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Maria Paola Zedda: “sottrarsi alla logica dell’evento” attraverso Le Alleanze

Alla conclusione dell’edizione 2023 de Le Alleanze dei Corpi, abbiamo avviato un dialogo con la curatrice Maria Paola Zedda, per sondare i confini di un lavoro minuzioso condotto sul territorio milanese, tra pratica di cura e tensione all’ascolto. Intervista.

Incontro Maria Paola con una chiamata che ci diciamo di fare un sabato pomeriggio, quando ancora l’autunno tardava ad arrivare. La nostra chiacchierata è un groviglio di pensieri e parole che si rincorrono, muove dall’eccitazione di raccontare e raccontarsi, e raccoglie al tempo stesso il profondo bisogno di dedicare un tempo nuovo alla pratica dell’ascolto. Quando penso a come introdurre questa intervista comincio a rovistare tra i libri della mia disordinata libreria, alla ricerca di quelle pagine già lette che riecheggiavano nei miei pensieri perché approfondivano la questione della caratterizzazione urbanistica di Milano. Le ritrovo sottolineate nel volume di Passenger su Milano. Scorro i capitoli ma mi soffermo su di uno: “La verde bellezza” di Lucia Tozzi è una disamina delle contraddizioni che abitano i tessuti della metropoli lombarda nella relazione che instaura con i parchi, spazi pubblici liberi “normali” e non ancora normati. Scrive: «Milano non è una città di quartieri come Barcellona o Parigi, è concentrica e gerarchica come poche altre al mondo. È una città monoblocco, dove centro e periferia restano significanti vivissimi, a dispetto di tutte le teorie che si ostinano a fingere il contrario» e ancora «è impressionante constatare la resistenza dei milanesi ad attraversare spazi che non siano stati prima comunicati, pubblicizzati, inclusi in qualche guida della Milano segreta (…) Eppure il comune di Milano teorizza la bontà, anzi, la necessità di delegare a privati, associazioni, imprese la cura del verde pubblico attraverso patti di collaborazione, sponsorizzazione». Senza troppo calarci all’interno di queste questioni a priori, vogliamo che siano queste parole a introdurre l’intervista su Le Alleanze dei Corpi, a creare il terreno di un possibile dibattito e a porre le condizioni di uno scavo all’interno di un progetto che attraversa i luoghi delle periferie milanesi per riattivarne i corredi genetici, abitarne le pratiche cittadine e creare relazioni comunitarie. È da qui che vogliamo partire.

Da quale urgenza è nata Le Alleanze dei Corpi?

È nata dopo un’esperienza per me molto importante, la direzione artistica della Capitale Italiana della Cultura a Cagliari nel 2015, con un pensiero di riflessione sulla città e sul potenziale che i corpi e la performatività hanno nella tessitura dei vuoti urbani, dei confini e degli strappi che sono inscritti all’interno dell’esperienza di una città. Si è verificato così un trasferimento di punti di vista che mi ha permesso di andare a esplorare i margini più evidenti dentro un orizzonte urbano per localizzarli in delle aree specifiche del territorio. Era un approccio per certi versi urbanistico ma che muoveva anche da interessi antropologici. Sicuramente sono stati poi importanti le individuazioni di quartieri come quello di Via Padova – laboratorio molto vivo abitato dalla stratificazione di culture diverse – con i quali abbiamo avviato un percorso di coinvolgimento delle comunità e di gruppi sociali specifici. Da lì il progetto ha preso più la forma di un festival e le performance hanno cominciato a manifestare una necessità intrinseca, legandosi ai temi della cura, del transfemminismo, dei confini di genere, ma anche linguistici e urbani. Ogni anno abbiamo preso in carico una particolare specificità. Con l’edizione 2023 si è scelto di dividere la programmazione in Spazio Comune ed Extrabodies, sezioni che però credo si intersecano in modo molto profondo. Da una parte lo spazio comune, che si distingue da quello pubblico per il legame che crea con gli usi civici degli spazi e con l’aspetto generativo che essi hanno nel momento in cui si trasformano in zone di pensiero, di pratiche e di momenti condivisi sfuggendo la categoria pubblico/privato e andando oltre il concetto di proprietà. Dall’altro, il tema di Extrabodies, che riguarda invece l’eccedenza dei corpi, un materiale in qualche modo sempre non dominabile, che sfugge a qualsiasi tipo di confine. Il programma abita questi intrecci, perché non sono materie distinguibili bensì incandescenti, sconfinano l’una nell’altra, ma caratterizzano anche un sistema di formazione, di riscrittura dell’universo della danza contemporanea, che appare ancora poco permeabile per alcuni tipi di percorsi e di linguaggi.

Le classique2 – Anna Basti

C’è una particolare intenzionalità che guida la tua idea curatoriale, una tipicità ricercata nella scelta della programmazione?

C’è sicuramente una temperatura drammaturgica dentro la programmazione, che ha dei momenti di scoppio, di grido e altri di deposizione della materia e di rigenerazione in una forma nuova. Alcuni lavori sembrano differenti e fuori dalla riga, con una struttura politica che appartiene al progetto ma in realtà nella forma hanno una loro possibilità di radicalizzazione sul linguaggio, di creare un tempo diverso. Sono dei lavori sugli ascolti – e non necessariamente enunciazioni frontali – hanno quindi uno sguardo più laterale, di attraversamento. In particolare, c’è una tendenza al lavoro sul linguaggio generato dalla danza ma legato anche molto alla performance e allo sconfinamento di un territorio attraverso una transdisciplina, che permette di sondare un campo inesplorato. Mi viene in mente la performance di Benassi che per me è un grido che sconfina nelle forme delle Alleanze ma in cui ritrovo una convergenza di relazioni, così come nel lavoro di Jacopo Milani: in queste espressioni c’è un continuo trasferimento di segni, di rapporti, di linguaggi.

Brutal Casual Magazine-di Jacopo Benassi e Lady Maru

Sono diversi i format che scrivono i confini di questo progetto. Tra questi, la dimensione del simposio vuole creare una relazione tra riflessione personale e confronto, e quella del laboratorio/workshop gioca sulla dinamica di movimento e parola. In che modo convivono questi intrecci all’interno del progetto?

Il simposio per me è generativo, quest’anno in particolare si partiva dai simposi e si entrava nelle questioni con i corpi, seguendo anche l’idea che il pensiero è corpo e il corpo è pensiero. Il corpo produce dei sistemi che via via la ricerca mette in circolo attraverso una dimensione teorica; trovo questo aspetto oggi necessario per creare un sistema e una capacità di essere letti dentro un processo curatoriale, dichiarando anche quali sono le istanze generative del percorso. Quello che quest’anno abbiamo sviluppato – soprattutto nei giorni dedicati alla questione della decolonizzazione – è la decisione di alternare all’interno del simposio le pratiche e i momenti di riflessione in modo molto stretto, con l’idea di far scendere il pensiero dentro la pratica corporea, per poterla esprimere, sperimentare e farla depositare. C’è un modo completamente diverso di elaborare una questione quando scende nella materia viva dell’esperienza. D’altra parte, i workshop sono sicuramente quelle linee intermedie che permettono un passaggio, un approfondimento più verticale dentro i contenuti con la speranza che poi si riverberino nell’ esperienza estetica della performance. Questo è un legame che tende a creare una costellazione di senso interna ad alcuni nuclei, che permette di spacchettarli e rimetterli in campo, creando al tempo stesso una comunità reale, perché richiede la partecipazione collettiva in un tempo dedicato.

Con Walk the (Red) Line l’anno scorso avete allargato la vostra geografia artistica a nord-ovest, da Nolo al quartiere di San Siro. Lavorate in una realtà come Milano in progressiva espansione, che opera da anni un progetto di gentrificazione che mira ad inglobare le periferie, rischiando però di perdere il carattere identitario e locale dei luoghi. Come si inserisce il vostro progetto all’interno di queste logiche centripete?

Questa è una questione che è emersa in modo molto evidente l’anno scorso su San Siro, su come anche una progettazione culturale possa contribuire ad un lavoro di gentrification. Via Padova è stato un momento di ritorno, un ritornare a un luogo che avevamo già abitato, su cui già si era lavorato e costruito molto. Lo spostamento che Le Alleanze fa è proprio quello di partire dal territorio, per attuare delle pratiche di ascolto, di contatto, di relazione e complicità, intesa soprattutto come possibile affiancamento di alcune questioni nel campo delle lotte. Ci interessa dialogare con le realtà del territorio, con gli abitanti e gli artisti che lo abitano e lo significano. Questo è un cambiamento evidente rispetto a una pratica che va a conquistare e riscrivere…in realtà si tratta di ascoltare, per lasciare emergere la possibilità di momenti critici. Anche per questo motivo, ci sono stati alcuni grandi conflitti interni con artisti diasporici e razzializzati, ma quello che ci è interessato in primo luogo è stato creare un territorio in cui si decide di stare accanto al problema: piuttosto che inglobare e includere, vogliamo innescare una materia incandescente che già esiste e che attraverso una progettazione culturale può connettersi e creare dialogo tra artisti diversi, mettendo in questione anche noi come operatori e operatrici culturali, con la consapevolezza di essere dentro uno spazio politico e non semplicemente un programma artistico.

Le Cirque Asteroïde, photo Magali Dougados

Vi è un gradiente di attivismo, evocato dal riferimento al lavoro di Judith Butler nel nome stesso del progetto, in cui il fare artistico si inserisce inevitabilmente all’interno di una cornice sociale che può diventare, e diventa, soprattutto politica…

Per noi diventa sempre più una questione fondante che è legata alle biografie di chi l’ha generato. Io penso si veda una radicalità in questo, non so se viene recepita, però sicuramente per quello che è il panorama di lavoro su Milano e sull’Italia, noi portiamo avanti una distinzione nelle intenzioni di scelta, nella tipologia di artisti, curatori, teorici che invitiamo a prendere parte al progetto, quest’anno attraverso delle costellazioni curatoriali, l’anno scorso attraverso delle partnership. Durante il simposio sulla cura, per esempio, sono intervenute teoriche e artiste che operano nel campo di azione tra attivismo e ricerca. Personalmente penso siano ruoli diversi, l’attivismo puro oggi si innesta molto con le pratiche e rispetto alla mia generazione è un ambito più intrecciato e fluido, che in qualche modo il nostro lavoro eredita e si sintonizza. Detto questo, mi rendo conto che c’è un potere quando qualcuno mette in campo un programma, c’è una relazione tra le istituzioni che si veicola necessariamente in un modo differente rispetto a come vorresti veicolarla nelle lotte e c’è un tipo di negoziazione interna che non si definisce nell’attivismo tout cour.

Le Alleanze dei Corpi è vincitore del Bando alle Periferie del Comune di Milano, vincitore del bando 57 di Fondazione Comunità Milano e del bando Obiettivo Focus del Comune Milano – Fondo per la cultura sostenibile a sostegno di progetti pilota basati su principi di sostenibilità nell’utilizzo delle risorse e costruzione di reti di collaborazione. Che relazione avete inizialmente intrapreso con le istituzioni pubbliche e come si è sviluppato questo dialogo?

Dall’anno scorso il progetto è finanziato dal MiC e dal FUS, ma è stata una lunga piccola crescita nel tempo. Di fatto il progetto ha cambiato diversi capofila, ci sono state peregrinazioni che sono cambiate nel tempo mentre alcune di esse sono rimaste. Il dialogo istituzionale nasce in particolare attraverso un bando del Comune di Milano per rispondere alla questione della marginalità nelle periferie, a sua volta nato da una riflessione fatta sul tema della migrazione nel 2017. Da lì poi è partita una ricerca più approfondita sui quartieri e abbiamo cercato di espandere il progetto con una fondazione di comunità a Milano, che è passata attraverso il Ministero e Milano è Viva. In realtà, rispetto a quest’ultima, c’è stata una riduzione progressiva di fondi perché portava avanti una politica centrando la maggior parte delle risorse per otto festival in un unico spazio. A noi, invece, interessava lavorare sugli spazi con una flessibilità maggiore rispetto alla frontalità del palco; quindi la decisione di ricevere meno finanziamenti è stata anche e soprattutto una scelta di posizione per essere più coerenti con i luoghi e con i contesti del nostro progetto. In questo senso, credo sarebbe bello realizzare un forum di discussione culturale di co-costruzione sistemica con la politica culturale a Milano, favorendo un reale dialogo con la produzione teatrale che c’è.

Marta Bellu, I versi delle mani

Dal teatro, all’apertura del paesaggio allo spazio pubblico: il gesto dell’attraversamento dei luoghi è un moto innescato dalla pratica artistica e dal dialogo performativo delle Alleanze o è un agente che innesca? Parliamo di causa o conseguenza?

Dal mio punto di vista ci sono dei luoghi che chiamano, che hanno un loro potere magnetico che si deposita. Mi viene in mente il Parco Lambro per Body Farm, un pozzo nero in uno spazio liminale al limite del parco, di una categoria insondabile, indefinibile. Altri luoghi chiamano perché hanno iscritto dentro sé quelle pratiche e quel luogo diviene quindi l’unico spazio possibile, penso a Parco Trotter e alla Martesana rispetto al tema della danza e delle comunità che vi convergono. Cities by night è per esempio un progetto che abbiamo portato avanti l’anno scorso sull’attraversamento notturno dei luoghi da parte delle donne; nel percorso sono stati abitati spazi specifici perché quelle aree geografiche di Milano riecheggiavano le questioni che il progetto chiamava in causa, il tema della percezione del pericolo, dei varchi urbani, del femminile, delle soglie. Attraversare un luogo è quindi per noi un atto magico, uno moto di attrattività generatore di pensieri.

Incontro, condivisione, cura, ascolto ridisegnano una semantica che vuole abitare le pratiche cittadine. A che punto siamo di questa trasformazione in atto?

A Milano c’è una formidabile programmazione, ma c’è ancora una forte rappresentanza e tendenza all’ enunciazione. Di questa città, quello che temo di più credo sia proprio l’iperesposizione continua, che fa sì che non ci sia scambio né dialogo concreto. A livello di desiderio, mi piacerebbe che ci fosse maggiore ascolto, per una intersezione plurima e pulviscolare di intenti e sguardi. L’iperproduttività (interna alla vocazione liberista di Milano) allo stesso tempo crea una parcellizzazione di un potenziale che, se strutturato, può essere davvero più generativo. Penso alla creazione di progettualità condivise, ma anche alla necessità di allineamento nelle diverse parti di un progetto se preso in carico da più soggetti. Secondo me questo fa parte anche di un atto di cura nel lavoro progettuale: sottrarsi alla logica dell’evento e lavorare con radicamento maggiore nella logica del sostegno.

Andrea Gardenghi

Le Alleanze dei Corpi – Milano, 14 – 24 settembre 2023

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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