Black Star di Fabrizio Sinisi, con la regia di Fabrizio Arcuri, prende l’ispirazione e poi le distanze da Tito Andronico di Shakespeare per ragionare sulla violenza. Recensione dal Teatro Astra di Torino. Prossime repliche al Teatro Fabbricone di Prato
Se rappresentare la violenza è una delle più antiche ossessioni del teatro è perché essa è una caratteristica endemica dei suoi primari oggetti di osservazione: l’etica e l’etologia umana, il comportamento di questa nostra specie, il suo destino, le sue storture, le sue cause, i suoi effetti.
Al Teatro Astra di Torino, nella vivace stagione del TPE Teatro Piemonte Europa diretto da Andrea De Rosa, che lo coproduce insieme a CSS Udine e Metastasio di Prato, è arrivato Black Star, seconda collaborazione tra il regista Fabrizio Arcuri e il drammaturgo Fabrizio Sinisi dopo Un paradiso, parte del trittico dantesco prodotto nel 2021 dallo Stabile del Veneto.
In una imprecisata giungla metropolitana, la sopravvivenza del migrante congolese Grock dalla voce cristallina (Martin Chishimba), che si guadagna da vivere cantando agli angoli di strada in costume da clown, incrocia quella di una ricca intellettuale (Aglaia Mora) annoiata dai propri stessi privilegi e in cerca di un nuovo amore: lo disprezza, cede all’esotico totem della sua presunta primitività, salvo poi scoprirne insopportabili le umili origini e rifugiarsi al caldo di uno stereotipo, che innescherà la tragedia. Parallelamente, la sonnolenta e squallida vita casalinga di una coppia di mezza età (Gabriele Benedetti e Maria Roveran) è sconvolta da una brutale aggressione e l’ingenua solidarietà del pater familias imbolsito, che ha con troppa leggerezza aperto la porta a uno sconosciuto, subisce una metamorfosi orrenda quando lo script sociale (capeggiato da un bieco detective, Michele Guidi) chiede conto di un capro espiatorio da linciare. Perfetto per questo ruolo è proprio Grock, che a noi rivolge un divertito e raggelante apologo didattico, variazione sul tema mitico africano degli angeli bambini che sono lo spirito della terra, una terra che è stata espropriata e abusata per farne fondamenta per il grande Occidente.
Funereo, angoscioso, severo, Black Star è una fiaba nera sulla violenza contemporanea, che parte dalla cronaca di un immaginario fatto di sangue per generare personaggi scomodi e però terribilmente plausibili; il viaggio tragico delle loro consapevolezze schiaffeggia il pubblico con un graffiante monito sulla nostra società capitalista e il suo corpo tempestato di tumori: razzismo, colonialismo, classismo, diffidenza, odio e banalità del male, quello che Foucault e Pasolini additavano come il più vigliacco dei sistemi di potere, esercitato da chi si prende la responsabilità di non fare niente per ribellarsi.
In tutti i materiali si fa riferimento al Tito Andronico come principio ispiratore di questa sorprendente drammaturgia originale: per quanto riguarda personaggi e contesti, della prima revenge tragedy di Shakespeare sulle cruente vicende per il controllo di Roma dopo la morte dell’Imperatore non resta qui quasi nulla. E però un cupo e crudo senso di minaccia, un continuo presagio di morte, quella barbarie umana decisamente splatter che il Bardo recuperava da fonti latine come Le metamorfosi di Ovidio o le tragedie di Seneca; tutto questo in Black Star sopravvive come un’ombra fantasmatica che spande un’atmosfera malsana e disturbante. In questo «saggio sulla violenza in quattro atti» la violenza non deve (non può?) mai essere mostrata ma solo evocata, «può essere affrontata solo quando la si mette al centro del linguaggio», scrive Sinisi.
E il linguaggio è quello a cui Fabrizio Arcuri ci ha abituato fin dall’Accademia degli Artefatti; arricchito di simboli e sineddochi, immancabili controluce e tagli ad altezza sguardo e una macchina del fumo che, modulata in diverse intensità, ne nasconde i contorni, ne scioglie i fasci, confonde le sagome. C’è l’invasione della platea, la luce di sala accesa, la voce amplificata, il sipario di nastri argentati, la pioggia di coriandoli; si compongono ed esplodono set scenografici di pochi e necessari elementi che mai sono solo di contorno, ma che costituiscono le fondamenta simboliche di un contesto e di uno stato d’animo. Sul palco squintato tutto avviene a vista, compreso l’intervento di tecnici che muovono le macchine, stringono nodi, assicurano i moduli con freni a pedale; tutto con netta e ruvida maestria artigianale. C’è poi la recitazione straniata e distante, quell’entrare e uscire da personaggi e inflessioni vocali a cui rispondono con grande perizia tutti gli interpreti, accordati su diverse modulazioni del dolore e della desolazione, sotto la presenza vigile dell’immancabile feticcio di Arcuri, il “servo di scena” che, di spalle, tiene un microfono boom per assicurare una sorta di “suono in presa diretta” di una realtà che è sempre rappresentata, frammentata, scarnificata.
Quella di Fabrizio Sinisi, che abbiamo ascoltato assumere numerose forme davvero camaleontiche e difficili da etichettare, è una scrittura in grado di preservare una qualità immaginifica, poetica e, a tratti, concreta in maniera spudorata, pur sapendo inginocchiarsi di fronte alle esigenze della scena. Se si dice che il testo teatrale sempre deve dialogare con due destinatari (quello intermedio di chi organizzerà la messinscena, quello finale che consta nello sguardo dello spettatore), Arcuri e Sinisi lavorano fianco a fianco nel realizzare un’equilibrata ed efficace alchimia: il pubblico è messo di fronte a una macchina drammaturgica e scenica che contiene e armonizza nella nuda estetica postdrammatica tipica di uno il lirismo mai calligrafico e sempre vivido dell’altro.
I quattro episodi sono fusi da una chirurgica operazione di innesto tra un quadro e l’altro, marcata da una sorta di aedo rock/grunge (Giulio Ragno Favero) che chiude e apre i quadri con una chitarra e un basso elettrici dal suono distorto: l’energia che dà senso a una porzione del racconto deborda per invadere quella successiva e la narrazione scenica, come un organismo vivente, comincia a respirare a un ritmo prima calmo, poi isterico; prima profondo e sornione, poi minaccioso e singhiozzante. E così procede il testo, che progetta una sorta di bomba a orologeria, una reazione a catena di cause ed effetti che dal fatto di cronaca innesca una desolante deflagrazione, di fronte a cui ci resta, aperto a rasoio sul volto, un ghigno gelido e brutalmente sardonico come quello dei clown assassini. O come quello di Grock, il fool per eccellenza, che ci ricorda quanto ridicola possa essere la violenza o, piuttosto, quanto violenta possa essere la risata.
Sergio Lo Gatto
TPE | Teatro Astra di Torino – dicembre 2023
Prossime date in calendario tournée
Prato, Teatro Fabbricone 7-10 dicembre 2023
BLACK STAR
di Fabrizio Sinisi
regia e luci Fabrizio Arcuri
con (in o.a.) Gabriele Benedetti, Martin Chishimba, Michele Guidi, Aglaia Mora, Maria Roveran
musiche composte ed eseguite dal vivo da Giulio Ragno Favero
scene e costumi Luigina Tusini
video Renzo Carbonera
macchinista Mario Iob
datore luci Maurizio Tell
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa
foto icona Pieter Hugo
foto di scena Alice Durigatto