| Cordelia | novembre 2023
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di giugno è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#NAPOLI
VANISHING PLACE (di Luna Cenere)
Luna Cenere ha avuto l’ottima intuizione, semplice ed efficace, di lavorare per principio di sottrazione: fermarsi alla sola idea che il corpo basti da sé. Nient’altro che l’esserci. Niente di innovativo, ovvio, ma questo non è una manchevolezza perché lì dove l’apparato drammaturgico si asciuga, c’è la capacità immaginativa della coreografa che riesce a comunicare immediatamente con quella del pubblico. Cinque corpi esistono in uno spazio nullo e accessorio al movimento estenuante e icastico; l’aria è attraversata da morbide luci direzionate sui muscoli per disegnare la tensione o il riposo, in un’atmosfera aurorale ed embrionale. Alcuni appaiono con il collo gravato dal peso di un grosso parallelepipedo che trascinano con fatica, qualcun’altro è libero di estendersi e di sperimentare la mobilità di ogni pezzo di sé per poi cristallizzarsi. Dietro una schiera di monoliti bianchi, le masse appaiono e spariscono in un gioco di illusioni e mescolamenti; infine l’individuo, come generato, si espone da solo e gira per lo spazio, ma poi ritorna tra le masse finché un altro individuo non prende forma compiuta e si espone a sua volta. «In alcuni momenti ho visto le pitture del Masaccio, avrò visto bene?», è un’accompagnatrice a chiedere. In effetti, per quanto sia supposta un’influenza surreale e minimal (forse è questo l’unico aspetto decisamente agée), l’intero lavoro è in realtà la composizione di un’enorme memoria immaginifica che corre nei tempi. Dalla scultura egizia del XIII secolo a.C o quella della terra di Gandhāra del IV a.C., a Masaccio o Michelangelo, alle fotografie di Muybridge, alla videoarte e persino a videoclip musicali. È quella felice idea di lasciare che l’espressione della sola plasticità del corpo abbia pieno compimento; è da sempre, questo, un lavoro di astrazione estremamente comunicativo ed emotivo. In tempi in cui ci si arrocca nella propria minuscola visione dell’esistenza, è un’occasione preziosa sentire che esiste un’unica intelligenza sensibile. Basta guardare.
Visto a Teatro San Ferdinando, Napoli; Crediti: Coreografia e concetto Luna Cenere; Con Marina Bertoni, Francesca La Stella, Ilaria Quaglia, Davide Tagliavini, Luca Zanni; Disegno luci Giulia Broggi; Musiche Renato Grieco; Spazio scenico Raffaele Di Florio; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Körper – Centro di produzione Nazionale della Danza, La Biennale di Venezia con il sostegno di Hessisches Staatballet, Agora de la danse – résidences de création croisées en danse entre l’Italie et le Québec with CINARS and NID Platform, CID – Centro internazionale della Danza, MIC – Direzione Generale Spettacolo, Istituto Italiano di Cultura – Colonia e Istituto Italiano di Cultura – Montrea
#ROMA
DIARIO DI LINA (di Teatrodilina)
Non ho mai avuto un cane, quindi non sarà lui ad accogliermi quando arriverò in Paradiso, lo faranno i miei due gatti, se lo vorranno. Accoglienza nell’aldilà immaginata da Anna (Bellato) Francesco (Colella) e Leonardo (Maddalena) nell’aldiqua di Diario di Lina, un momento di riordino del tempo, degli anni passati e di quelli che verranno, in cui la compagnia Teatrodilina, tramite l’espediente meta teatrale delle prove, rappresenta l’impossibilità di impegnarsi nel fare la memoria del prossimo spettacolo lasciando spazio invece a discorsi sul tip-tap, su cani “robots” e acqua da bere per idratarsi. Sulle gradinate della platea del Teatro Argot Studio, con il pubblico che occupa quello che di solito è il palcoscenico, si muovono i due attori e l’attrice; sembra lo facciano sulle stanghette, righe, di un pentagramma immaginario in cui la musica e i suoni di vita si inseriscono nelle parole. Parole come “solitudine”, “paura”, “fame”, “sogno”, “amore” che esprimono l’inafferrabilità delle emozioni che seguono un lutto, in questo caso quello di Lina, la cagnetta simbolo della compagnia. La perdita, quel buio dell’oblio di una presenza quotidiana che non c’è più rende brillante, visibilissimo, il presente che scorre: la nascita di una bambina, portata in grembo da Anna, Mario che non si fa più sentire, il teatro che esiste sì ma che fatica ad essere, perché avrebbe bisogno di maggiore continuità, sicurezza, prospettiva, costruzione… Temi espressi alla rinfusa, senza un ordine preciso, è vero, ma perché sciolti in una drammaturgia sull’esperienza del lasciare andare, quando cerchiamo di verbalizzare, caoticamente, tutti quegli indici di cambiamento che stanno già avvenendo dentro e fuori di noi mentre l’inerzia della precarietà vorrebbe fermarli, avvolgerli e riavvolgerli. L’applauso per l’ultima replica testimonia tutta l’accoglienza per una compagnia le cui storie arrivano dentro i nostri vuoti e li colmano: non solo per il pubblico più affezionato ma anche per quello nuovo e giovane, che si ferma a parlare entusiasta a fine spettacolo. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Argot Studio: con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, luci Martin E. Palma, organizzazione Regina Piperno, scritto e diretto da Francesco Lagi, una produzione Teatrodilina in collaborazione con DOG
FRAGILE SHOW (Biancofango)
Il costume è lo stesso di quattordici anni fa, è «riuscito a entrarci» mi dice, sorridendo, Francesca Macrì prima di accompagnarmi nel retro palco del Teatro Basilica, dove sono allestiti i camerini. Andrea Trapani ha appena finito di togliersi via il sudore come dopo un esercizio fisico totalizzante. Fragile Show d'altronde è questo, andrebbero calcolate le calorie bruciate nell’ora di follia in cui il corpo e la mente sono connesse al massimo del potenziale recitativo, con un obiettivo, trasformare la presenza scenica in musica. Trapani mi spiega che la difficoltà maggiore è stata proprio quella di ricercare l'energia, la spinta di tanti anni fa quando non solo il corpo era diverso ma anche l'approccio d’attore, di giovane interprete. Biancofango ha riallestito uno dei suoi gioielli della Trilogia dell'inettitudine, opera per un solo attore e plurime voci e presenze, nata in un'altra Roma, quella della scena indipendente e delle sale teatrali nei centri occupati. Il lavoro ancora emoziona e colpisce, Macrì ha rivisto la drammaturgia e lo spazio scenico precisandolo in una circonferenza bianca, invece della vecchia panchina c'è il sedile del pianista. Folgorante, anche oggi, l’idea di fondo: prendere Il soccombente di Thomas Bernhardt e calarlo in una realtà italiana di personaggi schizzati, caricature abominevoli senza empatia, tra Firenze e Milano. Al centro lui, un musicista, rimasto nascosto dietro l’ombra troppo grande del canadese Glenn Gould e quella voglia di rivalsa che sfocia in una bizzarra festa in cui invitare vecchi amici e compagni di scuola per umiliare e umiliarsi. Il resto lo fa Trapani con una sorprendente cavalcata dentro e fuori i personaggi, in una polifonia interpretativa unica per qualità energetiche, ironia e musicalità. La mano destra è quella che non sta mai ferma, tiene il tempo su una tastiera immaginaria; è una delle cose che più mi colpì in una replica che vidi nel 2015, al Teatro Orologio, l'ho ritrovata qui come segno tangibile di un'artigianato in cui lo strumento e la creazione sono la stessa cosa, il corpo umano. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica. Con debiti e gratitudine a Il soccombente di T. Bernhard drammaturgia e regia Francesca Macrì e Andrea Trapani con Andrea Trapani costumi di scena Isabella Faggiano disegno luci Mirco Maria Coletti
LEVIATANO (di Riccardo Tabilio, Regia Marco Di Stefano)
Cominciamo dal titolo, il Leviatano, è quello del romanzo di Paul Auster del ‘92, il cui protagonista si scatena proprio contro lo Stato, il mostro di Hobbes. E d’altronde anche il personaggio principale della storia reale ripresa da Tabilio è qualcuno che vuole opporre la propria piccola rivoluzione agli ingranaggi del sistema. Siamo a Pittsburgh e un anonimo disoccupato rapina due banche nel giro di pochi giorni, ma la questione non riguarda solo il movente, l’interrogativo si focalizza su come faccia ad essere così sicuro di sé senza avere nessuna esperienza. Qui entrano in gioco due studiosi, un professore universitario e un brillante dottorando, sono i due dell’effetto Dunning-Kruger, quella dispercezione per cui alcuni tendono a sovrastimare la propria preparazione in un campo in cui hanno pochissime nozioni. Ci sono detective, testimoni strafatti, poliziotti zelanti, impiegati di banca che finalmente si sentono al centro del mondo, gli Stati Uniti dei Nineties un po’ da fumetto assurdo e scombinato. Con un finale, tanto comico quanto delirante, in cui viene svelata l’idiozia suprema, ovvero il motivo per il quale il criminale amatoriale credeva di poterla fare franca. Se il meccanismo drammaturgico è funzionale al racconto e allo show, così come l’alternanza di quadri teatrali a grandi classici del pop rock anni ‘90 suonati dal vivo, ciò che perplime è l’inquadratura dello spettacolo nella solita cornice metateatrale, con tanto di battutine e gag interne alla compagnia di cui lo spettacolo non avrebbe bisogno. Pulizia e maggior rigore gioverebbero all’impianto complessivo. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Altrove Teatro Studio. Di Riccardo Tabilio con Giulio Forges Davanzati, Alessia Sorbello, Andrea Trovato assistente alla regia Cristina Campochiaro scenografie video Antonio Simone Giansanti preparazione musicale a cura del M° Attilio Costa disegno luci Enzo Biscardi dramaturg Chiara Boscaro regia, scene e costumi Marco Di Stefano SPETTACOLO VINCITORE DEL BANDO NdN 2020-2021 Coproduzione Network NdN, Teatro Libero Palermo, Fondazione Atlantide Teatro Stabile di Verona, Centro Teatrale MaMiMò Col supporto di TRAC – Centro di residenza teatrale Pugliese, AterlierSì e Dracma – Centro sperimentale di arti sceniche. Realizzato da Compagnia Carmentalia e La Confraternita del Chianti
#REGGIO EMILIA
DEUX MILLE VINGT TROIS (Maguy Marin)
90 minuti di antiteatro. 90 minuti di fine del teatro. È questa scelta radicale per il nulla, che lascia impietriti al termine del nuovo lavoro di Maguy Marin. Visto al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia, come parte del progetto Maguy Marin. La passione dei possibili ideato dal Reggio Parma Festival, dal titolo Deux Mille Vingt Trois. È l’anno (fra i tanti) della nostra fine (fra le tante). 90 minuti di cronaca sulle schifezze, gli intrallazzi, le anomalie dei grandi capitalisti del mondo, sempre sorridenti e vincenti, e sulla costruzione del consenso. All’inizio c’è un muro, ogni mattone ha inciso in grande un nome di questi gentiluomini (c’è pure Berlusconi, e Trump, e Musk...). Il muro cade nel fracasso più ovvio, e ce lo aspettavamo un po’ tutti, quindi parte questa docu-performance che una qualsiasi trasmissione televisiva avrebbe fatto meglio. Qui però deve andare così. Nulla accade se non questa denuncia monotona (sono tutti fermi e leggono ai microfoni), alternata a fastidiosissime sequenze di rumori, sempre uguali, che accompagnano un passaggio a proscenio di un onnagata di Kabuki, agghindato con un ventaglio formato da soldi e in testa, di volta in volta, tutto ciò che meglio li rappresentano (barche lussuose, aeri privati etc.). Non deve far ridere. Dovrebbe, credo, raggelare. Unica emersione possibile, qui, in questa totale negazione del teatro è infatti quella del grottesco. Tutto disturba. In pochi se ne vanno, durante lo spettacolo. Altri disapprovano, al termine, durante gli applausi. Dietro il fastidio: l’indecifrabile. Anche se in scena, dopo la caduta del muro, non si muove niente o quasi, per 90 lunghissimi minuti. Giovanni, che di teatro politico ne ha visto, mi aveva allertato. Valeria, decana della critica teatrale, al termine è furiosa, mi scrive su whatsapp parole di fuoco per tutta la vuota retorica che ha sentito (e subìto). Silvia, un’attrice splendida e conoscenza di vecchia data, mi attende al varco nel foyer: sono un po’ bastian contrario, cerco allora di argomentare, di difendere l’operazione. Lei è troppo gentile e affettuosa per contraddirmi. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Cavallerizza Progetto "La passione dei possibili" Ideazione Maguy Marin in stretta collaborazione con Kostia Chaix, Kaïs Chouibi, Chandra Grangean, Lisa Martinez, Alaïs Marzouvanlian, Lise Messina, Rolando Rocha Luci Alexandre Béneteaud
#ROMA
L’AVARO IMMAGINARIO (di Enzo Decaro)
Il successo di Molière in Italia è cosa nota, già nel Seicento apparivano le prime traduzioni, come d’altronde non sono mancate le relazioni tra il celebre drammaturgo figlio di un tappezziere di corte e i comici della Commedia dell’Arte. Assume allora un fascino storico questo spettacolo ideato da Enzo Decaro per la Compagnia Luigi De Filippo, L’Avaro immaginario. E dal titolo già si capisce quanto il protagonista, uno sfortunato capocomico campano, sia ossessionato dall’autore francese. Siamo appunto nel Seicento, gli anni Settanta, quelli della morte di Molière. La compagnia dei comici della famiglia Bruno è in viaggio con l’obiettivo di conoscere il mito della commedia moderna. Le scene di Luigi Ferrigno sono occupate da un vero e proprio gioiello di artigianato teatrale: un carretto in legno, con tanto di ruote, ante che si aprono e chiudono, oltre le quali si possono notare i costumi, le cianfrusaglie e le maschere della compagnia guidata da Oreste Bruno. Un piccolo gruppo di attori e attrici imparentati che oltre a portare sulle spalle l’affamata tradizione dei teatranti scavalcamontagne hanno a che fare con un cognome altisonante, sono i nipoti di Giordano Bruno, mandato al rogo proprio nel 1600, anch’egli originario di Nola. C’è la fame come spettro quotidiano,” ‘O puorc” che lentamente finisce, l’arrivo in una piazza durante il mercato che non sortisce un guadagno in denaro ma alcune razioni di cibo, l’incontro con una cartomante, le canzoni popolari e le dispute interne proprio sull’opportunità di ricordare lo zio martire, e tutte le lettere spedite proprio a Molière nelle quali raccontare anche di un amato cavallo che muore per salvare la compagnia dalla fame. Torna in mente quel meraviglioso film di Ariane Mnouchkine, dedicato a Jean-Baptiste Poquelin: anche qui vita e teatro coincidono in un viaggio unico, commovente e spietato, nel quale l’utopia incarnata da Molière svanisce di fronte alla morte naturale del mito; ma il teatro resiste per continuare il proprio viaggio. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Parioli, Crediti: tratto da Molière/Luigi De Filippo adattamento e regia di Enzo Decaro con Enzo Decaro e con NUNZIA SCHIANO e con La Compagnia Luigi De Filippo (in o.a.) Luigi Bignone, Carlo Di Maio, Massimo Pagano, Giorgio Pinto, Fabiana Russo, Ingrid Sansone musiche Nino Rota (da “Le Molière Immaginarie”) musiche di scena ispirate a villanelle e canzoni popolari del 600’napoletano scene Luigi Ferrigno
HellO° (di Kinkaleri)
Il tragico è insito già nel titolo, quel “Hell” che si stacca graficamente dalla “O”, grande, tonda e totale. La preposizione tragica che anticipa, forse, il nome: “O” come OtellO, ultimo lavoro di Kinkaleri da cui nasce HellO°, una «costola» come la definisce il collettivo, una scrittura corpocentrica che dà parola alla fisicità, nuda, di Michele Scappa, presentata a Largo Venue durante Interazioni Festival - Ctonia, a cura di Chiasma, la cui maggior parte degli eventi sono a ingresso gratuito. Un assolo assoluto in cui la scena è costruita dall’interprete facendo srotolare tappeti riflettenti, usando oggetti come una mazza, due palloni, e indossando una maglietta in cui campeggia la scritta “Mondo”. A comparire sin dall’inizio, e poi spostata di lato, la W del progetto di scultura urbana di Kinkaleri, di cui si aspettano, ancora, notizie in quel di Bologna. Il mondo è quindi costruito dal corpo umano, homo faber della sua fortuna ma anche sfortuna; Kinkaleri scrive nelle note: «in questo periodo storico, ancor prima che la pandemia la immettesse nel nostro immaginario, si stava già insinuando un’idea di perdita e di sostituzione dell’esperienza del vivente tramite la scrittura di un codice che potesse sostituirlo, surrogarlo, ampliarlo ma anche sottometterlo. Ci siamo dedicati perciò a un’idea di cura e di protezione di questo unico corpo». Questa tutela del corpo in via di estinzione è traslata in una dimensione di perfezione estetica portata alla sua estrema vividezza; del gesto del danzatore è possibile osservarne tanto la plasticità inscalfita e marmorea, quanto la sua precarietà fragile ed esposta, che è bellezza proprio per l’antinomia di cui essa è composta. Nella supremazia della fisicità statuaria, nelle braccia e gambe che come vettori disegnano una circonferenza tutta intorno, si palesa infatti l’unicità in cui è insita la moltitudine; un Vitruvio del XXI secolo che, nonostante utilizzi oggetti riconducibili al maschio (la mazza da Baseball, i palloni da calcio) e sia biologicamente uomo, non mascolinizza tuttavia il discorso sulla centralità del corpo, espressione di umanità onnicomprensiva, ma sola e solitaria in un orizzonte rarefatto e incerto. (Lucia Medri)
Visto a Largo Venue durante Interazioni Festival - Ctonia: progetto / realizzazione Kinkaleri / Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco con Michele Scappa, musica Canedicoda, produzione Kinkaleri / KLM – 2022/2023 con il sostegno di MIC- Regione Toscana
A VOLTE MARIA, A VOLTE LA PIOGGIA (di Daniele Parisi)
Daniele Parisi è tra i più sottovalutati autori e attori italiani. Anzi, è proprio questa qualità dell’essere attore e avere una coscienza del racconto scenico che ne fa un autore guidato da una sapienza artigiana della parola, quella che serve senza eccedere, quella che esprime la ricchezza della narrazione e la pone a confronto della vita reale. Al debutto con il suo ultimo monologo, dal titolo magnifico A volte Maria, a volte la pioggia, l’attore romano si conferma capace di profondità con pochi elementi, niente più che una sedia rossa e una postazione microfonica dotata di una loop station; al resto pensa la sua capacità immaginativa, quella virtù dell’evocare in presenza ciò che è assente, personaggi e pensieri altrui che vivono guidati da una rara delicatezza; è come se Parisi, nel convocare sé stesso e gli altri personaggi di una vicenda, ogni volta che raggiungono la scena li accarezzasse per farli sentire a proprio agio, come tenesse a loro perché ormai, di carne o solo di parola, della sua vita fanno parte. Si tratta di due monologhi in uno: a cena in campagna dove si è trasferito Maurizio, prima di una viaggio di ritorno in auto funestato dalla pioggia; in dialogo con Maria, per porre in luce quel che non va nel loro rapporto, quella illusione di conoscersi e poi invece dover ammettere in maniera schiacciante la propria reciproca estraneità. Le due storie, che confluiscono per brevi segmenti e lasciano intravedere una continuità parallela, sono intervallate da piccole creazioni musicali attraverso la loop station, campionando vocalizzi appena prodotti al microfono per sovrapporvi suoni e creare un tappeto alla narrazione; ai tratti comici che evidenziano certe storture dell’esistenza, come quella fissa di cercare un centro alla vita, fanno seguito riflessioni profonde che virano al tragico, come quella sulla genitorialità, sull’imbarazzo di dover trasmettere qualcosa e il disagio delle scelte, l’inadeguatezza e le piccole e grandi incongruenze della vita di ognuno, espresse dalle parole di uno. Che, lo ripeto perché si ricordi meglio, si chiama Daniele Parisi. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: di e con Daniele Parisi
MELLOWING (di Christos Papadopoulos)
È remoto il tempo in cui la danza era (solo) quella studiata sui libri. Estinto pare pure – ed è una fortuna – quello in cui la coreografia contemporanea sentiva il continuo bisogno di prendersi gioco dei codici della convenzione per dimostrare, fuor di maschera, come il termine “danza” possa e debba essere assegnato a ogni minimo cogitare sul corpo in movimento. C’è ora una danza dell’immobilità e della reiterazione, della stasi e della frenesia, del barocco e del minimalismo, dell’espressione e della totale afasia, del frammento e della durata. Mellowing, in prima nazionale a REf 2023, è una coreografia curata da Christos Papadopoulos per la compagnia berlinese Dance On Ensemble, composta da interpreti over 40. La partitura dell’artista greco appare come un vero e proprio esperimento sulle possibilità di attenzione e concentrazione del corpo umano in rapporto al movimento d’insieme e alle gabbie ritmiche di un chirurgico paesaggio sonoro, curato dal compositore italo-greco Coti K. Uno alla volta, undici danzatori popolano lo spazio bianco e lavorano sul gesto della vibrazione, sullo spostamento del peso, su impercettibili slittamenti della colonna vertebrale, sul trasferimento di energia da uno snodo all’altro delle articolazioni. Se in principio il risultato è simile alla stasi, quel che man mano si costruisce è una pratica di movimento collettiva che, da un lato, segue il metronomo inesorabile del suono, dall’altro si nutre dell’ascolto reciproco tra gli interpreti. Un’onda di progressiva entità coinvolge il singolo, la sezione e a tratti l’intero corpo di ballo disegnando segmenti di unisono e brevi “soli” in cui un interprete arabesca sul motivo tenuto vivo dagli altri. La massa di impulsi muscolari monta e cede volume, si gonfia e si sgonfia di fronte allo sguardo dello spettatore che è, in ultima analisi, necessario completamento di una composizione coreografica astratta e concettuale, una sorta di “borghesia del gesto” e dell’età atletica che distilla un’affascinante linfa vitale da un’atmosfera assolutamente glaciale. (Sergio Lo Gatto)
Visto all'Auditorium, Romaeuropa Festival. COREOGRAFIA Christos Papadopoulos DIREZIONE ARTISTICA DANCE ON ENSEMBLE Ty Boomershine PERFORME Dance On Ensemble Javier Arozena, Alba Barral Fernández, Ty Boomershine, Anna Herrmann,Emma Lewis, Miki Orihara, Tim Persent, Jone San Martin, Marco Volta, Lia Witjes Poole Guest Georgios Kotsifakis ASSISTENTE ALLA COREGRAFIA Georgios Kotsifakis MUSICA Coti K LUCI Eliza Alexandropoulou COSTUMI Werkstattkollektiv DIRETTORE TECNICA E LUCI IN TOUR Martin Beeretz TECNICO DEL SUONO IN TOUR Mattef Kuhlmey DIRETTORE DI PRODUZIONE Hélène Philippot COLLABORATORE ALLE PRODUIZONE/TOURING Anastasia Luck International Distributio Fauves – Agency for the Performing Arts
NINA (Fanny & Alexander)
Quello dei ritratti mimetici di Fanny & Alexander è un progetto che ha tratto visibilità grazie al grande successo di Se questo è Levi, vincitore di due Premi Ubu e ancora in vasta distribuzione dal 2018. Ma si può individuare il battesimo nel bizzarro To Be or Not To Be Roger Bernat, quando una conferenza su Amleto era il pretesto per l’inquietante sprofondare nella biografia e nella fisionomia dell’avatar di una persona realmente esistente, distante ma presente. C’è stato Manson, dove il pubblico interroga, post-mortem, il supercriminale, il quale risponde seguendo la traccia delle molte interviste rilasciate in vita. E però, ancora più indietro, c’è tutto il sopraffino lavoro sull’eterodirezione, ormai metodologia immancabile nel lavoro di Luigi De Angelis e Chiara Lagani, che manda nelle orecchie degli/delle interpreti tracce vocali delle voci originali, sperimentando una radicale via altra a metà tra mimesi, possessione e un teatro di figura esistenziale à la Kantor. Non si può prescindere da questa piccola storia (ancora in divenire) se si vuol comprendere che cosa accade in Nina, in prima assoluta a REf 23, in cui la splendida Claron McFadden (agiva anche in The Garden) veste i panni, le movenze e la voce di Miss Nina Simone, profeta della protest song statunitense e sacerdotessa della lotta di classe degli afroamericani. In un “concerto impossibile” tra inglese e italiano, parlato e cantato, Nina apostrofa il pubblico da una sorta di Aldilà. La «creazione musicale» è firmata da Damiano Meacci che realizza, con una sorprendente spazializzazione, un paesaggio sonoro ellittico: la sezione ritmica è quasi esclusa e la voce insegue un grumo di frequenze che va su e giù di volume, eseguendo, diretta in cuffia, un vero e proprio esperimento negromantico. È possibile rivedere in scena personaggi che non ci sono più? Sì, se quei personaggi hanno lasciato sufficienti documenti del proprio passaggio sulla Terra. E se Fanny & Alexander vede in loro un possibile lascito della storia di tutte e tutti noi. (Sergio Lo Gatto)
Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival. Performer Claron McFadden Ideazione, regia e luci Luigi De Angelis Drammaturgia e costumi Chiara LaganiCreazione musicale Claron McFadden, Damiano MeacciMusica elettronica e sound design Damiano Meacci Fotografia Enrico Fedrigoli Coaching Andrea Argentieri
#FINALE LIGURE
IL GRANDE RACCONTO DEL LABIRINTO (regia Sergio Maifredi)
Nell’epoca contemporanea il classico si offre a letture di ogni genere, rivisitazioni in chiave occasionale, legate a fatti recenti in cui rintracciare il seme originario dell’opera. Ma c’è un’altra pratica contemporanea che solo i classici riescono a offrire: un viaggio all’interno dello stesso mito più e più volte abitato da diversi artisti, scrittori prima registi poi, che ne hanno scandito letture diverse e ogni volta capaci di ravvivarne la profondità. È questo il caso, tra tanti, di Sergio Maifredi che ha evidenziato i caratteri del mito di Teseo attraverso Il grande racconto del labirinto, che rinnova Euripide e Seneca, Ovidio e Gide fino a Borges, perché di ognuno sia conservato il passaggio all’interno della narrazione mitologica. Maifredi, direttore del Teatro Pubblico Ligure, ha prima di tutto il merito politico di aver portato il teatro nei siti archeologici della Liguria, durante l’estate, ossia dove ci si aspetta ci sia nient’altro che il turismo. Ma il merito si trasforma presto in artistico, dirigendo la drammaturgia di Giorgio Ieranò attraverso i frammenti che fanno rivivere Arianna, Teseo, il Minotauro, Europa, Pasifae e Fedra, nella viva voce di un’attrice straordinaria del nostro teatro: Arianna Scommegna, che scava la memoria di antichi racconti con profondità dei concetti e levità della lingua; la musica poi, in scena per fiati e percussioni di Edmondo Romano, profonde un’atmosfera penetrante, possente. Il volo delle parole di Scommegna evoca timbri e intenzioni diverse per dare voce a quanto emerge dai diversi punti di osservazione dello stesso mito, è come se ogni personaggio avesse in cuore un personale labirinto dal quale districarsi: Arianna dolorosa e ingenua, Europa che sembra sorpresa, Pasifae rivendica la propria sofferenza, mentre Teseo è risoluto e cinico, ma in fondo a tutto è Fedra, smarrita, inconsolata e prigioniera, che incarna quasi un canto finale, a chiudere una spirale di colpi inestinguibili che il mapdre del mito, il Tempo, rende eterne. (Simone Nebbia)
Visto a Forte San Giovanni, Finale Ligure (SV). Crediti: Drammaturgia di Giorgio Ieranò, con Arianna Scommegna; regia Sergio Maifredi; musiche scritte ed eseguite dal vivo da Edmondo Romano, produzione Teatro Pubblico Ligure.
#BOLOGNA
GENDER BENDER (Daniele Ninarello, Oona Doherty)
A Gender Bender, un’intera comunità bolognese legata al progetto europeo Performing Gender – Dancing In Your Shoes si è messa al servizio di Daniele Ninarello, per una creazione condivisa dal titolo Crowded Bodies. «Un live-collage» (è la felice espressione che la definisce) di persone di diverse età ed esperienza di danza, per un gioco sottile di ascolto e condivisione capace di preservare le identità di ognuno, mentre si genera una comunità. L’arrivo cadenzato in scena e il lungo avvio fatto anche di stasi piene di presenza e intese fra i corpi nel massimo candore, è scandito da parole tratte da The Philosophies of Asia di Alan Watts (2016). Ma è naturalmente la progressiva occupazione dello spazio e dell’azione in un liberatorio catwalking a proscenio a contagiare gli sguardi di tutti. In chiusura, il festival ha ospitato Hope Hunt and the Ascension Into Lazarus di Oona Doherty, un assolo nel corpo della straordinaria danzatrice francese Sati Veyrunes, letteralmente caduta dal bagagliaio di una macchina che romba fuori dal TPO. Va così in scena, prima tra gli astanti all’esterno poi (dopo aver gridato loro di entrare, appoggiata all’auto e a pugni alzati) nello spazio interno della performance, una figura aggressiva e destinata continuamente a barcollare e cadere e inciampare, in mezzo agli stereotipi della maschilità più tossica e misogina «della classe operaia irlandese». Ed è davvero una performance straordinaria, fatta di voce e di corpo, capace di rivelare nella disperata violenza appresa (e subita) nei gesti condivisi, nella rabbia senza causa, nei tic nervosi, nel sudore della fronte sempre aggrottata, nelle posture storte e acide, nelle paure dissimulate e nella spavalderia più esplosiva e fastidiosa, una vita che chiede alla fine solo amore. Il titolo infatti dice tutto: si tratta di una caccia alla speranza nel ritorno di Lazzaro. Alla fine, infatti, resta a terra un corpo completamente vestito di bianco che espone in un capitolato candore tutta la sua radicale vulnerabilità. (Stefano Tomassini)
GENDER BENDER (Lara Barsacq, Gaya de Medeiros, Michele Ifigenia)
Lo storico festival bolognese Gender Bender da due decenni intercetta immaginarî culturali e performativi legati al corpo e al genere, oggi con un’intensa programmazione interdisciplinare e post-identitaria. Nel folto programma di quest’anno anche molta danza, tra cui ho visto IDA don’t cry me love di Lara Barsacq. È un lavoro ispirato alla biografia artistica di Ida Rubinstein e all’universo estetico dei Ballets Russes. Il passato qui è evocato come una memoria (anche d’inciampo: Djagilev è detto maître-de-ballet... roba da sassate), da utilizzare per ritrovare storie considerate perdute, e per simpatia generarne di nuove. Se quindi le storie personali delle interpreti, che si sovrappongono perché stimolate da quelle di Rubinstein, sono i momenti più interessanti (e autonomi), ciò che non funziona invece è proprio l’uso sommario della complessità del passato, e soprattutto della danza (di quella prima modernità), banale e piena di luoghi comuni visivi anche inverificabili. Invece, in Atlas da boca realizzato da Gaya de Medeiros insieme al danzatore Ary Zara, le proprie identità di performer transgender vengono esplorate nello spazio simbolico della bocca, affinché un intero nuovo atlante (di parole, di gesti, di situazioni) si componga e sovverta il presente anche nella nudità di un nuovo linguaggio: «i momenti in cui la bocca si irrigidisce, lasciando uscire le parole in un ruggito». E neanche i sottotitoli proiettati alle spalle dei performer riescono a catturare queste parole che si rincorrono, in perenne transizione. Infine, in Cuma di Michele Ifigenia, assolo interpretato da un’intensa e bravissima Federica D’Aversa, la sibilla cumana viene messa a nudo anche da una possessione mantica trasfigurante e irrazionale e dilaniante, e assediata da una musica elettronica che non dà tregua, alla fine virata in una apparizione video (forse corpo di un nuovo Chaos?), come un doppio di tutto-punto-vestito, forse portatore di un’assai ambigua speranza, o di un decoroso disincanto. (Stefano Tomassini)
#MILANO
BLIND RUNNER (di Amir Reza Koohestani)
Un uomo e una donna corrono, su di un palco vuoto. È una prova di resistenza del corpo o del pensiero? Un esercizio di fuga o di libertà? Ogni settimana si ritrovano, nella sala visite del carcere, ogni settimana lei (rinchiusa per aver esercitato il diritto alla libertà di parola) attende che il marito ritorni per condividere quella quotidianità condivisa sospesa. Cosa dirsi in quella mezz’ora di visita? I dialoghi della coppia si fanno via via sempre più freddi, incapaci di colmare una distanza insormontabile – le sbarre della prigione sono invisibili ma tangibili nelle posizioni parallele e distaccate assunte dai due attori sul palco – aumentata dall’utilizzo del linguaggio video, che proietta le immagini di quegli stessi dialoghi su uno schermo di fondo e ne estrae dei primi piani in cui emergono sguardi vuoti, di un dolore logoro, spento. Amir Reza Koohestani lavora su questa distanza fisica, mentale, simbolica inserendosi nelle sue fessure, con un intervento minimale volto a scavare l’eccesso, il sensazionale (che sembra emergere solo alla fine), le cromaticità e costruendo con l’aiuto di Éric Soyer una scenografia asettica non solo nelle tonalità visive ma soprattutto nei toni linguistici. È la parola a farsi agente di separazione, il moto del corpo la segue con una meccanicità spaventosa ma pur sempre alla ricerca di qualcosa: è qui che Koohestani inserisce lo sviluppo di un’altra storia, in cui la corsa acquista un senso che vuole oltrepassare le condizioni di prigionia e assumere le tracce delle identità migranti. La donna in carcere spingerà quindi il marito a scendere nel campo di una lotta che le è stata negata, assieme ad un’altra donna, resa cieca in seguito ad una manifestazione, che può ora correre per fuggire, per seguire un ideale di libertà, riscrivendo la propria storia, «a true story - an actual - an actual hi-story - a factual - fact story».
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: testi, regia: Amir Reza Koohestani drammaturgia: Samaneh Ahmadian assistente alla direzione: Dariush Faezi luci, scenografia: Éric Soyer video: Yasi Moradi, Benjamin Krieg musica: Phillip Hohenwarter, Matthias Peyker costumi: Negar Nobakht Foghani performer: Ainaz Azarhoush, Mohammad Reza Hosseinzadeh
#PALERMO
MURICEDDU (di Margherita Ortolani)
Lo Spazio Franco di Palermo ha appena inaugurato la sua nuova stagione con la prima di un ciclo di anteprime inedite. Scena Nostra, la rassegna prodotta da Babel in collaborazione con Rete Latitudini e con il sostegno di Regione Siciliana e Ministero della Cultura, viene anticipata quest'anno da tre diversi appuntamenti, tra cui un futuro omaggio a Franco Scaldati. Abbiamo intanto partecipato al primo atto della programmazione, ovvero un ritorno alla scena di Margherita Ortolani come interprete e regista di Muriceddu. Forse, chissà, l’età delle parole è finita per sempre. "Muriceddu" è un piccolo muro, una delimitazione minima da cui osservare, seduti, l'agitarsi della vita altrettanto minima che anima il quartiere. In un vociare indistinto, che cade sulla scena a inizio spettacolo come pioggia, Ortolani compone una marionetta: un'alterità lignea, spezzata come una vecchia stampella. Un processo di assemblaggio, ma forse anche una vestizione funebre; la presenza che ne risulta è più l'ostinata rappresentazione di un'assenza, della misteriosa interlocutrice di un dialogo forse impossibile. Non ti vedo, non ti sento. Eppure, nella verità della scena, è concesso parlarsi. Una parola spezzata, sospesa nel vuoto oscuro in cui si consuma, rievoca luoghi ormai collocati in una topografia dell'anima. Bozzetti impressionistici di personaggi accennati, tratteggiati con una poeticità cruda, prendono forma nella dolcezza allucinata e spigolosa dell'interprete; ne attraversano la voce – ora cristallina, ora profonda di toni gravi, rochi, taglienti – ne attraversano la gabbia ossea del corpo. Tra spigolature si intravede il fatto: la morte di un uomo, le sue scarpe, custodite come feticci. Ma il racconto si disintegra, si frattura attraverso l'esperienza delle donne che svolgendolo lo distruggono, e anzi ne sono distrutte. Nell'assenza fissa della marionetta, è Ortolani a ridursi a fantoccio, e così le donne che la abitano. La loro vita corrisponde a un sonno luttuoso, scandito soltanto dal ticchettio di un tempo irredimibile e di un'infanzia ormai inutile. Tutto avviene in una luce (di Dario Muratore, anche aiuto regista) dove «si vede poco, ma si vede tutto», così delicata e soffusa da diffondere più ombra che chiarore. La morte è anzitutto morte di sé nella morte degli altri. Ma, fortunatamente, è possibile sostenersi, insieme. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: testo e regia: Margherita Ortolani, con: Margherita Ortolani, aiuto regia: Dario Muratore, doppio in figura/marionetta senza fili: Tania Giordano
#VICENZA
AILEY II (William Forsythe, Francesca Harper, Robert Battle, Alvin Ailey)
È stata una felice inaugurazione quella della nuova stagione di danza al Teatro Comunale di Vicenza con l’Aley II (i giovani della compagnia Alvin Ailey American Dance Theatre Company). E per di più con un programma di quattro titoli estremamente differenti fra loro. Una serata per tutti i palati, sembrerebbe. Ma è stata anche una serata in cui i dodici interpreti che vengono dalla scuola della compagnia, hanno confermato (dimostrato ai meno esperti) una duttilità e una versatilità piena di futuro. Il primo brano, estratto da un lavoro del 1989 di William Forsythe, Enemy in the figure, è intatto nella sua forza, ancóra capace di emozioni: è una gioia che un repertorio neoclassico abbastanza recente ma così difficile sopravviva in corpi così allenati ed eterogenei. Il secondo pezzo, Freedom Series (2021), di Francesca Harper (che è la nuova direttrice della scuola: ha rilevato un’eredità materna importante, quella di Denise Jefferson), è costruito in forte continuità col segno forsythiano (per il quale Harper è stata mirabile interprete a Francoforte) ma con inserti di azioni più teatrali che creano un rallentamento, una frenata di quella forza (astratta) da cui proviene, cercando una via nuova. Il terzo brano, The Hunt, di Robert Battle, creato nel 2001 su musica abbastanza fastidiosa di Les Tambours du Bronx, è un continuo sbracciare energetico misto a uno svolazzo di (brutte) lunghe sottane in sei corpi maschili e in cerca del «lato predatore della natura umana e il brivido primitivo della caccia». Trascurabile. Il finale, come da tradizione, è il capolavoro di Alvin Ailey, Revelations (1960!). Che dire? qui mille discorsi convergono: sulla capacità di un singolo brano coreografico nel rivendicare la forza di un’intera comunità; la visibilità di una complessa carriera creativa; la resistenza di una idea tanto semplice quanto imperitura: la speranza si genera dal dolore. Sono spiritual, canti religiosi, gospel e blues che ormai conosciamo a memoria, e ora li abbiamo anche ricantati nei corpi pieni di promesse di questa giovane compagnia. (Stefano Tomassini)
Leggi crediti e programma
#ROMA
NINA (Fanny & Alexander)
Quello dei ritratti mimetici di Fanny & Alexander è un progetto che ha tratto visibilità grazie al grande successo di Se questo è Levi, vincitore di due Premi Ubu e ancora in vasta distribuzione dal 2018. Ma si può individuare il battesimo nel bizzarro To Be or Not To Be Roger Bernat, quando una conferenza su Amleto era il pretesto per l’inquietante sprofondare nella biografia e nella fisionomia dell’avatar di una persona realmente esistente, distante ma presente. C’è stato Manson, dove il pubblico interroga, post-mortem, il supercriminale, il quale risponde seguendo la traccia delle molte interviste rilasciate in vita. E però, ancora più indietro, c’è tutto il sopraffino lavoro sull’eterodirezione, ormai metodologia immancabile nel lavoro di Luigi De Angelis e Chiara Lagani, che manda nelle orecchie degli/delle interpreti tracce vocali delle voci originali, sperimentando una radicale via altra a metà tra mimesi, possessione e un teatro di figura esistenziale à la Kantor. Non si può prescindere da questa piccola storia (ancora in divenire) se si vuol comprendere che cosa accade in Nina, in prima assoluta a REf 23, in cui la splendida Claron McFadden (agiva anche in The Garden) veste i panni, le movenze e la voce di Miss Nina Simone, profeta della protest song statunitense e sacerdotessa della lotta di classe degli afroamericani. In un “concerto impossibile” tra inglese e italiano, parlato e cantato, Nina apostrofa il pubblico da una sorta di Aldilà. La «creazione musicale» è firmata da Damiano Meacci che realizza, con una sorprendente spazializzazione, un paesaggio sonoro ellittico: la sezione ritmica è quasi esclusa e la voce insegue un grumo di frequenze che va su e giù di volume, eseguendo, diretta in cuffia, un vero e proprio esperimento negromantico. È possibile rivedere in scena personaggi che non ci sono più? Sì, se quei personaggi hanno lasciato sufficienti documenti del proprio passaggio sulla Terra. E se Fanny & Alexander vede in loro un possibile lascito della storia di tutte e tutti noi. (Sergio Lo Gatto)
Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival. Performer Claron McFadden Ideazione, regia e luci Luigi De Angelis Drammaturgia e costumi Chiara LaganiCreazione musicale Claron McFadden, Damiano MeacciMusica elettronica e sound design Damiano Meacci Fotografia Enrico Fedrigoli Coaching Andrea Argentieri
SPORT (di Salvo Lombardo)
«Ojos and bouche brûlés / So sweet la nuit on body sold» è uno dei versi sincretici di hiver di Iosonouncane, fatti di lingue giustapposte, in cui, con densità semantica, potrebbe essere sintetizzato Sport di Salvo Lombardo, ultima traccia della trilogia L’esemplare capovolto che, dopo Gran Ballo Excelsior (1881) e Amor (1886), stavolta desitua coreograficamente Sport ballo in otto quadri del coreografo Manzotti che debuttò alla Scala nel 1897. Sul tatami bianco al centro della sala B del Teatro India, con ai lati il pubblico, avanti e indietro, con lo sguardo fisso e implacabile, si srotolano le capriole di Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Daria Greco, Fabritia D’Intino; il gesto è prestante ma isolato, lo sguardo è dritto, in parallelo, come le righe delle tute indossate. La luce al neon è radiante, sembra che le gelatine apposte davanti ai fari par siano rigate, a graduare lo spettro luminoso in diverse intensità. Le Reebok bianche affondano dolcemente, il suono dei corpi e dei passi sul tappeto è ovattato, confortevole. Abbandonando i “binari” solipsistici della partitura iniziale, i corpi si trovano inclusi ma anche contrapposti gli uni agli altri, prima attraverso carezze conoscitive poi con il prendere le misure, prevaricandosi: le mani si stringono ai polsi, le gambe si tendono, le teste si avvicinano. Il contrasto serioso scivola nella risata complice, l’annientamento cede al piacere della caduta, che passa dalla morbidezza al tonfo; la musica sale e i colpi dei corpi si trasformano in frastuono di bombe. Tregua: la guerra si scioglie fiacca nella pace delle note del concerto per pianoforte e orchestra n. 23 di Mozart. La levità di Greco e D’Intino, la fermezza di Ameglio e l’imprevedibilità di Anand sono dei vettori espressivi delle corporeità non imbrigliate nella performance agonistica ma animate nella loro diversità che prevale sul codice. È ineffabile: l’umanità riscrive la storia non più attraverso la prestanza, fisica, dei corpi ma tramite la loro presenza, emotiva (Lucia Medri).
Visto al Teatro India: di Salvo Lombardo con Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Daria Greco, Fabritia D’Intino, disegno luci, spazio e direzione tecnica Maria Elena Fusacchia e Alessio Troya disegno del suono Fabrizio Alviti styling Ettore Lombardi consulenza teorica Alessandro Tollari foto di Carolina Farina produzione Chiasma coproduzione FESTIVAL MILANoLTRE, Fattoria Vittadini
UN CURIOSO ACCIDENTE (regia di Gabriele Lavia)
Il teatro sa essere uno spazio protetto e caldo, impermeabile e sicuro. Come un cappotto, avvolge e conforta nonostante fuori ci sia la tempesta e l’involucro presenti evidenti segni di usura, di disfacimento. Gabriele Lavia preme su queste suggestioni nell’allestimento di un Goldoni poco rappresentato, Un Curioso Accidente: una scena diroccata occupa interamente il palco del teatro Argentina con un sontuoso ma sbilenco sipario rosso che dal fondo raggiunge la platea rivestendo il pavimento, occultando un fondale nero su cui a caratteri incerti campeggia il titolo del lavoro, come un gigantesco, frettoloso appunto scritto a mano. Davanti al sipario qualche fila di poltrone, bauli, due pianoforti, un camerino a vista sul lato del proscenio, con tanto di specchio circondato da lampadine. Lavia racconta dal proscenio che mai in tanti anni di carriera ne ha visto uno che avesse tutte le lampadine funzionanti. È entrato in scena in costume neutro insieme a tutta la compagnia, pronta a prestarsi a un dichiarato gioco teatrale con l’aiuto di semplici elementi di costume, un’altalena, pochi oggetti. Tutto l’impianto registico, dal semplice disegno luci all’assenza completa di effetti musicali (le musiche sono eseguite e cantate dal vivo dagli attori) vuole concentrare le energie tra palco e platea e rinnovare – esplicitandolo - un patto con lo spettatore. E Lavia lo spettatore lo mette sul palco, al centro della scena, come a fargli sapere che di questo disfacimento, di questo teatro in rovina fa parte anche lui. Ma, salendo e scendendo dal palcoscenico, gli dice anche: sei qui, siamo qui, vicini il più possibile, a raccontarci la storia di un equivoco brillante, una storia vera inventata, simile a tante altre eppure unica, ma fondamentalmente siamo qui a tenerci compagnia e farci calore, avvolti da quel cappotto vintage che è il teatro, lungo fino ai piedi, fatto con sapienza, di materiale resistente, pieno d’amore antico. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Argentina – Teatro di Roma di Carlo Goldoni. regia Gabriele Lavia. con Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Simone Toni, Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe, Leonardo Nicolini. Scene Alessandro Camera. Costumi Andrea Viotti. Musiche Andrea Nicolini. Luci Giuseppe Filipponio. Suono Riccardo Benassi.
#GENOVA
LA VIDA ES SUEÑO (regia di Declan Donnellan)
C’è una fila di porte chiuse lungo una parete che taglia in orizzontale la scena, si aprono seguendo un’alternanza disordinata e mostrando proiezioni, personaggi di cui non si comprende a fondo la natura, se facciano parte della realtà o del sogno. Così comincia La vida es sueño di Pedro Calderòn de la Barca, in apertura di stagione al Teatro Nazionale di Genova con la regia di Declan Donnellan e l’interpretazione degli attori della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid. Eppure, viene da domandarsi, la realtà e il sogno sono poi così distanti? C’è in questa messa in scena, allestita grazie alla solida visione di Nick Ormerod, l’intenzione di recuperare dal mondo classico gli elementi che sappiano esplicitare l’assolutezza del testo barocco, come volerne far emergere tutta la risonanza contemporanea fin dalla vicenda. La storia infatti, quella di Sigismondo e Rosaura, sarebbe di per sé ferma al tempo storico dell’autore, eppure l’esilio del principe allontanato in una cattività conservatrice dal padre, per paura di una predizione al futuro, l’avviluppamento poi del destino che rincorre e allo stesso tempo determina la vita dei protagonisti, sono tutti elementi che scavano nelle opere classiche con evidenza nel mondo attuale. Esibendo dunque il reale di una vicenda esemplare, in Calderòn Donnellan vede la possibilità di mettere in luce la distinzione tra morte e non esistenza, esplorando in quest’ultima l’effettiva contrapposizione alla vita, allora sì trascorsa come fosse un sogno lucido che manifesti il nostro esistere. Ma il sogno di Calderòn, privo della profondità con cui la psicoanalisi ha motivato l’uomo del Novecento, rischia di non essere all’altezza del contemporaneo, finendo talvolta per chiudersi tra i lazzi di una rappresentazione giocosa, ricca di una magnifica qualità attoriale ma limitata a un’età fin troppo antica. “Anche nei sogni è bene fare ciò che è giusto”, dice Clotaldo in conclusione. Anche nei sogni, privi della sequenza e della durata, il tempo assoluto invece non può essere ignorato. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Gustavo Modena. Crediti: di Pedro Calderón de la Barca; adattamento Declan Donnellan, Nick Ormerod; regia Declan Donnelan; interpreti: Ernesto Arias, Prince Ezeanyim, Rebeca Matellán (Rosaura), Manuel Moya, Alfredo Nova, Goizalde Núñez, Antonio Prieto, Ángel Ruiz, Irene Serrano (Estrella); scene e costumi Nick Ormerod; musica e suono Fernando Epelde; luci Ganecha Gil
#ROMA
MOIRA, CASA, FAMIGLIA E SPIRITI (di Ottavia Bianchi)
Molto spesso si definisce il passaggio tra vita e morte come una specie di soglia, un limite da valicare per raggiungere un’ipotesi di aldilà; ma forse, a ben vedere, somiglia più ad un confine, un varco ambivalente che cioè tenga in equilibrio una duplice direzione – da e per, la vita e la morte. Sembra questa un po’ la riflessione che ha guidato Ottavia Bianchi nella scrittura di Moira, casa, famiglia e spiriti, che con la regia di Giorgio Latini ha debuttato al Teatro Manzoni. Moira è una donna, interpretata dalla stessa Bianchi, che ha lo strano dono di vedere e dialogare con i morti, o meglio, coloro che sono defunti nella casa in cui abita, tra i quali, ultimo in ordine di tempo, il proprio padre. Un dono, certo, ma allo stesso tempo una condanna – lei stessa crede – a perpetuare una solitudine esistenziale perché in essa possa mantenere il segreto di questa fantasmatica convivenza. C’è una giovane timorata un po’ svampita (Patrizia Ciabatta), una sferzante prostituta (Giulia Santilli), un timido soldato balbuziente (lo stesso Latini), infine Alfredo (Andrea Lolli), padre di Moira, che cerca di recuperare il tempo trascorso senza di lei, pensando ce ne fosse chissà quanto. Proprio la sua presenza convince Moira a chiudersi in un guscio che la ripari da nuove conoscenze, da ciò che cambierebbe il suo equilibrio, fatto di lavoro e visite della vicina strampalata (Beatrice Gattai). Ma una casa in affitto non è per sempre, c’è uno sfratto alla porta; eppure se lo sfratto ha il delicato impaccio di un ufficiale affascinato (Sebastiano Colla), forse le cose possono cambiare. Nel tono di commedia, che sfrutta con sicurezza gli effetti popolari della parlata romanesca e la verve di attori ben diretti, Bianchi compone uno spettacolo vivace e non privo di profondità, richiama e attualizza i Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961), rinnovandone un certo spirito canzonatorio e insieme nostalgico nei confronti della vita e dei vivi, così presi dalla paura della morte da non badare a quanto, della vita stessa, si fanno sfuggire via. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Manzoni. Crediti: di e con Ottavia Bianchi; e con Patrizia Ciabatta, Sebastiano Colla, Beatrice Gattai, Giorgio Latini, Andrea Lolli, Giulia Santilli; Regia di Giorgio Latini; Aiuto regia Martina Paiano; Scenografia Cecilia Sensi; Costumi Lucia Mariani; Foto e Grafica Marco Bellucci; Una produzione Centro Teatrale Artigiano
LA FEROCIA (VicoQuartoMazzini)
La ferocia, quella capacità di distruggere il mondo che abbiamo attorno, la natura e i nostri cari, per mantenere il potere e la ricchezza: la famiglia Salvemini e il suo patriarca sono la rappresentazione delle metastasi del nostro Paese. È spietata la vicenda scritta da Nicola Lagioia e altrettanto spietato l’allestimento teatrale di VicoQuartoMazzini. Gabriele Paolocà e Michele Altamura chiudono parte della storia dietro una grande vetrata, la scenografia di Daniele Spanò lascia percepire un’opulenza minimalista: nell'interno un grande tavolo e delle piante, poi c’è lo spazio fuori, non vediamo altro ma possiamo immaginare un grande cortile, forse un prato all’inglese e una piscina. Sulla destra il piccolo studio in cui il narratore/giornalista interpretato da Gaetano Colella registra un podcast sulla vicenda facendo così da filo conduttore. In questi spazi si decidono i destini della famiglia, dei terreni su cui edificare milioni di euro di cemento avvelenato, qui si dissotterrano cadaveri dando del tu ai morti. L’adattamento di Linda Dalisi ricama con grandissimo mestiere le linee narrative per conferir loro sostanza scenica e una fruibilità evidente, due soprattutto: quella più visibile riguarda la figlia del grande costruttore, la cui vita è raccontata in sua assenza dagli uomini di potere a cui si concedeva; l’altro tracciato è relativo al ritorno del fratello Michele, lo interpreta Paolocà entrando dopo mezzo spettacolo, non c'è eroismo nelle sue azioni ma una sincera ricerca della verità. Il lavoro lascia trasparire una certa distanza e talvolta freddezza date dall'utilizzo dei microfoni, dal tipo di amplificazione utilizzata e dall'impostazione generale (comunque coerente). Gli attori, nonostante la poca mobilità, costretta dall'inquadratura scenica iper realistica, sono rigorosi nella cura dei personaggi e compongono un cast di talento. Urge qui aprire una parentesi produttiva: Il centro di produzione Scarti - di certo anche grazie al nome di richiamo dello scrittore - ha messo in fila importanti partner (come poche altre volte è accaduto ad artisti under 40) segnando così la possibilità di un passaggio di maturazione del duo di artisti (VicoQuartoMazzini). Il ricambio generazionale deve essere perseguito e i trenta quarantenni sono pronti per gestire operazioni con budget finalmente decorosi, e rivolgersi così a un pubblico più ampio. (Andrea Pocosgnich)
- Leggi il cast completo e i crediti di produzione - Leggi l'intervista a VicoQuartoMazzini
FERDINANDO (di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo)
Nonostante la scena restituisca la dimensione ottundente del fallimento - quello del Regno delle Due Sicilie fa da fondale storico alla vicenda – i protagonisti sono tutt’altro che immobili e con vigore attoriale e sapienza interpretativa accendono coi loro umori le luci del lampadario precipitato a terra, smuovono le coltri, fanno oscillare il drappo damascato che chiude lo spazio di un teatro da camera che, come nel miglior dramma borghese, è pronto a saltare in aria. Ferdinando, ultimo lavoro di Arturo Cirillo sul testo di Annibale Ruccello, dopo il debutto ad Ancona è arrivato questa settimana al Teatro Parioli ed è subito accolto dal pubblico con complicità: risate dalle prime battute e applausi a scena aperta. Con empatia, ci avviciniamo al rancore sopito e alla disillusione di Donna Clotilde (Sabrina Scuccimarra), baronessa decaduta che schifa il re sabaudo e l’impersonalità della lingua italiana; a Donna Gesualda (Anna Rita Vitolo), Gesualdina, cugina “ingiallita” per la sua, apparente, condizione di nubile domestica che si rincuora con le “confessioni” di Don Catello (Arturo Cirillo), Catellino, uomo di chiesa ma amante del sacrilegio. Nell’opera di Ruccello, nei suoi adattamenti più ficcanti, e la produzione di Cirillo lo dimostra, il sottotesto, tanto drammaturgico quanto registico, è determinante al significato del testo stesso: l’impulso che cova e appassiona gli animi, i tic ripetuti dei personaggi, la prossemica, il ritmo ascendente e discendente della musicalità delle battute, alcuni termini calcati rispetto ad altri. E la camminata incisiva che Ferdinando (Riccardo Ciccarelli) compie da un lato all’altro del palco nella prima scena, in silenzio, quasi a prendere le misure, non può che far presagire quanto questo giovane, aitante, nipote della baronessa rimasto ora orfano e bisognoso d’affetto colmerà le solitudini dei tre riempiendone, e svuotandone poi, le esistenze. L’uomo deve essere consapevole di peccare, altrimenti diventa una bestia, dirà Don Catellino. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Parioli: con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo, Riccardo Ciccarelli, Dario Gessati, Gianluca Falaschi, Francesco De Melis, Paolo Manti, produzione Marche Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
TOMORROW’S PARTIES (Forced Entertainment)
Di certe indagini della realtà o dell’umano, a cui diverse ricerche artistiche hanno nel tempo prestato attenzione, alcune opere hanno reso un risultato talmente preciso da somigliare a una scoperta scientifica che non è più possibile ignorare: quella precisione di ragionamento trovata da uno diviene postulato per i discorsi degli altri. È significante come il contemporaneo, in modo più o meno consapevole, rilegga quel frammento di Tre Sorelle di Čechov dove ci si domanda che cosa resterà di noi nella memoria di chi ci succederà: la nostra capacità di raccogliere e proteggere campioni dell’attuale umanità chiede con urgenza una verifica. Nel mondo odierno, pervaso e presidiato dalla registrazione/archiviazione/condivisione di frammenti di realtà e dalla smania di rappresentare il presente, l’arte che dovrebbe organizzare una e sublimare l’altra interroga seriamente l’efficacia e la precisione di questi sforzi. Lo fa anche Forced Entertainment con Tomorrow’s Parties, la cui versione italiana (tradotta da Roberto Castello per ALDES) ha debuttato a Romaeuropa Festival con la regia di Tim Etchells, fondatore del premiato ensemble britannico. Una luminaria da desolata sagra di paese incornicia Marco Cavalcoli e Caterina Simonelli (un cast alternativo vede Roberto Rustioni e Simona Generali): in piedi su un podio di pallet, semplicemente immaginano i futuri episodi della nostra specie. La congiunzione disgiuntiva (bell’ossimoro) “o” è la parola chiave per cullarci in un salmodiare di ipotesi che, in un registro quieto (o rassegnato?), ci raffigura come bersagli o destinatari di cura per gli alieni, come servi o complici delle macchine, o divinità decadute, o inventori di nuovi ecosistemi sostenibili, o naufraghi alla ricerca di un nuovo pianeta e un nuovo senso. Lo si legga come distopico o consolatorio, anche in questo futuro immaginato “le storie di ieri” smetteranno di essere leggibili e significanti e diventeranno dunque incomprensibili e futili. Il tutto con la terribile, ma profondamente umana e teatrale, essenzialità del dialogo. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Mattatoio per Ref 23 - interpreti Marco Cavalcoli o Roberto Rustioni con Simona Generali o Caterina Simonelli ura della versione italiana Robin Arthur traduzione Roberto Castello scenografia Richard Lowdon realizzazione scenografia Teatro del Giglio disegno luci Francis Stevenson responsabile tecnico Leonardo Badalssi
WIDE BEYOND (di Nathan Ellis, regia Lucilla Lupaioli)
Qualche anno fa, quando la manifestazione viveva di sana e robusta costituzione, erano addirittura più di uno i paesi messi sotto la lente d’ingrandimento, ne ricordo una versione dedicata anche alla Germania ad esempio, ma TREND nuove frontiere della scena britannica rischia di essere all'ultima stagione e sarebbe davvero un peccato; la storia è purtroppo la solita, mancanza di finanziamenti strutturali e bocciature nei bandi comunali e regionali. Una perdita nel panorama teatrale romano e nazionale perché ponte diretto di collegamento con il mondo sempre vivace della scrittura teatrale british. Quest’anno la XXII edizione, come sempre ospitata al Teatro Belli e curata da Rodolfo Di Giammarco, per la prima volta senza il compianto Antonio Salines, è cominciata sotto il segno del giovane Nathan Ellis e del suo Wide Beyond messo in scena da Bluestocking. Un soggiorno con un tavolo, un divano economico color pesca, appendiabiti e poco altro, su una parete di fondo una sorta di finestra rappresentata da una fotografia opportunamente illuminata. Alessandro di Marco veste i panni di uno scrittore di successo di mezza età trasferitosi in California, quando il sipario si apre lo ritroviamo sulla soglia, sta per scappare dalla casa della madre, ma incontra la sorella. Quello di Ellis è un testo tutto teatrale, nel senso che tutto accade nel fitto dialogo tra i due fratelli: lei, umanissima Martina Montini, accudisce la madre malata da anni e ora si sta anche separando dal compagno al quale ha concesso la custodia dei figli; lui è tornato dalla California con la sua vita di successo di scrittore e docente, ma qui deve scontrarsi con la durezza della sorella. I particolari della relazione tra i due emergono lentamente, mentre una zuppa cerca di scaldare affetti rimasti troppo tempo lontani; arriverà il vino a sciogliere definitivamente il dialogo e a far affiorare segreti indicibili. Ellis ci pone di fronte a un dolore supremo: l’amore di una figlia per la madre e la possibilità che questo si trasformi in violenza a causa della depressione e dell’abbandono. E poi quel fratello che fugge, incapace di farsi carico del dolore, lasciando così la sorella, con le proprie lacrime, sola, di fronte alla soglia, tra le foglie di un autunno freddo e piovoso. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Belli, Trend: di Nathan Ellis regia Lucilla Lupaioli con Alessandro Di Marco e Martina Montini luci e fonica Sirio Lupaioli scene e costumi Nicola Civinini traduzione Natalia di Giammarco produzione Bluestocking