Tipi umani seduti al chiuso è l’ultimo lavoro scritto e diretto da Lucia Calamaro visto al Teatro Goldoni di Venezia e domani in scena al Teatro Camploy di Verona. Recensione
Tipi umani seduti al chiuso – partitura sentimentale per biblioteche – scritto e diretto da Lucia Calamaro ha debuttato a inizio novembre al Teatro Verdi di Padova, lo abbiamo visto al Goldoni di Venezia, poi tre repliche a Bolzano, è passato a inizio mese al Gobetti di Torino e domani sarà a Verona per l’ultima data di quest’anno. Prodotto dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, ci auguriamo possa continuare la sua circuitazione anche nel 2024, sarebbe un peccato restasse confinato solo al pubblico del Nord, a maggior ragione se si tratta di uno spettacolo inserito nel progetto della Compagnia Giovani, «strumento essenziale per garantire l’effettiva ricaduta occupazionale degli allievi diplomati presso l’Accademia Teatrale Carlo Goldoni», parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione (DGR n. 1646 del 19 dicembre 2022). È infatti uno sforzo produttivo congiunto nato in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova – che ritroviamo più volte citata nel testo – e ideato nel 2022 per le celebrazioni degli ‘800 anni dell’Ateneo.
Questi tipi umani sono generati dalla storia odierna, probabilmente di quella degli ultimi cinque anni e faranno parte anche di quella futura. Sono tipi/topi da biblioteca che si infilano, nascondono, fanno capolino, corrono tra gli scaffali di un luogo il cui silenzio è stato rosicchiato e bucato per far entrare la parola, orale e attuale e far tacere, anzi far volare in aria o addirittura dare fuoco, la parola scritta e stampata del passato, dei grandi, di quegli eroi e eroine da nominare, o di quei maestri, afflitti, del lavoro culturale (come Luciano Bianciardi e la sua vita agra) a cui ci lega l’affetto, e pure il rispetto, ma con cui avere poco da dirsi, oggi. O forse ci siamo già detti tutto e, come il ritratto di Bauman, li incorniciamo e ce li teniamo sulla scrivania? Oggi, che i temi più assolutizzanti si polarizzano proprio tra la violenza della guerra d’egemonia – in tutte le sue forme, da quella che vede gli Stati Nazione contrapposti, a quella di genere dei corpi – e l’innovazione dell’intelligenza generativa, le sue possibilità e pericoli. E proprio tra questi due poli, «due luoghi particolarmente lontani, ma allo stesso tempo fondanti, dell’umano: l’intelligenza e l’animalità» che Calamaro fa muovere i suoi tipi. In una biblioteca, spazio consacrato all’intelligenza addomesticata al silenzio, alla contemplazione, immersi nella sapienza, precipitati nel sapere, tanto da finire con la faccia spiaccicata sulle pagine, stanno gli animali intelligenti: due donne, un’autrice e una bibliotecaria, quattro uomini, tre bibliotecari e un artista aspirante bibliotecario, e un ragazzo, poco più che adolescente.
Simona (Simona Senzacqua) è una scrittrice che non trova concentrazione alcuna se non in biblioteca, in questa precisamente, uno spazio raccolto, non troppo grande, in cui stare a contatto con degli sconosciuti senza che questi la disturbino: «per questo vengo in biblioteca, qui devo stare zitta, seduta e in silenzio». Qui, Simona ci dice che scriverà di tre bibliotecari, e così, pirandellianamente come tipi umani in cerca d’autore, entrano in scena Riccardo (Riccardo Goretti) Cristiano (Cristiamo Moioli) e Lorenzo (Lorenzo Maragoni); ma più che da un dramma dell’autore siciliano sembrano avere tutte le similitudini sconclusionate di un Wallace contemporaneo. Le scene (Alberto Nonnato), i costumi (Lauretta Salvagnin) e le luci (Nicolò Pozzerle) restituiscono sì la sala di una biblioteca, con tre scaffali sul fondale, tre tavoli separati il giusto per favorire il passaggio a formare tre file, un divano alla sinistra del pubblico, una pianola davanti il cartello “silenzio”; ma la calano anche in un’atmosfera azzurra dai colori pastello – riconoscibile cifra dei lavori di Calamaro. Colori la cui tenuità si contrappone all’aggressività latente che pervade gli animi dei protagonisti: un come se represso, quello che ha portato Riccardo a fare finta che la moglie lo amasse ancora prima di soffrirne l’abbandono, o Cristiano che vive come se fosse confinato in un eterno passato, i come se performativi del critico/attore/artista Filippo (Filippo Quezel), o di Lorenzo, come se i suoi sbotti verso gli altri lo aiutassero a reagire alla solitudine, al rifiuto della bibliotecaria Susanna (Susanna Re), la stessa che si impone come se potesse prendere posto in un luogo in cui alla direzione ci sono tre uomini: «e come se, se ti ci impegni, può durare decenni. Anche tutta la vita, tutto un come se».
E poi, davvero, il tipo più comune a tutte e tutti noi, perché “ombelicamente” legato al livore di questo tempo, è il figlio di Riccardo, Cristiano (Cristiano Parolin) che darà di matto, irrompendo in scena e buttando tutto all’aria, in un caos salvifico però, riattivatore di vita e di disapprovazione, intriso di paura, di rimanere anche lui, come il padre, soggiogato da quel come se inerziale, perché in Cristiano si rappresenta quell’Ultima Generazione consapevole che la «partita sta finendo», e come non possiamo empatizzare con questo sentimento di chi sa, perché lo sente e vive nella carne, della natura delle cose, «della rabbia che mi fanno le cose»? Ecco che in quei momenti di «irruzione» indicati nel copione, che «prevedono una sospensione dell’azione in corso», il ragionamento dei singoli tipi trova il suo contraltare nelle spiegazioni anatomiche, nelle digressioni storiche e letterarie, come se ci fosse, sempre, un appiglio filologico a spiegare tutte quelle che Riccardo indicherà come «meschine commozioni generiche».
Nelle note di regia dello spettacolo vengono prese in prestito le parole di Philip Roth in La lezione di Anatomia: «bisogna dargli un senso al dolore. Cosa vuol dire? Cosa nasconde? Impossibile soffrire solo di un dolore, bisogna pure soffrire del suo significato» e queste, come quelle crudelmente efficaci del monologo finale di Simona, sono parole che si aggrumano nelle nostre ferite, le ennesime, fatte di cruor, dirà Simona, di quel sangue che non scorre più. Come nel testo, l’ironia di un «Dibattito Inutile dal titolo La vita ci conviene? Eh?». Ancora una volta con spietata leggiadria, profonda curiosità e nobile amore per i tipi che siamo, Calamaro e i suoi attori e attrici ci ricordano l’inutile valore della poesia che non serve l’animalità del mondo ma che per fortuna continua ad esistere.
Lucia Medri
Visto al Teatro Carlo Goldoni di Venezia – novembre 2023
TIPI UMANI SEDUTI AL CHIUSO
partitura sentimentale per biblioteche
Testo e regia di Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Lorenzo Maragoni, Cristiano Moioli, Cristiano Parolin, Filippo Quezel, Susanna Re, Simona Senzacqua
aiuto regia Norman Quaglierini
assistente alla drammaturgia Sonia Soro
scene Alberto Nonnato
costumi Lauretta Salvagnin
luci Nicolò Pozzerle
musiche Susanna Re
direttore di scena Paolo Federico Rossi
fonico Giacomo Venturi
sarta Sara Gicoradi
amministratrice di compagnia Federica Furlanis
produzione TSV – Teatro Nazionale
in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova. Progetto ideato nel 2022 per le celebrazioni degli 800 anni dell’Ateneo. lo spettacolo si inserisce nel progetto della Compagnia Giovani, parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione (DGR n. 1646 del 19 dicembre 2022).