Dopo il debutto al Teatro Grande di Pompei per il Campania Teatro Festival, la Clitennestra di Roberto Andò con Isabella Ragonese è andata in scena al Mercadante di Napoli. Poi in tournée, fino a domenica 3 dicembre al Teatro Carignano di Torino.
Quando questo articolo sarà esposto alla lettura di tutte e tutti, dovrà, forse suo malgrado, confrontarsi con l’attualità, tra le spire di una complessità cui troppo spesso si rifilano riflessioni di comodo, frettolose e deleterie. Una “questione aperta” avrebbe scritto Ida Magli, dove si infilano a forza sconforto, frustrazione, dubbi. La volontà di riabilitare la dignità dei pezzi perdenti, che per lo più sono femminili, della storia e delle arti è ascrivibile a un fenomeno che mira a una ricostruzione delle dinamiche sociali a noi contemporanee. Di quanto questa volontà sia motivata e legittima o no, e di quanto il dato materiale della storia passata debba necessariamente essere riscritto oppure obliato per dare giustezza al presente, prima o poi bisognerà discutere con cognizione. Roberto Andò è direttore artistico del Teatro Mercadante di Napoli – che tra l’altro non ha mai conosciuto direzione femminile, come d’altronde tutti i Teatri Nazionali, né vanta una programmazione particolarmente equilibrata – in una città che non ha una troppo ammirevole storia di donne in posizioni di potere (ma, diciamocelo pure, è l’idea di potere che va assolutamente rivista, per chiunque). Il regista, con questo ultimo lavoro, decide dunque di inserirsi in quella tradizione che riabilita l’infausta sposa Clitennestra, dalla faccia di cane. Se l’intenzione non è quella di mettere in discussione i buoni sentimenti, il dubbio cala sul principio di questi, seppur buoni, sentimenti. E quando il principio claudica, la forma ne risente.
Il regista palermitano decide di affidarsi alla Casa dei nomi di Colm Toibìn, che come riscrittura del tragico non aggiunge alcunché alla tradizione: la spartana, benché abbia più spazio per stigmatizzare il dolore con una scrittura compiaciuta, traboccante e barocca, resta una terribile belva furente di cui aver pietà. Il principio è tra i morti, e da una spessa membrana lattiginosa si staglia debole la sagoma di Clitennestra, in scena Isabella Ragonese, accompagnata da un sussurro cavernoso. Lo spettacolo, originariamente ideato per l’allestimento al Teatro Grande di Pompei per la rassegna del Campania Teatro Festival, vede i suoi spazi restringersi sul palcoscenico del Mercadante, stretti e stipati come la mente alterata dalla follia della regina. La messa in scena, curata da Gianni Carluccio, traboccante di inventiva, predispone il frazionamento degli ambienti che si scheggiano e frappongono tra loro nel vortice dell’agitato resoconto di memorie discontinue. Come le incrostazioni di ruggine, sanguigne sotto la luce impietosa dei neon; è lo squallore a ricoprire tutto nella ricostruzione anni Quaranta, forse troppo didascalica e sbrigativa nel restituire una generale condizione di declino morale. Le visioni hanno l’angolazione del pensiero della regina, e l’accampamento degli Atridi è visto dalle luride latrine o dalla spoglia cella in cui è rinchiusa Ifigenia, Arianna Becheroni; il Palazzo di Micene si riduce nelle fredde camere da letto.
In cima si compone l’emblema della vendetta di Clitennestra, quella che, insieme al tradimento del marito, l’ha restituita alla storia come cagna rabbiosa: la camera da bagno dove Agamennone, Ivan Alovisio, verrà ucciso. La donna fagocita tutto, in bocconi voraci e schiumosi di bava, e non c’è altro che la furia a stracciare lo strazio per la perdita della figlia, nemmeno l’amore per gli altri due in vita. Isabella Ragonese, proprio come il simulacro che veste, divora i suoi compagni di scena, che spariscono davanti alla sua prova attoriale estenuante e, per scelte di regia, impropria; ansimante si dimena in circolo, senza posa, senza tregua, senza sfumature. Le urla producono linee rette continue che non si inclinano in una più naturale modulazione. Non lascia spazio nemmeno a uno sguardo più attento da parte del pubblico, che si ritrova completamente soggiogato o annichilito. Proprio da qui si incomincia a scivolare tra pensieri difficili da comunicare. Si rischia di contraddirsi, di cadere miseramente tra i sentimenti. Quale tempo è troppo vicino da poter assurgere a lettura del presente, e quale tempo è talmente lontano da poter essere solo guardato? Cosa succede quando si prende Ifigenia in Aulide di Euripide e l’Orestea di Eschilo, e le si piega in modo inadeguato al contemporaneo? Forse si rischia la sterile formula, ma il mito o si distrugge o lo si accoglie per com’è. Andò non opera in nessuna delle due direzioni e pretende di proporre l’antico guardandolo con l’occhio, ideologico, del presente.
Potrebbe essere azzardato ora provocare. Clitennestra è un mostro esattamente come Agamennone, ed è giusto che sperimenti la mostruosità dei gesti compiuti. Non è solo vittima, ed è scorretto che venga relegata a un ruolo simile. Erosa dal dolore, sceglie la vendetta, prova gelosie, distrugge un’altra donna, allontana i figli. Non esistono dei in questa tragedia di Andò, se non nel ricordo beffardo della regina; non è tempo di dei, questo. Ma erano proprio gli dei, col loro valore simbolico, a dare la misura dell’umanità, a darle profondità difficili da accettare. Senza quegli dei, in scena non vengono rappresentate più personalità vive e intense e contraddittorie, bensì solo maschere senza dimensione. E spesso, anche indecorose: la povera Cassandra, Cristina Parku, ridotta a una puttana compiaciuta; o il coro, che è voce dei tempi, si mortifica nel suo compito nelle pallide coreografie di Luna Cenere (probabilmente penalizzate per il riallestimento), che interrompono la narrazione in stacchi da inutili videoclip musicali. Clitennestra non ha bisogno di essere riabilitata (tanto meno che lo faccia un uomo), o di strillare oltremodo il proprio dolore senza mai prenderne le misure, senza mai diventare altro da una donna che strilla solo il proprio dolore, senza mai conquistare quella contemporaneità che invece le si vuole forzatamente cucire addosso; questa Clitennestra, e non la cagna della tradizione, diventa un freddo esercizio di stile. Per cui, lasciate la storia, la storia degli immaginari, così com’è: lasciate la libertà alle cagne di provare quello che desiderano e agire come meglio credono, anche in modo raccapricciante. Ne hanno il diritto, lo rivendicano con dignità.
Valentina V. Mancini
Teatro Mercadante, Napoli – Novembre 2023
Date tournée in calendario
Palermo, Teatro Biondo, 7 – 12 novembre 2023
Catania, Teatro Verga, 14 – 19 novembre 2023
Massa, Teatro Guglielmi, 25 – 26 novembre 2023
Torino, Teatro Carignano, 28 novembre – 3 dicembre 2023
Genova, Teatro Gustavo Modena, 6 – 10 dicembre 2023
Roma, Teatro Argentina, 10 – 21 gennaio 2024
Padova, Teatro Verdi, 24 – 28 gennaio 2024
Venezia, Teatro Goldoni, 1 – 4 febbraio 2024
Milano, Teatro Strehler, 6 – 11 febbraio 2024
Perugia, Teatro Morlacchi, 14 – 18 febbraio 2024
CLITENNESTRA
Adattamento e regia Roberto Andò
Con Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini
Coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Daniela Cernigliaro
Musiche e direzione coro Pasquale Scialò
Suono Hubert Westkemper
Coreografie Luna Cenere
Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival