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«Ci vuole il corpo di Antigone, per creare società». Intervista a Gabriele Vacis

Alle Fonderie Limone di Moncalieri è in scena, in prima nazionale, la Trilogia della guerra (Prometeo, Sette a Tebe e Antigone e i suoi fratelli ), firmata da Gabriele Vacis, insieme alle attrici e agli attori di PEM. Abbiamo intervistato il regista.

Di Gabriele Vacis colpisce la calma, delicata e verticale, con cui la sua voce si concentra sulle questioni che, una dopo l’altra, gli pongo. Come se avesse tutto il tempo del mondo – che non ha, perché la nostra intervista telefonica si insinua nell’intervallo ristretto della sua pausa pranzo, durante le prove di Sette a Tebe. Si tratta del secondo episodio della Trilogia della guerra, che porta in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri insieme alle giovani attrici e ai giovani attori della compagnia PEM (Potenziali Evocati Multimediali), composta dalle e dai partecipanti di una classe della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, insieme a Vacis e a Roberto Tarasco. È una delle ultime repliche, che termineranno il 10 dicembre. Prima era venuto Prometeo (dal 30 novembre al 3 dicembre), dal 14 al 17 dicembre, invece, sarà la volta di Antigone e i suoi fratelli. Il trittico di tragedie, da Sofocle e da Eschilo, sembra disporsi attorno a un nucleo comune: la relazione tra la giovinezza contemporanea e la atemporalità dell’orrore bellico. La prima si muove in un habitat iperconnesso che moltiplica a dismisura e, al tempo stesso, smaterializza le relazioni. La seconda costituisce una realtà tangibilissima e dolorosamente carnale, ma sempre dislocata, sempre – almeno in apparenza – situata in un altrove fisico, eppure così radicata (in forma di pulsione) nel cuore umano da affondare la propria radice nell’arcaico, e nel mito.

La velocità della trasformazione tecnologica, che si impone come una vera e propria “mutazione di specie”, fa dunque i conti con un nòcciolo duro e oscuro di energia psichica e, al contempo, con il racconto della guerra (delle guerre), mediato proprio dai dispositivi elettronici che, mentre lo centuplicano, lo combinano tanto inestricabilmente ai contenuti di intrattenimento da atrofizzarlo. Il dolore dei giovani – al cospetto di una distorsione che, in termini generazionali, è loro “congenita” – si manifesta in forme faticose da interpretare per chi proviene da un passato in cui i computer erano oggetti ingombranti e rarissimi e nessuno accennava (per dirne una) alla sopravvivenza del pianeta come a un’emergenza.  Gabriele Vacis ha posto la propria esperienza pedagogica e la propria militanza nel teatro di narrazione al servizio di questo dolore “alieno”.

Foto Andrea Macchia

James Hillman in Figure del mito mostra «come l’antichità possa essere rilevante per la vita della psiche e come la vita psichica possa rivitalizzare l’antichità», sostenendo che la psicologia sia un «mito in veste moderna» e, viceversa, i miti siano una «psicologia in veste antica». Nel suo lavoro, e in particolare nella Trilogia della guerra, questo nesso tra mito e vita psichica mi pare molto attivo.

Il sottotitolo un po’ ideale di Sette a Tebe, in scena questi giorni, è «Un terribile amore per la guerra» e proviene proprio da Hillman. Nel lavoro con gli interpreti di PEM siamo spesso partiti dalle pagine dedicate a Marte, in cui tematizza la compresenza dell’amore per la guerra e dell’amore per la vita. Perché – accanto alla tensione verso il conflitto – esiste un’istanza di vita, che rischia sempre di essere sopravanzata, ma che la gioventù delle attrici e degli attori incarna con intensità.

Antigone e i suoi fratelli – Foto Andrea Macchia

C’è infatti un valore “anagrafico”, in questa ricerca, che si lega, mi pare, al suo approccio pedagogico al teatro.

È molto importante che siano tutti giovani, perché quello dell’Atene del V secolo a.C. è un mondo – e quindi un immaginario – giovane: lo sono gli dèi e lo sono gli uomini, ce lo attestano le pitture rupestri. Spesso si pensa, e lo trovo in qualche modo legittimo, che per portare in scena le parole di Eschilo servano attori di rango e di grande esperienza. Eppure, tutto quello che si perde in esperienza si guadagna in soffio vitale. Per citare ancora Hillman, questi interpreti sono portatori di una disperata vitalità e questo per me è assolutamente essenziale. La sfida anzi – vorrei evitare la semantica del conflitto – la scommessa è riposta nella possibilità che la gioventù, con forza, rintracci e personifichi il significato profondo delle parole antiche. Ci piace molto organizzare delle matinée con le scuole e proprio oggi abbiamo proposto Sette a Tebe a un centinaio di ragazzi e ragazze di III media. In queste occasioni, lo spettacolo muta: gli interpreti si fermano continuamente, ogni volta che serve a spiegare un passaggio, a discuterlo insieme. Stamattina è stato splendido: le domande poste, a volte, sono profondissime e segnalano un grande bisogno, da parte dei giovani, di politica, intesa come gesto e pensiero di comunità, come reinvenzione di forme di convivenza civile, come partecipazione dei loro interrogativi. Nell’antica Grecia il teatro era la scuola del popolo. Serve che la politica esca dal proprio perimetro istituzionale, perché quello che si fa nei salotti televisivi (e purtroppo spesso anche nei partiti) è un dibattito scollegato dal mondo civile che non produce nulla, se non una radicale sospensione della realtà. Trovo che, invece, sia già politico il fatto che alcuni giovani sappiano parlare usando le parole di Eschilo, e usandole in modo rispettoso ma estremamente disinvolto, facendole proprie. Abbiamo investito tante ore anche nella scrittura, estraendo dal testo antico elementi nuovi, e trovo che siano emersi pensieri di un’intensità stupefacente.

Prometeo – Foto Andrea Macchia

Il nostro presente è immerso nell’intrattenimento, siamo tutti, io per primo, abituati a Netflix. Ma è proprio per questo che, quando proponi qualcosa di davvero altro dall’intrattenimento, quindi di non concorrenziale, succede qualcosa. Questa mattina una ragazzina ha chiesto, a proposito della “misoginia” di Eschilo, se lui credesse davvero che le donne fossero una razza inferiore. Un compagno le ha risposto di no, che Eschilo voleva mostrare quanto si possa essere sciocchi nel proprio disprezzo, e che ci insegna ancora, a distanza di secoli, a fare attenzione, a non essere uno di quegli sciocchi. Poi è intervenuto un altro ragazzo di tredici anni e ha domandato: «Se mi innamoro di una ragazza, cosa devo fare per essere rispettoso, per non calpestare mai i suoi diritti?». Questi giovani e giovanissimi che vengono descritti come spensierati e asserviti ai dispositivi che portano in tasca, incapaci di esprimere profondità, io non li ho mai incontrati. Ho incontrato ragazzi e ragazze che hanno dei bisogni e delle inquietudini che non sanno come esprimere, e temono di essere gli unici ad averle: non sono ignoranti, sono soli. Quello che si sta creando a teatro in queste serate (in cui è abbastanza straordinaria la presenza di pubblico giovane) è una forma di dialogo molto diretto. 

Prometeo – Foto Andrea Macchia

Nei suoi spettacoli, accanto a questo scavo sulla parola antica, c’è anche una forte componente di lavoro corale sui corpi, non solo corpi performanti, ma anche corpi “in ascolto”…

Mi occupo, ormai da decenni, di questa cosa che chiamiamo schiera e che è veramente un ripartire da capo, un imparare a camminare, e a camminare insieme agli altri. Serve ad aprire lo sguardo e a intensificare la propria presenza a se stessi, nel tempo, nello spazio e nella relazione presenti. So che ci sono tanti che utilizzano la schiera, ma credo che spesso la intendano in termini coreografici, cosa che noi non abbiamo mai fatto. Per noi si tratta di una pratica di attenzione ed è assolutamente qualcosa che va insegnato. Per altre generazioni, come quella dei miei maestri, era qualcosa di più intuitivo perché loro avevano fatto la guerra, sapevano cosa significasse essere sotto la minaccia costante delle bombe. Quello all’attenzione è stato, per loro, un apprendimento più naturale. Ora che la guerra è presentissima ma astratta, l’attenzione diventa una scelta. Non possiamo pensare che ci sia indispensabile il pericolo, per essere consapevoli. Ci serve di inventare un’alternativa, di rintracciare qualcosa di più eccitante. E, sì, la compresenza è più eccitante della guerra. 

Sette a Tebe – Foto Andrea Macchia

La critica letteraria Carla Benedetti sostiene qualcosa di simile nel suo saggio La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi, 2021), scrivendo che la via d’uscita sta proprio nel «sentirsi terrestri», che forse è un altro modo di dire radicati e compresenti, non “virtuali”. E, a proposito di virtualità, in Prometeo il dono del fuoco è il dono della tecnologia…

Il tema è il conflitto tra le generazioni: la mia, quella dei boomer, è l’ultima vera generazione “di vecchi” perché ora sta prendendo piede la convinzione che la tecnologia vada così in fretta da annullare il valore dell’esperienza. Eschilo ci ricorda proprio il contrario: è nel momento del cambiamento, della massima accelerazione, che il legame tra le generazioni diventa più prezioso. La tabula rasa non esiste e i regimi che ne hanno avuto il mito sono andati a finire male, penso anche alla rivoluzione culturale cinese, in cui chi ha la mia età ha creduto, ma che era una follia. C’è sempre qualcosa prima, qualcosa che ci rende chi siamo, ci radica, ci determina.

Antigone e i suoi fratelli – Foto Andrea Macchia

Anche il funzionamento dell’informazione sembra precipitarci in questa sorta di iperpresente di cui lei parla. Collegandoci al tema di Antigone – alla «sostanza pesante della fraternità», o della sorellanza – in questi giorni il pensiero va alla corrispondenza che in tanti stanno evocando con Elena Cecchettin. Al cospetto dei casi di cronaca nera, ho sempre una riserva rispetto a questa visione così ravvicinata che mi pare morbosa. Eppure stavolta, forse, si è verificata una forma di trascendenza del dolore privato in simbolo, che si accompagna alla speranza politica di essere in prossimità di un punto di svolta. 

Chissà quanti Polinice sono rimasti insepolti prima del Polinice che ci ha fatto conoscere Sofocle, ed Eschilo prima di lui. E, allo stesso modo, quanti femminicidi sono avvenuti e sprofondati nel silenzio. Ma non c’era Antigone. Adesso c’è Antigone. C’è questa ragazza che alza la testa – conducendo con sé il padre – che ha trovato le parole per dirlo, ha il corpo per dirlo. Di fronte a questo non c’è Salvini che tenga. Quello che sto notando in questi giorni è proprio l’insofferenza dei conservatori verso la parola patriarcato: possono accettare, come i progressisti d’altra parte, di assumersi le responsabilità del maschilismo, ma non vogliono sentir parlare di patriarcato. Questo accade perché l’idea di patriarcato comporta quella di società. Margaret Thatcher diceva che non esiste la società: solo uomini, donne e famiglie. E invece no, esiste, e lo stiamo vedendo. Ma ci vuole Antigone. Ci vuole il corpo di Antigone, per creare società.

Ilaria Rossini

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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