizione balinese, fa esplodere in scena un’alternanza di movimenti dinamici e sequenze ‘parlate’ sincronizzate (su un testo bellissimo del coreografo e di Massimo Conti) che genera una epifania allargata anche allo spazio della platea. Ogni rischio di esoterismo è qui scansato dal gioco scenico che continuamente anima l’idea di una trasversalità della comunità degli interpreti, perché si compone e scompone fra ritrovate intese e nuove consonanze, contro l’insensatezza e l’esteriorità del mondo. La sfera quindi è il processo, non la forma, che garantisce alla cultura del vivente di queste danze, anche in condizioni al limite del ‘turistico’, una loro continua rigenerazione. Al Teatro Rossini di Pesaro ho raggiunto poi (in giornata!) quel capolavoro che proprio è Maquam. Qui Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch insieme al canto (e tromba e santur) di Amir Eisaffar, dànno vita a un genere ibrido tra il concerto e la performance di danza, in un fluire rapsodico capace di generare continuamente movimento. La musica è spazializzata in sala in una quadrifonia sferica che avvolge la visione in un tripudio dell’ascolto, mentre il canto è davvero perfettamente sincronizzato con la musica elettronica, mai nelle forme dell’accompagnamento, sempre invece in quelle dell’incontro, dell’affiancamento. E così dopo lo scoppio mirabile di un ingresso di Francesca Ugolini, si vede uno strepitoso assolo maschile di Andrea Dionisi, in veloci tourning fuori asse, sempre oltre il limite, quasi preludio cercato di una caduta che non c’è mai: la danza sa resistere al precipitare delle simmetrie e degli equilibri, e tiene così insieme il mondo. Oppure come poi un duo strepitoso di Sebastiano Geronimo e Biagio Caravano, con energie e potenze (anche anagrafiche) molto diverse, eppure piene di delicatezza e di amicalità. Una tromba finale da brividi richiama subito un’atmosfera post-Blade Runner, e ci si chiede allora come mai questo lavoro non abbia vinto premi, non sia ancora stato riconosciuto come un punto fermo della creatività di questi anni.

foto di Andrea Macchia

Al Teatro Niccolò Piccinni di Bari, infine, ho rivisto un altro, meno recente ma altrettanto straordinario, lavoro di Di Stefano, Parete nord. In un gioco continuo di apertura e chiusura di fondali si sale per questa scalata difficilissima, tra ingressi e uscite orchestrate per sincroni improvvisi, tutto bianco e nero, secondo un alto grado di aleatorietà nella composizione, fatta soprattutto di qualità musicale e atmosferica. Alla intensa dinamicità della scena (è la rotazione e la spirale a generare il movimento) si contrappongono passaggi di elementi aerei, mentre i costumi smorzano la dimensione mimetica del contesto (la gonna tribale del bravissimo Francesco Saverio Cavaliere o il body a frange della magnetica Laura Scarpini). Un velato che scende a proscenio corrisponde a un cambio di atmosfera anche cinetica (vanno tutti in slow motion infatti), mentre dopo una lunga transizione il cambio di scena conduce alla vetta, al campo base nel picco di questa parete. E qui è solo lo spazio a muoversi, come un fantasma della materia, pura forma senza presenza. La pioggia di polvere a proscenio delimita un ultimo spazio della visione: un uomo sventola mesto la bandiera dell’arrivo.

E Schiaccianoci è stato. Per molti anni ho evitato accuratamente questo titolo d’area natalizia. Anche quando, come consulente della danza per un grande teatro ticinese, resistevo alle richieste della direzione di un titolo, in questo periodo dell’anno, capace di pienone. Penso che l’identità di una programmazione non si rinforza con le proposte più ovvie e attese, ma con un disegno curatoriale capace di azzardi e spinte in avanti. La declinazione gotica e dark promesse però dalla versione del Balletto del Sud di Fredy Franzutti, ossia di uno Schiaccianoci «ambientato nel meraviglioso mondo di Tim Burton», mi hanno invece acchiappato. Così l’ho visto al Teatro Zandonai di Rovereto, fra mille e lunghi, tutti giusti e molto convinti applausi. L’arrivo alla festa non è fra i più gioiosi, e uno stipite fa intravedere un albero tetro e divertente, addobbato di teschi e scheletri; in alto domina intanto una imponente libreria. Se Drosselmajer (Carlos Montalván) è il cappellaio matto, la fanciulla (Clara) è qui Mercoledì della famiglia Addams (Nuria Salado Fustè): dunque vietato sorridere. Solo il sonno che conduce al sogno (e al viaggio fantastico) fa spazio agli spettri che esigono vita. Franzutti lavora per prefigurazione (il vivente che si anticipa nell’oggetto) ma in termini coreografici è sobrio e scrupoloso, per niente superstizioso nei confronti di un linguaggio più moderno e attuale. La scena d’avvio della festa è una mestizia diffusa (perché forse non c’è niente da festeggiare); ma qui il carattere zombie e horror poteva essere più assunto e deciso, nel trucco come nel movimento, perché la festa più vera non è quella comandata, ma quando l’occasione si trasforma in un evento capace di trasfigurazione. Tutto però funziona molto bene, fra i mille cambi che esigono organizzazione, e personalmente nel folto corpo di ballo sono stato molto colpito dalla presenza e bravura di Alice Leoncini. In chiusura un aneddoto: un fondale che avrebbe dovuto fare da sfondo al passo a due dei protagonisti (finalmente sorridenti e riconciliati), non ha retto ed è sceso a terra: può succedere, ma da allora i cambi sono stati tutti a vista, e hanno funzionato pure di più. È la lezione di Tim Burton: gli ingranaggi, quando esibiti, sono la più vera poesia della scena.

Stefano Tomassini

… leggi il secondo dei due articoli

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

1 COMMENT

  1. Ho apprezzato molto lo Schiaccianoci di Franzutti. Alice Leoncini straordinaria nell’interpretazione della bambola e ancora di più in quella dell’ape.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Nell’architettura di vetro di Williams/Latella

Lo zoo di vetro di Tennessee Williams diretto da Antonio Latella per la produzione greca di di Technichoros e Teatro d’arte Technis. Visto al teatro...