Serata doppia, composita e tutta italiana, perfettamente riuscita a Torinodanza, con i visionari Dewey Dell e le seduttive malinconie della MM Contemporary Dance Company con Silvia Gribaudi.
La visionarietà dell’immaginario, e pure della impegnatissima realizzazione scenica, del Sacre du Printemps stravinskijano da parte di Dewey Dell (Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Alberto “mix” Galluzzi, Nastyden, Francesca Siracusa) è tale e tanta che quasi la complessità della partitura resta (ho scritto quasi) in secondo piano. Il gruppo cesenate mette in scena un teatro antropologico tutto costruito di scenografie e costumi: siamo forse all’interno di una caverna vegetale, dove nessuna figura umana verrà a funestare l’ordine di questo regno naturale. È il tempo di una rigenerazione ciclica del mondo «degli insetti, dei semi e delle muffe», che sovrasta ogni antiparassitario, e in cui la morte va in scena proprio per generare nuova vita.
Così il rito pagano, aggressivo e scombinato, ma anche sensibilissimo ed evocativo di Stravinskij coincide perfettamente con «l’orribile travaglio delle cellule» di cui scriveva, al debutto del balletto, Jacques Rivière, non a caso ripreso da Jack Halberstam per l’indagine delle sue Creature selvagge. Dewey Dell fà spazio a questa declinazione biologica del progetto musicale stravinskjiano con apparizioni e costumi di forte impatto figurativo. Le danze (la coreografia è di Teodora) sono elementari e meglio funzionano nell’insieme, specie se nella massa di elementi naturali, nel senza forma di turbini magmatici che si muovono sempre sulla linea dei bassi, sotto luci che potenziano la sovrapposizione della ricchezza delle forme, il movimento del creato, l’illusione dell’inorganico (e pure uno strepitoso assolo di forme del nero può nascere). Il finale poi è geniale: ritorna il bruco nello strepitoso costume dell’inizio, e che letteralmente si nutre, mordicchiandola, della scenografia. È il ciclo della vita che riparte. E chissà pure quello della scena.
Nessun passo falso: Michele Merola non ne sbaglia una. La sua compagnia MM Contemporary Dance Company ha oggi un repertorio a disposizione lungimirante e vario: parla a tutte le generazioni e non scontenta mai nessuno, già proprio come dovrebbe essere un vero Centro Coreografico. Merola lavora con un team molto consapevole su quel che c’è da scegliere e fare, soprattutto nel lavoro quotidiano in sala con la compagnia, così come a latere il progetto di formazione Agora Coaching Project codiretto con Enrico Morelli, rivolto a coloro che poi potranno diventare parte di questo ensemble. È una compagnia che si ha davvero voglia di vedere, conoscere, seguire e di cui parlare. E applaudire. A Torinodanza ha debuttato con un lavoro a serata intera di Silvia Gribaudi. Ammiccamenti e clownerie al minimo, questa volta, forse proprio perché Gribaudi ha avuto a disposizione un tale squadrone delle meraviglie, e parrebbe proprio che se questa nostra intelligente onewomanshow rinunciasse alla cornice ripetitiva di facili formule (parole a commento, allusioni parodistiche, sequenze numeriche, borbottii glossolalici) potrebbe davvero arrivare a sperimentare con inedita radicalità la forza della sua ispirazione (ciò avrebbe un prezzo: meno applausi chiamati, e una performance più inquieta).
Il tutto, va detto sùbito, è qui costruito e gestito benissimo: Gribaudi danza insieme al gruppo, e con intelligente malinconia segue, incita, anche arranca e tira il fiato, ma sempre fra i sorrisi di tutt* e cercando di (far) riflettere sul tempo sospeso che prepara una spinta, il grand jeté del titolo. Quel che sorprende di più non è tanto la riflessione sui limiti o i canoni imposti, il vocabolario pretenzioso dei passi o la ripetitività dei gesti per una assimilazione assoluta, ma invece la natura più ibrida e orizzontale di questo incontro. Un mix di presenze perfettamente negoziato. Perché c’è pure lo spazio per uno strepitoso assolo (stile Fancy Free?) di Lorenzo Fiorito, in stivali da cowboy, e una breve polka furtiva (Elisa dixit), ma poi tanta energia ovunque. Lo spazio è tutto libero, solo a destra una schiera di fari a rinforzo, e un fondale bianco anche di retropassaggio di ombre, tra un ingresso e l’altro. La disposizione della scena riflette ampiamente questa necessità di libertà per una danza senza arredi.
Due momenti ho avvertito particolarmente forti: quando in un movimento di gruppo in mezzo a tutt* Gribaudi se ne allontana come un Calimero consapevole di tanta distonia, ma il gruppo invece la riprende e la riporta più volte dentro, per nuova consapevolezza dell’insieme, e come a dire “qui c’è spazio per ognun*’”(confortante? forse, ma mica è poco: è l’estraneo lo straniero l’alterità che trova il suo spazio nella presa della comunità). Il secondo, quando a proscenio i due corpi seminudi di Gribaudi e Fabiana Lonardo espongono nell’evidenza di una diversità estetica anche la possibile (per non dire inaggirabile) forza (per non dire bellezza) della grazia nella prossimità di ogni differenza.
Ma potrebbe esserci molto di più. Perché alla fine resta la voglia matta di sapere che cosa avrebbe mai potuto vedere, intuire, pensare e trovare (per lo sguardo di tutt* noi) Silvia Gribaudi se, invece di far cantare e partecipare supino il pubblico alcuni brani musicali dei balletti più conosciuti, e mandar tutti via felici e contenti per tanta prestanza (hanno davvero tutti voglia di esibirsi…), quel repertorio canticchiato (come se fosse soltanto memoria retrotopica) lo avesse preso per le corna (come nostalgia di una nuova utopia), e lo avesse maneggiato e interrogato e magari fatto esplodere per mostrarci, sotto la superficie dell’evidenza, la vertigine di un calembour, il messianico di una transizione, l’abisso di una spinta, il selvaggio di un salto, tutto il disordine necessario (ma perché pieno di futuro) a tanta autodeterminata energia (quella, per esempio, di Nicola Stasi, in effetti imprendibile…). Senza ripetere, ma altrimenti desiderare.
Stefano Tomassini
ottobre 2023, Torino, Fonderie Limone, Torinodanza 2023