Visto in prima nazionale all’Arena del Sole di Bologna (Emilia Romagna Teatro / ERT Teatro Nazionale) e ora in scena alla Triennale di Milano, il nuovo lavoro di Motus.
Che cosa non daremmo per esser stati presenti, anche solo come complementi d’arredo, a Villa Diodati sul Lago di Ginevra nel 1816, quando Lord George Byron, la sua amante Claire Clairmont, John Polidori, Percy Bysshe Shelley e la giovane moglie Mary Wollstonecraft Shelley, per ingannare la noia di piovose e buie giornate invernali, si dedicavano a inventare storie del terrore. Ne sarebbe nata l’opera capostipite di un genere, Il Vampiro di Polidori (la cui figura era poi ispirata a quella di Byron) e un’altra destinata a essere insuperabile nel panorama gotico, ma forse anche oltre: Frankenstein o il moderno Prometeo. Mary Shelley, quasi frustrata dall’apparente facilità con cui i compagni uomini creavano le proprie atmosfere, avrebbe dovuto attendere di svegliarsi, col cuore impazzito, da un orrendo incubo, per incontrare una folgorante ispirazione.
Complici i discorsi nel salotto della Villa, che spaziavano dal darwinismo al galvanismo, nasce una narrazione buia, angosciosa e labirintica, con protagonista un geniale giovane scienziato ancora affascinato dagli esperimenti negromantici dei primi alchimisti e ossessionato da uno spirito ribelle ai dogmi della dottrina creazionista. Il nuovo Prometeo, che usa la scienza empirica per derubare Dio del suo magistero, era a sua volta, si dice, ispirata all’alchimista eretico tedesco Johann Konrad Dippell: nel romanzo dato alle stampe nel 1817 dà vita a una creatura dagli occhi gialli e acquosi, fatta di pezzi di altri esseri umani, proprio quella sognata da una diciannovenne Wollstonecraft-Shelley nella fatidica notte di tempesta ginevrina. La creatura nutrirà con pazienza la propria ingenua e afasica percezione del mondo, imparando a capire, poi a parlare, poi a sperare e ad amare. E poi a uccidere, per vendicare un dolore incolmabile, una volta compreso che una qualsiasi forma di “mostruosità” non verrebbe mai accettata dalla società.
Se Frankenstein è una delle fonti più utilizzate nel gigantesco laboratorio degli adattamenti crossmediali è proprio perché la linfa che lo innerva realizza uno dei sublimi paradossi dell’arte: un’enorme complessità che può essere agilmente ricondotta alla più disarmante semplicità. In altre parole, dentro c’è davvero ogni possibile livello di lettura: si può cogliere il tema dell’amore, quello della morte, quello della religione, della scienza, dell’alterità, il pensiero ambientalista, quello spirituale, quello ateista, quello rivoluzionario, il potere che schiaccia gli ultimi e li rende cellule deficienti di un sistema incancrenito, l’urlo femminista, la violenza e la banalità del male. Ciascuno di questi elementi stanno lì e, quando si tira quell’angolo, per trascinamento rientrano tutti gli altri.
Motus (al secolo Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, da tempo legati a doppio filo anche alla presenza in scena della performer Silvia Calderoni) ha sempre dimostrato come un fatto scenico sia per necessità il campo d’indagine politica ed etica, soprattutto quando la materia drammaturgica è rimessa alla furia degli elementi che si scatena a ogni loro trattamento dei corpi sul palco, degli spazi che si fanno labirintici caleidoscopi aperti all’attraversamento, a ogni messa in campo dei media visuali e sonori che moltiplicano i piani narrativi e, appunto, generano nuove soluzioni di senso.
E allora il romanzo di Mary Wollstonecraft-Shelley è l’habitat perfetto per tornare a ragionare su molte istanze di semantica e sintassi già presenti in altri passati lavori: l’esaurimento dei vettori ordinari che comunicano i significati, il corpo che scrive su di sé una storia scevra dagli stereotipi di genere, etnia, provenienza e appartenenza, la disperata lotta per riportare a un’azione chiara ma complessa le vibrazioni interne dei ragionamenti sull’oggi, siano essi puntati a interrogare la produzione di identità, a svegliare le coscienze con schiaffi di fiera riaffermazione del sé o anche solo a produrre un happening che in tempo reale ci ricordi che siamo umani.
In questo Frankenstein (a love story) Motus recupera i propri consolidati strumenti e però tenta pure una nuova via dal punto di vista compositivo, affidando – come accade da qualche anno – la cura drammaturgica a Ilenia Caleo e riportando in scena dopo molto tempo Enrico Casagrande, qui interprete della Creatura, con accanto Silvia Calderoni-Frankenstein. Dal trattamento del romanzo si sceglie qui di dare corpo e voce anche alla scrittrice stessa (interpretata da Alexia Sarantopoulou) e di conservare gran parte della successione di eventi, non ultima la struttura, che procede per “resoconti” in cui il racconto dei fatti s’intreccia con quello dei moti interni. In questa scelta la figura dell’autrice non si limita a narrare la genesi del romanzo, ma la costella con ragionamenti che chiariscono quella che è la precisa chiave di lettura di Motus: la “dysphoria mundi” evocata da Paul B. Preciado è solo uno dei molti riferimenti visibili, per disegnare un processo al concetto stesso di specie, per riportare all’attenzione le basi di una coscienza post-umana.
La scena, fatta di un sistema di sipari, tende diafane e velatini, ospita il suggestivo e aurorale disegno luci di Theo Longuemare ed è compressa dagli ambienti sonori di Casagrande: corpo visivo e sonoro sono il piano materico che accoglie un ritmo volutamente quieto, una sorta di acquoso galleggiare delle tre figure, che portano i brani di testo in lunghi monologhi e soliloqui come se l’interlocutore/trice non siano assenti, ma piuttosto slittati in una dimensione temporale sfasata. Si ha l’impressione che il lavoro sulla percezione del pubblico – in altri casi improntato a una sollecitazione sensoriale nerboruta e nevrotica o a una disturbante nettezza dell’immagine e del movimento – sia qui votata a indurre una sensazione di freddo: è il gelo delle Alpi e del Polo Nord, dove i duellanti del romanzo fissano appuntamenti mancati, ma è soprattutto quello di una genia umana che resiste a ogni possibile modifica di “destinazione d’uso”.
Pur in un lavoro di grande cura e critica delle simbologie, come il ritorno ciclico dei mascheroni di Boris Karloff che passano di testa in testa come in un salto di specie, in questo Frankenstein si avvertono scelte non del tutto risolte nel loro potenziale, un utilizzo del testo e della sua ritmica che a tratti inibisce i corpi impedendo all’immagine di sbocciare del tutto in una vivida “pericolosità” del discorso. Allo stesso tempo si avverte il tentativo di preservare l’identità di una ricerca anche percorrendo sentieri di ordine compositivo e di rigore stilistico che certa sperimentazione degli ultimi vent’anni aveva abbandonato quasi per protesta e mai più ritrovato. A patto che questi cambi di rotta non portino artist3 e pubblico a una febbre per la storicizzazione, è ancora importante riconoscere i passi di ragionamento compiuti da precise proposte intellettuali e politiche del passato che rischiano di sparire (torna in mente il lavoro fatto da Motus in Alexis. Una tragedia greca e quello con Judith Malina in The Plot Is the Revolution), soprattutto se si riesce a connetterle con gli aggiornamenti e gli emendamenti di cui la società di oggi ha sempre più bisogno. Per riconoscersi, nel credersi scienziati o creature, parti attive nella realizzazione di un “monstrum”, che in latino, prima che “mostro”, significa innanzitutto prodigio, evento straordinario, presagio.
Sergio Lo Gatto
Novembre, Teatro Arena del Sole, Bologna
Frankenstein (a love story)
ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Alexia Sarantopoulou, ed Enrico Casagrande
drammaturgia Ilenia Caleo
adattamento e cura dei sottotitoli Daniela Nicolò
traduzione Ilaria Patano
assistenza alla regia Eduard Popescu
disegno luci Theo Longuemare
ambienti sonori Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
grafica Federico Magli
video Vladimir Bertozzi
produzione Francesca Raimondi
organizzazione e logistica Shaila Chenet e Matilde Morri
comunicazione Dea Vodopi
promozione Ilaria Depari
distribuzione internazionale Lisa Gilardino
ufficio stampa comunicattive.it
una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Festival delle Colline Torinesi, Kunstencentrum VIERNULVIER (BE) e Kampnagel (DE), residenze artistiche ospitate da AMAT, Santarcangelo Festival, Teatro Galli-Rimini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”, Rimi-Imir (NO) e Berner Fachhochschule (CH), con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna.
L’abito di Mary Shelley fu disegnato e indossato da Fiorenza Menni nello spettacolo “L’Idealista Magico”.