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MURICEDDU (di Margherita Ortolani)

Questa recensione fa parte di Cordelia di novembre 23

Lo Spazio Franco di Palermo ha appena inaugurato la sua nuova stagione con la prima di un ciclo di anteprime inedite. Scena Nostra, la rassegna prodotta da Babel in collaborazione con Rete Latitudini e con il sostegno di Regione Siciliana e Ministero della Cultura, viene anticipata quest’anno da tre diversi appuntamenti, tra cui un futuro omaggio a Franco Scaldati. Abbiamo intanto partecipato al primo atto della programmazione, ovvero un ritorno alla scena di Margherita Ortolani come interprete e regista di Muriceddu. Forse, chissà, l’età delle parole è finita per sempre. “Muriceddu” è un piccolo muro, una delimitazione minima da cui osservare, seduti, l’agitarsi della vita altrettanto minima che anima il quartiere. In un vociare indistinto, che cade sulla scena a inizio spettacolo come pioggia, Ortolani compone una marionetta: un’alterità lignea, spezzata come una vecchia stampella. Un processo di assemblaggio, ma forse anche una vestizione funebre; la presenza che ne risulta è più l’ostinata rappresentazione di un’assenza, della misteriosa interlocutrice di un dialogo forse impossibile. Non ti vedo, non ti sento. Eppure, nella verità della scena, è concesso parlarsi. Una parola spezzata, sospesa nel vuoto oscuro in cui si consuma, rievoca luoghi ormai collocati in una topografia dell’anima. Bozzetti impressionistici di personaggi accennati, tratteggiati con una poeticità cruda, prendono forma nella dolcezza allucinata e spigolosa dell’interprete; ne attraversano la voce – ora cristallina, ora profonda di toni gravi, rochi, taglienti – ne attraversano la gabbia ossea del corpo. Tra spigolature si intravede il fatto: la morte di un uomo, le sue scarpe, custodite come feticci. Ma il racconto si disintegra, si frattura attraverso l’esperienza delle donne che svolgendolo lo distruggono, e anzi ne sono distrutte. Nell’assenza fissa della marionetta, è Ortolani a ridursi a fantoccio, e così le donne che la abitano. La loro vita corrisponde a un sonno luttuoso, scandito soltanto dal ticchettio di un tempo irredimibile e di un’infanzia ormai inutile. Tutto avviene in una luce (di Dario Muratore, anche aiuto regista) dove «si vede poco, ma si vede tutto», così delicata e soffusa da diffondere più ombra che chiarore. La morte è anzitutto morte di sé nella morte degli altri. Ma, fortunatamente, è possibile sostenersi, insieme. (Tiziana Bonsignore)

Visto allo Spazio Franco. Crediti: testo e regia: Margherita Ortolani, con: Margherita Ortolani, aiuto regia: Dario Muratore, doppio in figura/marionetta senza fili: Tania Giordano, allestimento scenico: Vito Bartucca, musiche: Roberto Cammarata, luci: Vito Bartucca/ Dario Muratore.

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