Abbiamo incontrato Maura Teofili, anima di Carrozzerie Not insieme a Francesco Montagna e curatrice della rassegna Anni Luce all’interno di Romaeuropa Festival per dialogare sulle ambizioni e traiettorie di questo progetto ed esplorare i meccanismi artistici e produttivi dentro cui si muovono gli artisti emergenti in Italia. L’appuntamento con la scena emergente torna dal 25 al 29 ottobre alla Pelanda di Roma. Intervista
Incontro Maura Teofili nel salotto-foyer di Carrozzerie N.o.t., luogo che anima da dieci anni insieme a Francesco Montagna e che nella sua stessa conformazione racconta il suo modus operandi: uno spazio accogliente e vivo, abitato ogni giorno da artisti, spettatori, operatori. Mentre chiacchieriamo è in corso una residenza artistica e poco dopo inizierà un laboratorio con gli adolescenti del quartiere, che arrivano alla spicciolata. Da questo spazio iniziamo il nostro dialogo sul suo lavoro dentro il Romaeuropa Festival, a pochi giorni dall’inizio della rassegna Anni Luce. Dopo i primi appuntamenti di Situazione Drammatica, dedicati alla nuova drammaturgia dei premi Hystrio e Riccione e curati insieme a Tindaro Granata, gli spazi della Pelanda ospiteranno cinque spettacoli, di cui due debutti (“Ca-ni-ci-ni-ca” di Greta Tommesani e “A.L.D.E. non ho mai voluto essere qui” di Giovanni Onorato) e tre studi, intercettati nell’ambito del bando under 30 Powered by REF: Cromo collettivo artistico, Alice e Davide Sinigaglia, Pietro Giannini. Gli artisti sono stati selezionati e accompagnati in un percorso articolato che ha mutato nel tempo la propria vocazione.
Questa è la settima edizione di Anni Luce. Più che un bilancio, ti chiedo come e se siano cambiate le prospettive del progetto. Quali nuove necessità, nuovi stimoli sono emersi rispetto ai presupposti delle prime edizioni?
Quando abbiamo iniziato, nel 2017, andavamo proprio a colmare un’assenza. L’attenzione specifica per gli artisti emergenti italiani era già presente in alcune linee di sviluppo dell’azione di Romaeuropa come fondazione, però era da un po’ che effettivamente non era praticata. C’era una grande attenzione alla scena nazionale, ma con l’idea di proporre il contraltare di quello che arrivava dalle scene internazionali: trovare cioè i grandi nomi in grado di portare l’Italia nel resto del mondo, sempre con un occhio per il nuovo, per la ricerca, per il rischio. Con l’intenzione di sbilanciare oltre i margini l’osservazione della scena nazionale, per le prime edizioni di Anni Luce ho svolto un’attività classica di curatela che si nutriva dell’esperienza di scouting maturata nell’ambito di Carrozzerie n.o.t. e mia personale come operatrice. La curiosità che ci ha sempre mosso verso la frequentazione di sale di ogni ordine grado di tutto il paese, di festival piccoli e grandi, ha consentito nel tempo di avere un’immagine molto ampia di questa scena e quindi di poter provare a fotografarne le eccellenze. Il lavoro di programmazione era se vogliamo più semplice: si trattava di valorizzare quegli artisti della scena emergente che stavano per compiere un salto, che avessero già dei discorsi artistici sviluppati, di spessore, ma che non riuscissero ad accedere a una scena più accreditata, a delle forme di sostegno e di attenzione più ampie. Ma già nel giro delle prime due o tre edizioni per me è stato chiarissimo che non era possibile fare questa selezione annualmente arrivando sempre allo stesso livello di qualità. Le prime edizioni si sono distinte per dei percorsi oggettivamente molto avanzati per essere ancora nella zona di riferimento delle compagnie emergenti. Abbiamo avuto Fabiana Iacozzilli, Chiara Bersani, Dante Antonelli, Giuliano Scarpinato, Liv Ferracchiati, Industria Indipendente, compagnie che forzavano la soglia fra la scena indipendente e un riconoscimento ormai conclamato. Ma in Italia non c’è il ritmo produttivo necessario affinché effettivamente si producano ogni anno nella scena emergente quattro spettacoli di quel livello.
A cosa è dovuta secondo te questa lentezza? E com’è evoluta la rassegna alla luce di questa consapevolezza?
I percorsi produttivi italiani sono molto frammentati. Non c’è paragone con la scena internazionale in questo senso, perché un 25-30enne nel resto d’Europa ha accesso a delle forme di finanziamento dirette. In Italia bisogna mettere in campo dei mosaici di risorse per riuscire a produrre una creazione: un bando, una residenza, una piccola produzione che crede in te, magari un teatro che decide di dare delle opportunità. Così le produzioni emergenti finiscono per essere delle situazioni molto plurali, delle istantanee del sistema produttivo e delle sue capacità di combinarsi per permettere a nuovi linguaggi, nuovi stili, nuove forme di emergere. Quello che manca quindi sono le occasioni che consentano questa concentrazione di risorse: perché se c’è qualcosa a cui tendere, è più semplice per gli artisti mettere insieme tutti quei piccoli pezzetti attraverso i quali ora gli emergenti producono i loro lavori. Quello che abbiamo cercato di fare dopo le prime tre edizioni è stato diventare più attivamente un motivo di innesco. Per me è stato molto importante riuscire a dialogare con la direzione di Romaeuropa per mettere a valore questa specificità del sistema produttivo italiano, usarla come uno strumento e non come un limite, aprire la crepa. Invece di arrivare ad avere una rassegna che avesse spettacoli sempre più fragili o meno aperti al confronto con la programmazione generale del festival, abbiamo cercato di far sì che Anni Luce potesse diventare un pungolo per gli artisti emergenti italiani per creare. Nel fare questo il numero di spettacoli programmati non è aumentato, è diminuito. Ma le possibilità sono diventate altre.
L’innesto del bando Powered by ReF come forma di scouting diretta ha sicuramente avuto un ruolo importante nell’evoluzione delle traiettorie e modalità operative di Anni Luce. Come avviene, materialmente, la valorizzazione di questo frammentato sistema produttivo?
C’è il tentativo di rompere un po’ la concezione dell’opera di un artista emergente come prodotto finito e di guardarla come processo. Oggi in Italia quello che c’è dietro al lavoro di un emergente non può essere sconnesso dall’opera: in questo sistema produttivo così specifico, così critico e delicato, questi due discorsi – sull’opera e sui suoi processi – viaggiano di pari passo. Noi ci siamo messi in questa posizione di mediazione: tanto gli studi quanto gli spettacoli che debuttano cerchiamo di viverli in quest’ottica. L’accompagnamento è diventato la chiave. Powered by Ref (insieme a tutte le altre forme di contatto che il Festival sta mettendo in campo, coproducendo artisti nazionali o osservando quello che succede nella nuova drammaturgia – come per esempio con Situazione Drammatica, ndr) lavora per far sì che il meccanismo possa essere sempre penetrabile, abbassando le aspettative sul risultato e mettendo tutta l’energia sui processi. Il bando di Powered è stato voluto fortemente dalla direzione – in maniera molto lungimirante – con indirizzo under 30, un criterio anagrafico rispetto al quale io mi sono anche un po’ battuta, perché so che in Italia essere emergenti non vuol dire essere giovani, ma semplicemente essere in una fase che non ha permesso ancora una certa visibilità, un certo dialogo con degli interlocutori e che non necessariamente coincide con l’età. E invece il testardo mantenimento di questo criterio ci ha regalato la possibilità di trovarci veramente nel nuovo. La direzione non voleva trovarsi a sostenere con Powered By REF degli artisti che avrebbe potuto programmare in Anni Luce o addirittura negli interstizi del festival come poi è successo: grazie a questa nuova modalità si sono aperte delle porte di programmazione anche fuori dalla settimana della rassegna, in cui hanno trovato spazio artisti comunque giovani ma ancora più avanzati.
Anni Luce, il nome scelto per la rassegna, contiene un’idea di sguardo simultaneo sul futuro e dal futuro. Come e cosa raccontano questi artisti oggi?
Sì, infatti, prima eravamo noi che guardavamo verso il futuro, adesso è anche un po’ il futuro che guarda noi, questo lo dico spesso rispetto all’individuazione degli artisti, che sta cambiando anche quella. Prima c’era un’attenzione alle forme, ma ora i contenuti informano le forme costantemente e le forme sono molteplici: non c’è un artista che si esprima quasi più in maniera monodisciplinare. Questi ragazzi ormai sono multidisciplinari per nascita, nascono parlando per immagini, per musica, per poesia, per ritmi diversi, per multimedialità; le opere ormai sono un tutto tondo informativo che sceglie il teatro come luogo e le forme del teatro come forme espressive, ma che è sempre costantemente interrelato. Questo chiaramente ti sposta anche come osservatore: per me Anni Luce è anche un luogo di apprendimento costante, capace di dare linfa anche al discorso organizzativo e curatoriale, che può rischiare di diventare anche molto fermo certe volte. A livello contenutistico fino a qualche anno fa si vedevano più spesso dei lavori molto autoreferenziali, adesso questa linea è un po’ esplosa. Ci sono dei temi che rimangono sempre, come la famiglia, temi tradizionali anche un po’ del fare teatro in questo paese, ma cominciano a vivere la pressione dell’attualità, della paura, della catastrofe, del non sapere dove ci porterà il futuro. Il mezzo teatrale consente una rottura dell’unidirezionalità delle informazioni alla quale siamo sottoposti tramite i mezzi tecnici attuali, cioè ci sottrae all’essere sempre solo a confronto con noi stessi. Nelle scelte abbiamo cercato di sbilanciarci in questa direzione, anche perché un contesto come Romaeuropa lo reclama particolarmente. Il confronto con la scena internazionale dal punto di vista dei temi è ciò che fin da subito la direzione ci ha messo sotto gli occhi. Perché in Italia si prende così poco parola? Perché questi ragazzi non si esprimono su dei canali di senso che invece altrove in Europa gli stessi coetanei praticano con una grande disinvoltura? Piano piano anche questo è arrivato, e il rallentamento secondo me sta sempre nella difficoltà di accedere al mezzo produttivo: magari le curiosità, gli interessi e le pulsioni ci sono, però si fa fatica a completare il ragionamento attraverso un’opera finita perché la macchina produttiva è lenta.
Come avviene dunque la selezione degli artisti nell’ottica di quell’attenzione non al prodotto finale ma al processo? Quali sono gli aspetti più delicati della scelta?
È importante capire che la creatività ha degli iter molto aritmici, soprattutto quella emergente. Non è detto che proceda con un ritmo costante, non è detto che possa arrivare a compimento in un lasso di tempo dato. Per questo nel processo di scelta tante volte intervengono delle sane aritmie: io mi premuro sempre di aprire dei dialoghi con un numero più largo di artisti. Ma gli artisti con cui comincio a dialogare oggi non necessariamente l’anno prossimo saranno programmati; può darsi che succeda tra due anni, può darsi che non succeda mai, o che non succeda dentro Anni Luce ma che poi facciano un salto talmente grande da finire nella programmazione principale, può darsi che invece sia proprio il momento di non affacciarsi al festival, di fare un altro tipo di esperienza prima. Occorre cercare di non leggere tutto in una linea retta che faccia assomigliare il processo creativo al processo produttivo di qualunque altra cosa. Questa è un’imposizione molto forte che vige sugli artisti e che condiziona tantissimo anche i risultati di alcune scelte di programmazione. Il sistema ci porta inevitabilmente a dover individuare in tempi dati quello che sarà programmato a distanza di molto tempo. Nei contesti istituzionali come Romaeuropa bisogna prendere decisioni con un anno d’anticipo e nella creatività emergente un anno d’anticipo è un salto nel vuoto. Quindi quello che facciamo è cercare di individuare delle luccicanze, delle potenzialità. In questo senso la grande innovazione è accompagnare, perché se io rischio un po’ a scatola chiusa, poi ho la responsabilità di condividere lo sviluppo della creazione. Sono molto rigida in questo senso, pretendo sempre di vedere, di andare in presenza, di non mediare le esperienze di contatto con tutte le fasi di prova, di scrittura, di pensiero degli artisti. Però è chiaro che il gioco d’anticipo crea un grosso condizionamento.
Serve uno spazio vuoto per poter accogliere il nuovo, se lo spazio invece è già definito è molto difficile che il nuovo si compia e questa è una delle responsabilità più grandi che ci dobbiamo prendere. Con il bando di Powered by Ref abbiamo potuto creare uno spazio vuoto che si riempie all’ultimo momento e questa è una cosa rara. Questa rassegna ha anche la sua fragilità di risultato: siamo stati molto fortunati perché abbiamo avuto artisti che poi si sono affermati con grandi riconoscimenti trasversali, però allo stesso tempo abbiamo corso molti rischi e io rivendico fortemente quel rischio. Perché il fallimento è una condizione ineliminabile della scoperta, tanto per gli artisti quanto per i curatori. Esagero ma sono seria quando dico che non mi importa il risultato, mi importa l’onestà del processo, mi importa l’abnegazione, l’investimento, il fatto che queste persone abbiano davvero una necessità espressiva bruciante, che non lo facciano tanto per fare, che non siano mossi dalle motivazioni sbagliate. Lavorare con artisti emergenti significa capire la fragilità e le ondulazioni del loro percorso: spesso esplorano il loro modo di fare teatro, il proprio linguaggio mentre lavorano alle opere che accompagniamo. Non è ancora un fatto dato e bisogna farlo sbocciare. Creare le condizioni perché questo accada vuol dire anche accogliere il frutto ancora non innestato.
Forse la difficoltà nel rispondere a certe domande non è soltanto immaturità artistica, ma proprio disabitudine a sentirsele porre…
Sì, le giovani generazioni vengono interpellate molto poco in generale, si crede che non abbiano una legittimità di parola, invece bisognerebbe scoprire che questi sguardi ci informano. Magari non sono già autoanalitici, non sono in grado di inquadrare le loro riflessioni in un senso più trasversale, ma i loro sguardi ci informano su quello che non sappiamo ancora, quindi in realtà è proprio il momento di convocarle queste voci e in questo senso non è solo artistica la riflessione che sto condividendo con te, però lo è massimamente nel momento in cui bisogna dare l’opportunità di un palcoscenico e degli strumenti. Francamente mi fa piacere vedere qualcuno che corre il rischio di dire la propria, di trovare il proprio linguaggio piuttosto che magari giocare in protezione, andare sul sicuro perché ci muoviamo in dei territori più dati.
Com’è cambiato dunque il tuo lavoro e come lo vivono gli artisti?
Di questo sono molto soddisfatta perché il lavoro è molto più sporco: bisogna mettere le mani nella materia molto di più, anche nelle umanità. E questo lega molto gli artisti, non solo a me, a noi come rete di partner, ma li lega anche tra di loro, perché non si sentono esposti, ma sentono di star camminando insieme. Questo secondo me è il risultato maggiore di questa inversione di tendenza che si è generata dentro Anni Luce: ha trasformato tanto lo spazio di programmazione quanto lo spazio di indagine del bando, li ha resi luoghi in cui gli artisti hanno il tempo di confrontarsi, di essere spettatori delle prove di qualcun altro, di provare a ragionare anche attraverso gli occhi di qualcuno che poi crea secondo paradigmi completamente diversi. Vogliamo cercare di dare a questa generazione l’opportunità di essere una comunità artistica, non solo in competizione ma in cammino, concorrendo in qualche modo alla creazione dell’immaginario dell’altro, anche se è molto diverso, anche se non gli appartiene, anche se è discutibile. Questo richiede un grande investimento individuale e il rispetto del lavoro degli altri, del senso di squadra. Per questo la cura, l’affetto, l’empatia, la specificità, fanno la differenza. Perché ci invitiamo a una prossimità, a un’esclusività molto rara rispetto al sistema dominante. È come se ti stessero facendo costantemente la torta di mele della nonna, capito? Non può essere quella comprata che apri dalla busta. Deve essere fatta con le tue mani, sbagliata rifatta, la cucina tutta sporca. Però tu poi fai quel piccolo morso lì insieme a me e abbiamo condiviso tutte quelle ore.
In questa prospettiva il pubblico che ruolo gioca? È cambiato il suo ruolo, o è cambiato proprio il pubblico di Anni Luce nel tempo?
È cambiato molto. Con questo meccanismo di ingaggio di tutta la rassegna verso se stessa, verso gli artisti, chiaramente l’ingaggio verso il pubblico è stato molto più ampio, la comunità si è consolidata, si è rinnovata. Sono due o tre anni in cui c’è un’atmosfera completamente diversa, una partecipazione molto più allegra, molto più trasversale: c’è un pubblico sì di addetti ai lavori, chiaramente di aspiranti artisti, di allievi, di giovanissimi, ma c’è anche tanto pubblico del festival che ha capito l’inquadramento della rassegna e che quindi è curioso di vedere queste proposte. Non è una cosa scontata, è stato difficile più di tutto comunicare la specificità di questa rassegna alla stampa, al pubblico del festival, riuscire a far capire che tipo di esperimento era e come quindi andasse vissuto. Quel momento è una domanda aperta, rivolta a loro. Cioè non è un fatto concluso, non è ancora un’affermazione, ma una domanda, dei punti di sospensione se proprio va bene. Secondo me adesso si è creata una comunità molto più estesa e partecipativa, molto più curiosa, che viene con un atteggiamento festoso nel senso rituale del termine: l’esperimento riguarda anche loro e lo sentono. Non vengono più passivamente ad assistere a uno spettacolo con lo stesso ruolo che hanno magari in opere più compiute, più affermative, in cui comunque ci sono dei fatti intellettuali, estetici, dati, quindi dove tu ti devi porre in una certa posizione dialogica. Vengono anche a dire la loro, a sapere che poi la loro opinione, la loro reazione cambierà forse le traiettorie di questi artisti. Stanno festeggiando questo rischio anche loro con noi, e anche in questo la presenza fisica di chi si occupa delle scelte, il desiderio di dialogo di chi si occupa delle scelte è molto importante, cioè sapere che comunque lì c’è la persona a cui dire «ma che hai fatto?», così come la persona a cui dire «oh però mica male». Poi è chiaro che i meriti sono tutti degli artisti e le colpe tutti dei curatori…
La settima edizione di Anni Luce coincide con i dieci anni di Carrozzerie n.o.t., lo spazio che hai fondato e animi insieme a Francesco Montagna e dal quale provengono le buone pratiche di cui ci parli, questo approccio empatico connaturato al lavoro. Ѐ stato difficile innestarlo in una realtà istituzionale come Romaeuropa?
Io so di annaffiare una pianta di senso che è molto personale, perciò è chiaro che vederla accolta in un’istituzione non è scontato, perché ci sono centouno motivi per cui potrebbe essere molto difficile abbracciare questo punto di vista. Mi ritengo molto fortunata da un punto di vista curatoriale, di libertà, di espressione, di programmazione e sono convinta che questa mia funzione si sia nutrita dell’esperienza di Carrozzerie e anche della capacità di creare in autonomia delle condizioni, un sistema, dei parametri che hanno espresso nel tempo la loro leggibilità, la loro identità. Poi è chiaro che è indispensabile uno slittamento di senso, io lo richiedo a me stessa, prima ancora che mi sia richiesto, perché conosco molto bene la manifestazione e perché voglio che serva anche a qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che esprime Carrozzerie, ma allo stesso tempo è il ruolo di questa visione etica che è personale, condivisa con Francesco e di cui sono tirati su i muri di Carrozzerie. Sono dei sabotaggi gentili, che io credo si possano portare un po’ ovunque. Portare con sé questo senso di squadra, di condivisione, produce un frutto reale e concreto: è un modo di guardare al mondo poco praticato, ma io credo che sia avveniristico, non vedo un’alternativa vera.
L’esperienza di Anni Luce è un’occasione importante per gli artisti, anche rispetto alle buone pratiche coltivate all’interno. Ma cosa succede poi? Secondo te cosa dovrebbe cambiare fuori? Per fuori intendo ovviamente dal macrosistema al concreto delle pratiche che già magari sono in atto ma che andrebbero rafforzate.
Il dialogo aperto con gli artisti include un ragionamento che riguarda gli obiettivi di questi spettacoli nella loro vita successiva al debutto al festival e non soltanto in quello come punto di arrivo: in qualche modo cerchiamo sempre di concepirlo come un punto di passaggio, anche con grande umiltà, una piccola rassegna dentro un grande festival. Non lo so cosa dovrebbe cambiare fuori, non penso che questa esperienza sia perfetta perché tutto è perfettibile. La scommessa è riuscire a lavorare in contesti completamente indipendenti e insieme in contesti molto istituzionali e capire un po’ le logiche che sottendono entrambi i luoghi, per far sì che alcuni ragionamenti infondano il meglio che possono a specchio. Confrontarsi con il requisito formale che permette l’accesso al finanziamento è obbligatorio per alcuni soggetti e di per sé non è necessariamente limitativo delle capacità di realizzare progetti. È chiaro che si può stare solo a quello oppure si può provare a fare di quello uno strumento per fare altro. In qualche modo, lavorando a cavallo tra queste cose, per me è spontaneo. Tendenzialmente a Carrozzerie noi cerchiamo di rendere tutto sostenibile ma non abbiamo niente per farlo, quindi è un ragionamento che è sempre interno al meccanismo. Quindi a me sembra un miracolo improvvisamente avere a disposizione delle risorse e degli strumenti per poter fare le cose. Chiaramente faccio in modo di sovrascriverle al massimo con il senso che mi porto appresso e credo che questo sia in realtà sempre possibile: ci sono tanti casi virtuosi in cui si cerca di far sì che delle modalità possano essere messe a servizio degli artisti pur rispondendo alle esigenze dei parametri, ai vicoli ciechi del finanziamento, allo slalom assurdo che bisogna fare per ottenere delle risorse a sostegno delle fasi più esposte che sono la creazione, la ricerca pura, quella più inascoltata tra le esigenze del settore. Credo che negli ultimi dieci anni questo sia cambiato tantissimo: le nuove generazioni, pur essendo esposte a tante crisi globali, nello specifico di questo settore, sono anche molto fortunate perché è cambiato il modo di strutturare gli strumenti: moltissimi hanno cominciato a pensare alle opportunità da mettere al servizio e quindi hanno creato delle situazioni ibride in cui magari un’occasione di rappresentazione si lega anche a qualche altro strumento, qualche altra opportunità. C’è uno sforzo di generosità e di visione che sento comunque condiviso anche da tanti altri soggetti.
Sabrina Fasanella