Ascanio Celestini, dopo aver debuttato con Rumba – L’asino e il bue al Romaeuropa Festival 2023, presenta una data unica al Piccolo Teatro di Milano per poi continuare la tournée in tutta Italia, da Bologna a Genova, Milano, Torino, di nuovo Roma e tante altre date.
Casa. Studio. Casa e studio tutta insieme. Una libreria a parete di legno ancora grezzo, in mezzo ai libri le maschere. Alcune le ha fatte lui, ma una invece è molto diversa: “Questa non l’ho fatta io”, mi dice, “l’ha fatta il mio maestro Stefano Perocco di Meduna per Leo de Berardinis. Leo la voleva con i tratti suoi mescolati a quelli di Beckett, poi niente, non gli stava perché batteva sopra un occhio, allora l’ha tenuta lui. Poi un giorno prende e me la regala. Ma ci posso mai mettere la faccia mia?”
Quale motivo ti ha spinto a occuparti di un personaggio come Francesco d’Assisi?
Un paio d’anni fa, mentre lavoravo alla terza parte della trilogia che contiene Laika e Pueblo, mi contattano dal Comitato Greccio 2023 che si occupa degli 800 anni dal presepe fatto da Francesco nel 1223 e mi chiedono se sono interessato a fare una cosa con loro; così prima di incontrarli mi leggo l’unico libro che avevo sull’argomento: Vita di un uomo di Chiara Frugoni, che ha fatto tutto un lavoro sull’iconografia. Mi colpisce una cosa che non sapevo, cioè che in questo presepe non ci sono i personaggi che noi conosciamo – i re magi, i pastori, l’angelo, le pecore, ma neanche Maria, Giuseppe o il bambinello – ma ci sono soltanto il bue, l’asino e la mangiatoia in una grotta, perché non vuole rappresentare la nascita di Cristo, ma vuole mostrare alle persone che verranno a vederlo durante la notte di Natale che il Cristo è nato in un posto di povera gente, per questo lo fa nel paesino di Greccio e non a Perugia o Assisi che erano città ricche. Già nel 1219 aveva fatto un viaggio in Egitto per sensibilizzare i Crociati – senza successo – sugli stupri, le violenze, gli omicidi che invece continuano in maniera disastrosa; quando torna in Italia l’anno successivo lascia la guida dell’ordine perché si rende conto che da tutti i frati è considerato ormai un fanatico, uno che gira scalzo, non va neanche sul somaro, vive nelle baracche, cerca insomma di dare una scossa dimettendosi come esempio di un ordine che già aveva tradito la regola che lui aveva dato e che doveva essere applicata senza interpretazione: non bisogna toccare il denaro e le armi, non bisogna possedere niente perché poi quello che possiedi va difeso. Quindi anche il significato di questo presepe è semplice allo stesso modo: Cristo può essere nato a Betlemme o a Greccio, in un posto qualunque di povera gente, quindi non serve fare una guerra per riconquistare la terra dove è nato e vissuto, perché qualsiasi terra di povera gente è terra di Gesù Cristo. E visto che le mie storie della trilogia sono di zingari, prostitute, barboni, tutte attorno a un parcheggio tra un supermercato e un condominio, ho pensato che il lebbroso e il mendicante di Francesco oggi siano proprio quelli che dormono tra i cassonetti. Se Betlemme può essere Greccio, allora può essere pure un parcheggio in periferia.
Come si articola la vicenda di Rumba nata da queste riflessioni?
La storia è molto semplice: ci sono i due personaggi dei primi due capitoli, l’io che racconta e poi Pietro, quello che ascolta; nella prima parte che è Laika il narratore racconta quello che ha visto, nella seconda parte, Pueblo, racconta quello che immagina nella casa di fronte e tutto il resto, in questa terza parte i personaggi scendono nel parcheggio, nella notte di Natale, aspettano l’arrivo dei pellegrini per fare qualche soldo, ma forse poi i pellegrini non arriveranno mai.
Quella di Francesco, che si spoglia dei suoi averi come sappiamo da un libro di scuola media qualsiasi, è una scelta dettata dall’esempio cristiano, mentre oggi pare proprio che finire in mezzo a una strada sia la conseguenza non voluta di una situazione economica oltre i limiti. Quale differenza c’è tra la povertà come scelta e la povertà come condizione indesiderata?
Anche allora di poveri ce n’erano tanti… era un periodo, quello del 1200, in cui aumenta la ricchezza, nasce infatti la borghesia – appunto il padre di Francesco era un mercante – ma aumentano così anche i poveri, i contadini abbandonano la campagna per la città, dove vanno per cercare qualche opportunità ma finiscono per diventare mendicanti. La risposta la dà proprio Francesco: noi scegliamo di vivere come i poveri, non lo siamo, quindi loro hanno ragione a essere arrabbiati per la loro condizione, noi invece non ci possiamo permettere di essere scontenti. Quindi quella dei frati è proprio una scelta, infatti si chiamano “minori” perché vivono come i più umili. Poi, quando i frati vengono assimilati come ordine alla Chiesa, diventano uno strumento nelle mani del papa, che in quel periodo è Innocenzo III, con cui non vanno mai in conflitto e che anzi ne sfrutta certe caratteristiche, perché loro non negano mai il corpo e per loro tutto il creato va lodato indistintamente – vedi Il Cantico delle Creature – quindi in contrapposizione a certe idee eretiche del periodo che infatti il papa cerca di sopprimere.
Forse serviva un esempio proprio di rifiuto materiale di ricchezza per dimostrare che la Chiesa ancora guarda agli umili?
Doveva essere completamente inglobato nella struttura politica della Chiesa, infatti nel giro di poco tempo costruiscono la Basilica ad Assisi, ma ancor di più è evidente con quello che hanno fatto alla Porziuncola, questa cappelletta che lui aveva scelto come ricovero per la preghiera, adesso inglobata dentro una chiesa gigantesca – Santa Maria degli Angeli – all’interno della quale c’è questa chiesina. È proprio quello che hanno fatto con Francesco. Ma anche lo stesso racconto di lui che parla con gli uccelli, come si dice nelle biografie scritte di Tommaso da Celano, è una scelta ben precisa: Francesco è in origine un laico, non un uomo di Chiesa, quindi se avesse parlato con le persone sarebbe stato un predicatore e per la Chiesa del tempo non era possibile, invece con gli uccelli… Ma la Chiesa giustamente fa la sua propaganda, è una multinazionale e non è pensabile che i papi o i cardinali vadano a dormire per strada, noi possiamo pensare che anche la scelta di Bergoglio di prendere il nome da Francesco sia una scelta nobile, profonda, però è inevitabilmente anche una scelta a suo modo commerciale. Ed è naturale che sia così, nessun uomo cambia da solo la storia, semplicemente un uomo si trova nelle condizioni di interpretare meglio di altri come vanno le cose in quel periodo nel mondo. Poi certo noi parliamo di Francesco in nome della regola che ha lasciato, proprio in virtù dell’esempio contrario che rappresenta, ma possiamo dire che ne parliamo proprio perché la sua regola è stata immediatamente tradita.
In questo periodo della storia abbiamo desunto dai media che adesso i barboni si chiamano “gli invisibili”, un po’ peraltro è vero perché in pochi, dotati di una maggiore sensibilità, guardano nella loro direzione e si può dire che li vedano. Ma questi invisibili sono anche “inascoltabili”, per dire che non si sa quali siano le loro parole, di cosa parlino, quali siano i loro pensieri. Tu ti sei fatto un’idea? Hai ascoltato?
I barboni ci fanno paura perché stiamo tutti a un passo da quella condizione. Quando lavoravo su La pecora nera, un musicista che però era anche infermiere mi ci ha fatto pensare: “Sai che cos’è la malattia mentale? Ti capita mai, quando hai chiuso la macchina, di tornare indietro perché non ti ricordi più se l’hai chiusa? Ti è capitato due, tre o quattro volte? Ecco, chi ha un disagio mentale è uno che torna infinite volte a controllare se la macchina è chiusa”. La loro condizione infatti, ma allo stesso modo quella dei barboni, non è tanto diversa da chi ha una vita sociale che possiamo definire normale, solo noi siamo molti passi indietro rispetto a quella condizione. Anni fa, quando dirigevo un festival a Roma, avevo invitato i Tony Clifton Circus che facevano una performance in un supermercato dal titolo Book Kamikaze: giravano in mutande con i carrelli della spesa e avevano tutti libri legati addosso tipo dinamite, a un certo punto nel pubblico due parlavano e uno disse all’altro: “Ma voi vede’ che noi siamo così…” ma così come? Il barbone fa paura perché lo guardi e puoi dire: anch’io, se le cose vanno male, posso finire così.
Sul piano più squisitamente religioso, colpisce come i grandi scismi – ortodosso, poi protestante, a suo modo anche la grande separazione con il mondo musulmano – abbiano come principale motivo quello legato all’uso delle icone sacre e in generale della rappresentazione figurativa del sacro. Perché secondo te il mondo cattolico, sedicente fondamento d’Europa, ha così tanto bisogno di rappresentarsi?
Prima di tutto c’è un fatto politico: nell’Impero Romano, che accettava tutte le culture, i cristiani erano strani, perché non combattevano, non condividevano il loro culto, erano una mina vagante, ma quando vengono accettati da Roma i cristiani cambiano, vanno a combattere, si aprono e quindi si mischiano ai culti precedenti. Invece la Chiesa d’Oriente è legata profondamente all’Impero d’Oriente, gli ortodossi nascono in una struttura statuale politica diversa rispetto alla Chiesa di Roma. La rappresentazione in Occidente era già del tempo degli dei romani, che erano proprio in carne e ossa, poi quei culti si mischiano più volte con l’arrivo delle invasioni barbariche, mentre in Oriente c’erano tradizionalmente culti più spirituali che resteranno abbastanza stabili per secoli, fino alla fine dell’Impero Ottomano.
Te lo chiedevo proprio in funzione del presepe francescano, ossia una rappresentazione scarna della natività, mentre invece la sofferenza del Cristo, come se fosse un presepe lungo l’intero anno, viene rappresentata dal crocifisso appeso in tutti i luoghi pubblici del mondo cattolico.
Ma infatti Francesco per questo è stato molto importante, perché lui mette in scena la nascita, mentre le sacre rappresentazioni mettevano in scena soprattutto la morte, anche perché è il momento di maggiore coscienza dell’incarnazione di Cristo. E infatti noi abbiamo la croce attaccata al collo, mica la culla.
Simone Nebbia