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GENDER BENDER (Lara Barsacq, Gaya de Medeiros, Michele Ifigenia)

Questa recensione fa parte di Cordelia di novembre 23

Lo storico festival bolognese Gender Bender da due decenni intercetta immaginarî culturali e performativi legati al corpo e al genere, oggi con un’intensa programmazione interdisciplinare e post-identitaria. Nel folto programma di quest’anno anche molta danza, tra cui ho visto IDA don’t cry me love di Lara Barsacq. È un lavoro ispirato alla biografia artistica di Ida Rubinstein e all’universo estetico dei Ballets Russes. Il passato qui è evocato come una memoria (anche d’inciampo: Djagilev è detto maître-de-ballet… roba da sassate), da utilizzare per ritrovare storie considerate perdute, e per simpatia generarne di nuove. Se quindi le storie personali delle interpreti, che si sovrappongono perché stimolate da quelle di Rubinstein, sono i momenti più interessanti (e autonomi), ciò che non funziona invece è proprio l’uso sommario della complessità del passato, e soprattutto della danza (di quella prima modernità), banale e piena di luoghi comuni visivi anche inverificabili. Invece, in Atlas da boca realizzato da Gaya de Medeiros insieme al danzatore Ary Zara, le proprie identità di performer transgender vengono esplorate nello spazio simbolico della bocca, affinché un intero nuovo atlante (di parole, di gesti, di situazioni) si componga e sovverta il presente anche nella nudità di un nuovo linguaggio: «i momenti in cui la bocca si irrigidisce, lasciando uscire le parole in un ruggito». E neanche i sottotitoli proiettati alle spalle dei performer riescono a catturare queste parole che si rincorrono, in perenne transizione. Infine, in Cuma di Michele Ifigenia, assolo interpretato da un’intensa e bravissima Federica D’Aversa, la sibilla cumana viene messa a nudo anche da una possessione mantica trasfigurante e irrazionale e dilaniante, e assediata da una musica elettronica che non dà tregua, alla fine virata in una apparizione video (forse corpo di un nuovo Chaos?), come un doppio di tutto-punto-vestito, forse portatore di un’assai ambigua speranza, o di un decoroso disincanto. (Stefano Tomassini)

Recensioni su Cordelia, novembre 2023

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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