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DIARIO DI LINA (di Teatrodilina)

Questa recensione fa parte di Cordelia di novembre 23

Non ho mai avuto un cane, quindi non sarà lui ad accogliermi quando arriverò in Paradiso, lo faranno i miei due gatti, se lo vorranno. Accoglienza nell’aldilà immaginata da Anna (Bellato) Francesco (Colella) e Leonardo (Maddalena) nell’aldiqua di Diario di Lina, un momento di riordino del tempo, degli anni passati e di quelli che verranno, in cui la compagnia Teatrodilina, tramite l’espediente meta teatrale delle prove, rappresenta l’impossibilità di impegnarsi nel fare la memoria del prossimo spettacolo lasciando spazio invece a discorsi sul tip-tap, su cani “robots” e acqua da bere per idratarsi. Sulle gradinate della platea del Teatro Argot Studio, con il pubblico che occupa quello che di solito è il palcoscenico, si muovono i due attori e l’attrice; sembra lo facciano sulle stanghette, righe, di un pentagramma immaginario in cui la musica e i suoni di vita si inseriscono nelle parole. Parole come “solitudine”, “paura”, “fame”, “sogno”, “amore” che esprimono l’inafferrabilità delle emozioni che seguono un lutto, in questo caso quello di Lina, la cagnetta simbolo della compagnia. La perdita, quel buio dell’oblio di una presenza quotidiana che non c’è più rende brillante, visibilissimo, il presente che scorre: la nascita di una bambina, portata in grembo da Anna, Mario che non si fa più sentire, il teatro che esiste sì ma che fatica ad essere, perché avrebbe bisogno di maggiore continuità, sicurezza, prospettiva, costruzione… Temi espressi alla rinfusa, senza un ordine preciso, è vero, ma perché sciolti in una drammaturgia sull’esperienza del lasciare andare, quando cerchiamo di verbalizzare, caoticamente, tutti quegli indici di cambiamento che stanno già avvenendo dentro e fuori di noi mentre l’inerzia della precarietà vorrebbe fermarli, avvolgerli e riavvolgerli. L’applauso per l’ultima replica testimonia tutta l’accoglienza per una compagnia le cui storie arrivano dentro i nostri vuoti e li colmano: non solo per il pubblico più affezionato ma anche per quello nuovo e giovane, che si ferma a parlare entusiasta a fine spettacolo. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Argot Studio: con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, luci Martin E. Palma, organizzazione Regina Piperno, scritto e diretto da Francesco Lagi, una produzione Teatrodilina in collaborazione con DOG

Recensioni su Cordelia, novembre 2023

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

2 COMMENTS

  1. Carissima Lucia, apprezzo da tempo le sue recensioni, l’eleganza e la competenza del suo argomentare. Qui però, mi si permetta, mi trovo in disaccordo: tanto avevo apprezzato la delicatezza di tratto, il “non detto”, i rossori e i timori del recente “Meno di due”, tanto questo spettacolo, per me carico di attese, si è sgonfiato come un palloncino bucato dopo poche battute. Il teatro senza testo, senza accadimenti, fatto di afasie, gesti, tic, ripetizioni, è uno schema abusato, a mio parere, che ammanta di grazie e levità una sostanziale povertà di idee o, se preferisce, il reiterarsi di stilemi e abitudini minimaliste che, alla lunga, fanno rimpiangere le strutture drammaturgiche classiche e moderne. E non si paragoni Lagi a Cechov (ho sentito anche questo…) con la giustificazione che in entrambi gli autori in scena non succede assolutamente niente: qui il niente non mi pare funzionale a più articolati disegni intimisti ma semplicemente strutturale.Non bastano tre interpreti eccezionali, perfetti nel loro passarsi la palla senza mai farla cadere nè “schiacciare”, affiatati ed appropriati come pochi, per sconfiggere quel vago senso di indeterminatezza che mi ha accolto nel cortile dell’Argot a fine replica quando mi sono chiesto, sorpreso, cosa mai avessi visto in scena e se ne fosse valsa la pena… ma mi piacerebbe conoscere il suo parere in proposito.

    • Caro Paolo, la ringrazio per due motivi: il primo per la costanza con cui segue le nostre pubblicazioni, il secondo perché questo commento – garbato e dialogico – mi permette di ampliare la recensione attraverso un punto di vista antitetico al mio ma capace di elaborare una sintesi tra sguardi contrastanti. Mi auguro sempre che i nostri pezzi non vengano mai presi come assunti unici sugli spettacoli ma come frutto di una visione, semmai più impratichita, ma comunque parziale. Dunque, pur non condividendo il suo parere, soprattutto quando specifica “qui il niente non mi pare funzionale a più articolati disegni intimisti ma semplicemente strutturale”, credo tuttavia che la sua possa essere una restituzione condivisa da alcuni spettatori e spettatrici. Trovo che il modo degli attori e dell’attrice di “passarsi la palla”, per citarla, sia quel tutto che accade e che lascia intendere quella dimensione di spaesamento che si ha mentre si perde qualcosa del passato e si tende verso il futuro. E in virtù di questo, credo anche che quel suo “vago senso di indeterminatezza” non sia totalmente uno stato d’animo negativo, anzi, lo definirei coerente con quello raccontato dallo spettacolo. Grazie ancora e, direi, a presto con un altro scambio! Lucia

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